Il rospo che trionfa quando precipita giù dalla cima della montagna

Quando il celebre autore di romanzi d’avventura, nonché precursore del genere investigativo, Sir Arthur Conan Doyle scelse nel 1912 di approcciarsi al tema della biologia e della natura, scelse di farlo da un’angolazione certamente speculativa, eppure non del tutto fantastica per il grado di conoscenze scientifiche raggiunte fino a quel fatidico giorno. Se mai il suo Mondo Perduto dei dinosauri potesse ancora esistere, non sarebbe stato di sicuro assurdo collocarlo proprio nell’entroterra venezuelano, tra le asperità offerte da un particolare tipo di rilievo montuoso carsico, il cosiddetto tepui. La “casa degli Dei” in lingua nativa dei Pemon, riconoscibile per la particolare forma alta e dalla cima piatta, in maniera non dissimile dalla tipica mesa sudamericana. Ed altrettanto difficile da popolare per qualsiasi tipologia di creature, vista la poca fertilità del suolo nonostante le frequenti piogge e le temperature causate dai venti gelidi che sferzano quelle altitudini, in maniera continuativa e possente. La configurazione paesaggistica che già veniva immaginata dal famoso scrittore, ma che avremmo visto formalmente confermato soltanto dalle esplorazioni compiute in epoca più recente, era tuttavia quella di una vera e propria valle delimitata dalle alte muraglie dei tepui, all’interno della quale la natura potesse svilupparsi (o mancare di farlo) in maniera totalmente scollegata dal resto del continente. Teoricamente popolato da piante ed animali totalmente estinti nel resto del pianeta, un po’ come avvenuto sulle isole Galapagos a largo dell’Ecuador. Ma per un periodo più antico di svariati milioni di anni. E sebbene ancora nulla di simile sia stato effettivamente scoperto, ciò che oggi sappiamo per certo è che una simile visione trova l’effettiva riconferma, nella straordinaria biodiversità della cima di queste tavolate di pietra calcarea e marmo, ciascuna delle quali popolata da specifiche forme di vita in grado di adattarsi a condizioni abitative tanto estreme. Come le tarantole (fam. Theraphosidae) e coloro che per sopravvivere devono sfuggirli quasi tutti i giorni, le piccole rane dei generi Oreophrynella e Tepuihyla, la cui lunga storia evolutiva le ha portate a sviluppare una notevole capacità di arrampicarsi, perdendo in cambio l’innata propensione al salto per tentare di mettersi in salvo dai predatori. Il che costituisce la base di un particolare meccanismo difensivo, annotato per la prima volta in uno studio realizzato nel 1989 per la Smithsonian Institution da Roy McDiarmid e Stefan Gorzula. Stiamo parlando, tanto per essere chiari, di uno di quei comportamenti animali che devono essere osservati con i propri occhi per riuscire a crederci, il che rende tanto più utile la ripresa offerta in questo documentario della BBC, ad oggi l’unica di pubblico dominio capace d’illustrare il sistema da cui prendono collettivamente il nome i piccoli anfibi appartenenti al gruppo informale dei pebble toads (let. “rospi ciottolo”).
Di sicuro, un approccio alquanto insolito alla questione, che invece di evitare totalmente di affrontarla trova un’alternativa forse non ideale, ma che potremmo definire indubbiamente il minore dei mali: lasciarsi andare, semplicemente, affinché la gravità possa occuparsi del resto. Ecco dunque il coraggioso esemplare di O. nigra dalla pelle nera come la notte, accompagnata da almeno una mezza dozzina di commenti audio e musicali differenti, che all’avvistamento dell’aracnide affamato sceglie semplicemente di ritirare le zampe in corrispondenza del suo corpo, iniziando la lunga rotolata che dovrà portarlo, a meno di sgradevoli soprese, ad una ragionevole distanza di sicurezza. Il che funzionerebbe come via d’accesso alla salvezza, anche senza la relativa delicatezza ad ogni sollecitazione e caduta che caratterizza la tarantola, la quale semplicemente non può rischiare di avventurarsi lungo alcun tipo di pendio scosceso. Nessuna menzione divulgativa, d’altra parte, viene offerta nel documentario per quanto concerne le abitudini ed il metodo riproduttivo di questi anuri, non particolarmente studiati almeno fino all’epoca recente, grazie all’arrivo sulla scena di una nuova generazione di studiosi interessati all’argomento.

