Gli aerei di Düsseldorf che atterrano durante la tempesta Friederike

Tutte le notizie dei telegiornali, i reportage cartacei, le testimonianze radiofoniche e il sentito dire sul Web, non possono sostituire l’esperienza diretta di una situazione critica, per il modo in cui essa può riuscire a condizionarti, o rovinarti totalmente la giornata. E può sembrare fin troppo spesso che le alterne vicende di nazioni relativamente distanti, in quanto situate all’altro lato di un continente, possano riguardarti ben poco. Finché, alla velocità di un viaggio che ti porta oltre le nubi (per ragioni di famiglia, di lavoro etc…) non ti trovi nel velivolo che dovrà posare le sue stesse ruote in mezzo a quello che potremmo anche definire, non del tutto metaforicamente, l’occhio stesso del ciclone. Nove morti all’attivo, case scoperchiate, autotreni rovesciati, interi boschi sradicati, coi tronchi gettati sulle strade come fossero stuzzicadenti. Scene di persone intente a camminare per la strada, quando una raffica improvvisa non soltanto le getta a terra, ma inizia a trascinarle via sul ruvido asfalto. Ciò che questo inizio del 2018 ci ha portato, o per meglio dire ha portato ai nostri vicini francesi, tedeschi ed olandesi, è una manifestazione del terrore stesso che si è fatto vento, semplicemente il caso più grave, in tal senso, verificatosi nel periodo degli ultimi 11 anni. E saranno in molti, al termine dell’episodio, a poter dire di aver vissuto tutto questo in maniera fin troppo diretta e coinvolgente. Ma forse nessuno quanto quel gruppo di malcapitati viaggiatori che, per uno scherzo del destino, avevano in programma di arrivare con l’aereo in una delle zone colpite proprio nella giornata del 18 gennaio, ovvero prima che entrassero in vigore i blocchi per precauzione di tutto il traffico volante in arrivo.
Ora per chi non avesse mai avuto occasione di conoscerlo, l’Aeroporto Internazionale della città di Düsseldorf, base operativa della compagnia aerea Eurowings, è una struttura spaziosa, moderna e conforme ai più severi standard di sicurezza contemporanei. Le sue due piste, lunghe rispettivamente 3 e 2,7 Km, sono sufficientemente ampie da ospitare l’atterraggio dei più grandi aerei passeggeri attualmente in servizio, caratteristica che gli permette, inoltre, di restare operativo al 100% con venti di traverso di fino a 30-35 nodi, ovvero il limite operativo massimo di aerei come il Boeing 737, il bimotore più diffuso al mondo. Ma che succede quando le condizioni meteo s’inaspriscono improvvisamente, e le alte e basse pressioni causano degli spostamenti d’aria che iniziano a spostare l’aria a una velocità anche due volte superiore? Per prima cosa, si comunica la situazione ai piloti, affinché questi ultimi possano prendere una decisione informata in merito al fatto che sia il caso di proseguire, nonostante tutto, verso l’obiettivo designato, oppure cambiare l’ultima sezione della rotta, per portare i propri passeggeri al sicuro presso piste di atterraggio più tranquille. Ma poiché questa non è sempre la scelta effettuata dai diretti interessati, a volte per direttive  della linea aerea, altre per semplici considerazioni relative al carburante rimasto (è sempre presente, ovviamente, un margine) potrà capitare che pochi, o molti coraggiosi, si ritrovino a tentare nonostante tutto di arrivare a destinazione nel prefissato luogo ed orario. Ed è allora, volenti o nolenti, che s’iniziano le danze.
In questo video caricato sul canale Cargospotter, in realtà parte di un’ampia collezione di scene simili che stanno comparendo da una parte all’altra di YouTube, alcuni appassionati di aviazione hanno compilato una compilation delle riprese dirette, effettuate con cellulari o videocamere, da coloro che hanno deciso di offrire una testimonianza di questo momento critico e, a dir poco, assolutamente estremo. È semplicemente illuminante la maniera inversamente proporzionale alle dimensioni in cui i diversi aeromobili reagiscono alle forze in gioco, con un Bombardier Dash 8 (circa 70 passeggeri) che si avvicina al suolo alla maniera di un pianeta che sta per essere inghiottito da un buco nero. Mentre l’unico Airbus A380 della sequenza, il singolo più grande aereo passeggeri al mondo (fino a 853 persone a bordo) non sembrerebbe neppure risentire del vento, se non fosse per i rapidi movimenti osservabili del suo timone di coda. Fermo restando che siamo in una di quelle situazioni per cui, una volta che si fermano i motori, nessuno potrebbe fare a meno di trattenere un sincero respiro di sollievo…