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La battaglia delle foche con il globo vermiglio che si gonfia prepotentemente dal naso

“Questo è il mio fagiolo, ce ne sono molti uguali, ma questo è il mio. La mia zampogna è la mia migliore amica. È il segno appariscente del mio amore. Devo dominare il mio pallone da spiaggia, così come domino il mio stesso amore.” Parole forti da una foca molto grande, imponente addirittura. Il Dio peloso della spiaggia in riva all’isola del ghiaccio senza tempo. Come credi di poter varcare i limiti di questo territorio, giovane aspirante? Tutte le donne del vicinato, e le loro sorelle, e le loro figlie, aspirano a guardare solamente me. La tua borraccia è poco più che un fazzoletto, rispetto alla mia: “Osserva! PFHPFHPFHFPFH” Mentre l’acqua del solenne bagnasciuga si ritira, nell’apparente intento di formare l’efficiente prototipo naturalistico di un’arena, il focoso pinnipede da appena una dozzina di natali e tre quintali circa avanzò imperioso, sperando di poter sfidare finalmente il maschio dominante di oltre 400 Kg. Sulla nera testa, già pronta l’alta cresta della prima delle due, e sotto di essa l’ineguale massa dell’altra vescicolare lanterna color vermiglio infernale. Eppure entrambi gli ornamenti, nonostante l’aspetto fragile e ingombrante, non sembravano in alcun modo rallentarlo, mentre sobbalzando sulle pinne drammaticamente insufficienti a sostenere un’andatura agevole sopra la sabbia, caricava l’alta sagoma del suo nemico ed auto-dichiarato dominatore. L’aria rarefatta dello gelido scenario sembrò fare una pausa drammatica, mentre i versi gutturali dei giganti risuonarono a parecchie centinaia di metri di distanza. Sulla cima della rupe all’altro capo della baia, l’intero gruppo delle foche femmine voltò i propri placidi sguardi, come per l’impulso telepatico di un demiurgo artico improvvisamente risvegliato. Così le zannute belve spalancarono le fauci. Guardarono per pochi attimi agli uccelli nel distante cielo, prima di abbattere la propria massa significativa in una zuffa senza nessun tipo di quartiere. La spiaggia bianca, in breve tempo, si tinse del colore di una rosa, colta presso le distanti rive dell’oceano Settentrionale.
Scene che si svolgono ogni anno, puntualmente, tra aprile e giugno, durante la “primavera” di luoghi dal clima abbastanza gelido, da poter congelare una lacrima prima che abbia il tempo di toccare terra: la Norvegia, l’arcipelago delle Svalbard, l’isola di Bear, l’Islanda, il golfo di Saint Lawrence in Quebec. E naturalmente, la vasta e desolata Groenlandia, landa selvaggia dove ancora creature come la foca incappucciata (Cystophora cristata) possono trovare tutto lo spazio di cui hanno bisogno per sopravvivere e condurre le proprie esistenze in maniera (relativamente) indisturbata. Un proposito che include, secondo il preciso copione perfezionato attraverso i secoli, la realizzazione occasionale di tali sanguinosi scontri, rivelandosi capaci d’infliggersi significative ferite a vicenda. Certo, a meno che, sfruttando una propria particolare propensione evolutiva, non riescano a decidere chi debba primeggiare sulla base di quel vistoso tratto di cui la biologia ereditaria è riuscita a dotarle. Se avete presente la proboscide dell’elefante marino (gen. Mirounga) dovreste, a questo punto, riuscire a immaginare ciò di cui stiamo parlando: una vistosa appendice floscia di pelle spessa e raggrinzita, che si agita a casaccio mentre l’animale solleva e muove la grande testa ruggendo tutta la sua furia invereconda. Ma il sistema d’attrazione usato da questi alternativi rappresentanti della famiglia Phocidae si espleta in una maniera che potremmo definire, sotto diversi punti di vista, decisamente più sofisticato. Grazie alla capacità di chiudere a comando le proprie gigantesche narici infatti, questi guerrieri del bagnasciuga possono ridirezionare la copiosa aria furiuscente dai propri polmoni all’interno di una serie di camere d’aria, la prima delle quali si trova in corrispondenza della fronte dell’animale. E la prima, alquanto incredibilmente, in corrispondenza della membrana che separa gli spazi all’interno del naso. Il che genera, in rapida sequenza, prima un rigonfiamento carnoso di colore nero e quindi un altro, sufficientemente venoso da apparire del rimanente colore utilizzato come titolo per il romanzo francese di Stendhal. Black & Red, the Devil’s dread. This one litoral, you shall not thread