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Il fenomeno calcistico dei mini-tornado

Non è soltanto la dichiarazione d’intenti, ossessivamente ripetuta ogni finale o inizio di episodio: “Voglio portare la mia squadra al campionato nazionale!” Né il campo erboso che diventa, grazie agli espedienti del montaggio immaginifico, più lungo di una tratta ferroviaria interurbana, da percorrere rimuginando sulla vita, il senso del futuro, gli eventi pregressi di una vita tormentata nonostante i soli 12 anni di età. Ma piuttosto, i tiri in porta: Drive Shot, Skydrive Shot, Ultimate Flying Drive Shot! Col pallone che diventa ovale, tanta è la potenza che gli ha impresso Holly (al suo paese Capitan Tsubasa) per volare senza falla fino al centro del bersaglio designato. Non per forza in linea retta: gli effetti, in uno dei più celebri cartoni animati degli anni ’80, erano del tutto fuori dal normale. Traiettorie spiraleggianti e quasi sovrannaturali, tali da far pensare all’esistenza di una sorta di campo gravitazionale invisibile, spostato innanzi con la forza del pensiero da un’intera giovane classe di X-Men. O un vento invisibile sempre presente, comandato dal potere sciamanico della sceneggiatura. Il problema della suggestione, tuttavia, è che essa costituisce anche una forma di mimési. E ciò che viene disegnato, a generazioni distanza, può finire per trovare posto tra i minuti della vita reale.
Lillehammer, terra di Norvegia: non esattamente un luogo caldo e secco, conforme al prototipo meteorologico di un tale piccolo disastro. Se non si vuole fare i conti col problema che a voler guardare i fatti, parrebbe colpire la più popolare attività sportiva del mondo: così il 29 aprile scorso, mentre due squadre di ragazzi si scontravano nel passatempo con gli scarpini, un vortice di polvere si è materializzato all’improvviso. E iniziando a muoversi in maniera perpendicolare dal parcheggio, ha smosso un po’ la situazione fra le righe bianche, ha fatto sollevare in aria qualche giacca e vari oggetti personali…Scaraventato a terra un giocatore… E a un certo punto se l’è presa con la porta di metallo, sollevandola e facendola girare. Poi, come vuole la convenzione, si è inoltrato verso l’aperta campagna antistante. Per andare a spegnarsi tra l’erba non tagliata. È uno strano fenomeno, questo, che parrebbe ripetersi in diversi paesi al mondo: Giappone, Corea, Germania, Messico, Brasile… Sempre in un campetto o in uno stadio, sempre durante la partita: il tornado sabbioso, riproduzione in piccolo delle tempeste dell’Oklahoma, Kansas e del Texas settentrionale. Anche in luoghi dove il mesociclone è soltanto una mossa dei Pokémon, e i venti più forti non raggiungono la velocità di una rondine in volo. Avete mai cercato “tornado soccer game” su YouTube? E vi siete mai meravigliati, al numero dei video ritrovati? È una questione in realtà del tutto sensata, che nasce dal concetto stesso dello specifico fenomeno in questione. Che in realtà, non è per nulla ciò che sembra, bensì un dust devil, diavolo di polvere, o vortice di sabbia che dir si voglia. Che non è mai altrettanto devastante (ma non si tratta di una regola) proprio perché non nasce come manifestazione terrigena di un grande vortice su in cielo. E infatti, non si presenta affatto con la forma visibile di una nube. Bensì il prodotto di un tratto di suolo largo e caldo, in quanto esposto al Sole, sopra il quale si verifica un’area di bassa pressione. Al che, l’aria sottostante inizia ad allungarsi verso l’alto, con un caratteristico moto rotatorio. E a quel punto, allargandosi progressivamente, fa cadere verso il basso una quantità equivalente di aria fredda, creando un sistema stabile sul tempo medio, che si sposta molto spesso in linea retta. Con un palese risucchio, in grado di aspirare tutto quello che gli capita a tiro. Ciò che resta da fare, a quel punto, è solamente riprendersi il pallone. E aspettare che la crisi finisca per tornare nel regno della più pura immaginazione.