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L’improbabile alleanza dell’uccello che protegge le uova di coccodrillo

Uno è leggero, svelto, piumato, l’altro grosso, forte, scaglioso. Sarebbe davvero possibile immaginare, nell’attuale scenario della natura, due discendenti altrettanto all’opposto dall’antica schiera biologica dei dinosauri, famosamente destinati ad estinguersi ma non prima di dare i natali ai futuri esseri viventi di questo affollatissimo pianeta. Ed sarebbe certamente appropriato muovere l’obiezione secondo il coccodrillo del Nilo (C. niloticus) non derivi proprio da alcuna stirpe, proprio perché rimasto essenzialmente uguale a se stesso per svariati milioni di anni, giungendo a costituire un letterale fossile vivente del continente africano. Decisamente più complessa risulta essere, d’altra parte, la classificazione dell’occhione acquaiolo (Burhinus vermiculatus) o “chiurlo africano” come usano chiamarlo i parlanti di lingua inglese, sebbene il suo grado di parentela con un rappresentante della famiglia degli scolopacidi sia tenue a dir poco, collocandolo piuttosto a pieno titolo nell’insieme tassonomico straordinariamente uniforme dei Burhinidae (o “ginocchia-spesse” che sono tutti marroni a macchie biancastre, per favorire le capacità mimetiche, hanno tutti tra i 35 e i 45 centimetri di lunghezza per un peso di 300-400 grammi. Ma contesti ecologici, e comportamenti ereditari, che non potrebbero essere più diversi. Così che troviamo quest’essere, identificato in Africa con l’appellativo informale di dikkop, nidificare prevalentemente presso il corso dei fiumi o le rive degli acquitrini, dove scavato un lieve avvallamento nel terreno è solito deporre serenamente le sue due fragili uova nel corso della stagione secca. Per un sistema che sembrerebbe esporle ad ogni tipo di assalto da parte di predatori d’occasione, come la forma strisciante dell’implacabile varano se non fosse per la scelta del periodo particolarmente funzionale a uno scopo; poiché il tutto si svolge nelle precise settimane, o mesi, durante cui la più grande ed antica lucertola di questo mondo è solita intraprendere la stessa identica attività. Ponendo le basi di quella che potremmo definire, senza alcun ombra di dubbio, una delle collaborazioni più straordinarie ed impreviste dell’intero mondo animale.
La scena tanto spesso mostrata nei documentari vede l’inizio sempre nella stessa identica situazione: un lieve movimento tra l’erba, riflessi verdi e gialli che sinuosamente procedono verso l’obiettivo attentamente selezionato. Si tratta niente meno che di lui/lei: l’affamato Varanus niloticus, tra i più efficienti ladri di uova che la natura abbia mai saputo generare. Che sembrerebbe aver fiutato, tramite l’impiego dei suoi sensi affinati dal bisogno, il pasto in grado di fornirgli l’auspicato sostentamento per tutto il mese, se soltanto gli riuscirà di avvicinarsi nel momento opportuno e mettersi a scavare, mentre la madre-coccodrillo si trova momentaneamente a riposo nell’acqua o ancor più semplicemente, trascorre qualche ora di quiete avendo calato le sue palpebre rettiliane. Ed è qui che entra in gioco, con precisione encomiabile, l’ingegnoso sistema creato da quel notevole pennuto, che gli storici latini a partire da Plinio il Vecchio erano giunti a definire crocodili avem, dopo aver intuito un qualche tipo di correlazione tra due tipologie di esseri a tal punto diversi tra di loro, benché pensassero erroneamente che il secondo pulisse la bocca al primo, in un tipo di commensalismo che ritroviamo piuttosto coinvolti l’ippopotamo e la bùfaga (gen. Buphagus) passeriforme che vive comunemente sulla sua grande schiena. Mentre le stesse povere uova dell’occhione, tanto apparentemente esposte alla fame del varano da costituire una letterale esca difficile da trascurare, sono in realtà la ragione per cui il coraggioso uccello spalanca le sue ali, si mette a girare attorno al pericoloso predatore e soprattutto, inizia a produrre il caratteristico fischio bitonale “Tu-li! Tu-li!” Che nel suo ricco repertorio fonico indica una situazione di pericolo incombente. Così che nel seguito inevitabile della vicenda, il drago sopito non può fare a meno di risvegliarsi, e proprio mentre il piccolo “chiurlo” non può fare a meno d’iniziare a ritirarsi, subentra sulla scena una madre dalle dimensioni decisamente più imponenti, anche se animata dallo stesso principio protettivo nei confronti di una vulnerabile prole non ancora venuta al mondo. Segue brevissima battaglia, che non può neppure essere definita una vera battaglia, mentre il coccodrillo dal peso di circa due quintali carica con feroce enfasi l’eterno assassino dei propri piccoli che può arrivare, dal canto suo, ad una stazza massima di una ventina di Kg. Anche se, purtroppo, non sempre le cose sembrano andare per il meglio…

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Incontri ravvicinati con lo squalo rimasto immutato dall’epoca del Giurassico inferiore

Giustificata può sembrarci l’ipotesi secondo cui gli abissi marini siano abitati essenzialmente da due sole tipologie di creature, entrambe dalle dimensioni superiori alle nostre: quelle che potrebbero facilmente mangiarci, e se soltanto gli viene concessa l’occasione sono pienamente disposte a farlo, e quelle che invece non ne possiedono l’abilità inerente, e proprio per questo, non provano neppure a farlo. Quando l’esperienza ed il comportamento messo in atto da parte del visitatore nel qui mostrato frangente, riscontrato dall’equipaggio del sottomarino/batiscafo a bolla di classe Triton, “Nadir”, appare perfettamente valido nel confermare come soltanto perché qualcosa normalmente non succede, questo non riesce ad escludere del tutto la sua imprescindibile plausibilità nell’incerto proseguire dei giorni. Siam qui in effetti a largo dell’isola di Eleuthera, durante il viaggio esplorativo della nave OceanX nell’ottobre del 2019, vascello protagonista dell’omonima iniziativa oceanografica finanziata dal magnate dell’alta finanza Ray Dalio, con l’obiettivo dichiarato di “Fotografare gli abissi e riportarli di fronte allo sguardo di coloro che si trovano in superficie.” Abissi popolati da creature come il qui presente impressionante esemplare dall’aspetto preistorico di Hexanchus griseus, lo squalo che siamo abituati a chiamare in Italia capopiatto, sei branchie o pesce vacca, secondo le occasionali osservazioni verificatesi a più riprese nello stretto di Messina. Creatura con distribuzione nei fatti globale negli ambienti dalle acque temperate, le cui considerevoli dimensioni di fino a 6,1 metri bastano a farne uno dei predatori rappresentanti della sua classe più imponenti, capace di rivaleggiare con il giustamente temuto Carcharodon carcharias, il grande squalo bianco. Ma che risulta essere, rispetto ad esso, molto più raro in tutti gli habitat di provenienza, solitario e soprattutto incline ad abitare profondità superiori ai 1000 metri tali da non incontrare semplicemente alcun tipo d’invitante spuntino umano, intento a mantenersi sereno praticando una piacevole (?) nuotata.
Ecco dunque presentarsi l’astrusa scena, nel quadro tenebroso di un ampio spazio abissale, in cui la sagoma vagamente riconoscibile di questo vero e proprio fossile vivente sembra palesarsi all’improvviso di fronte alle telecamere dei tre membri dell’equipaggio del piccolo sottomarino, che sembrerebbe averne richiamato l’attenzione attraverso l’impiego di esche sanguinolente e lo stesso propagarsi luccicante del suo potente faro d’ordinanza. Con uno scopo in realtà nobile consistente nell’applicazione di una targhetta di tracciamento, del tipo destinato a studiare il comportamento e lo stile di vita di questa creatura sostanzialmente ignota alla scienza, le cui abitudini potrebbero chiarire l’effettivo processo che ha portato attraverso i millenni all’attuale aspetto di tutte le altre specie di squalo. Finalità già praticata in precedenza a partire dagli anni ’90, previa cattura e trascinamento di sfortunati esemplari fino alla superficie, un’esperienza considerata particolarmente traumatica, e potenzialmente accecante o letale, per questi esseri normalmente placidi ed abituati a sopravvivere nell’oscurità pressoché totale. Fondamento essenziale dell’idea, fortemente voluta dal team di naturalisti formato da Dean Grubbs, Edd Brooks e Brendan Talwar, per effettuare la stessa procedura mediante l’impiego di un fucile a fiocina puntato e fatto sparare dall’interno del trasparente veicolo, proprio laggiù dove questi esseri sono soliti trascorrere le loro predatorie giornate. Un compito che potremmo definire, a dire il vero, più facile in via teorica che nell’esplicita manifestazione della realtà…

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