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La trappola dei canyon inondati all’improvviso

Un padre e uno zio, che arrancano a fatica insieme a due bambini nella spettacolare depressione di Little Big Horse Canyon, non troppo distante dal celebre Goblin Park. Ai lati, le pareti verticali di un avvallamento eroso in centomila anni tra le alte pareti di uno spento colore rosso ocra. E sopra, sotto, accanto, da ogni parte, c’è soltanto quella cosa: acqua, acqua a profusione. Che scende copiosa, che turbina e che vortica dapprima alle caviglie. Poi alla vita degli adulti, che corrisponde al petto dei loro futuri eredi. Si sente il più piccolo che fa al fratello: “Ho paura, my heart is pounding!” (Mi batte forte il cuore) mentre l’altro tenta di rassicurarlo: “Continua a camminare, siamo quasi arrivati.” Ma nessuno dei due era cosciente, all’epoca, del reale pericolo che stavano correndo. Della situazione così tragicamente analoga, almeno in linea di princìpio, a quella che costò la vita ad 11 persone nel 1997 presso la popolare località turistica di Antelope Canyon, e di nuovo nel 2015 ad altri sei nel Keyhole Canyon. Il fatto è che non sempre, nei territori aridi statunitensi, un inondazione è il prodotto delle condizioni meteorologiche pendenti in quel particolare luogo e momento. C’è un effetto incontrollabile di traslazione…
Il Grand Canyon, le cascate del Niagara. Dicono che nessun vero americano, nato in patria oppure all’estero, possa realmente dire di aver vissuto, se non visita nel corso della propria vita almeno uno di questi due fantastici fenomeni della natura. Ma che fare se egli non avesse il tempo, oppure le risorse, per vederli tutti e due? Dopo tutto, si trovano quasi agli estremi opposti degli Stati Uniti, separati da oltre 2.300 miglia di distanza! Niente paura. Dovendo scegliere, basterà optare per la grande depressione scavata dal Colorado River nel suolo friabile dell’Arizona, a patto di raggiungerla durante un giorno di pioggia relativamente intensa. Molti hanno narrato, su Internet, la portata di una simile esperienza: le decine o centinaia di cascate, che si formano istantaneamente dalla cima della gola, riversandosi con un ruggito dentro l’acqua sottostante, tra gli sguardi affascinati dei visitatori. Nel giro di pochi minuti, il seminterrato di un’intero deserto semi-arido, e per nulla permeabile, si trasforma nel suo unico condotto di drenaggio, mentre la diffusa coltre di sottili goccioline formano la base per migliaia d’imprevisti arcobaleni. È uno spettacolo fantastico, un ricordo destinato a rimanere negli annuari. Una fatale unione di acqua ed altitudine, in qualche maniera affine a quella del distante salto a ferro di cavallo, sito a suggellare la barriera tra gli Stati Uniti e la regione canadese dell’Ontario. Ma c’è un tempo e un luogo, un modo e un’occasione per qualunque cosa. E così come un getto fuoriesce placido e spontaneo, dal tubo per annaffiare il giardino, scaturendo invece come un fulmine, qualora si vada a bloccare in parte l’apertura con un dito, la magnifica visione può istantaneamente diventare un incubo, se soltanto ci si trova tra pareti più ravvicinate, magari un po’ più a nord, nel territorio ancor più brullo dello Utah. Un luogo in cui notoriamente, i crepacci scavati dai fiumi tendono ad assumere un aspetto molto peculiare, tortuoso e profondo, fantastico a vedersi, ma sopratutto stretto, angusto come l’andamento di un serpente a sonagli. Svariati sono i nomi che appartengono a questa lista, a parte quelli già citati poco più sopra: the Narrows nello Zion National Park, la più antica e celebre di tali attrazioni turistiche; il riconoscibile Glen Canyon, vicino a quella patria nazionale di determinati sport estremi che è il lago artificiale di Powell, creato nel ’63 da una delle dighe più imponenti degli interi Stati Uniti. E poi la miriade, una letterale costellazione di fessure che si trovano nei territori a sud dell’Interstatale 70: Buckskin, Escalante, Lamatium, Peak-a-Boo… Ciascuno dei quali associato, secondo la disciplina tipicamente statunitense del canyoneering (una sorta di alpinismo all’incontrario, perché scende, poi sale) ad un preciso codice che ne indica la difficoltà ed il rischio: da 1, la proverbiale passeggiata, a 5, canyon tecnico con la necessità di usare attrezzature speciali; da A, secco, a C, con corsi d’acqua significativi; e da I a VI, in base al tempo richiesto per portare a termine l’esplorazione. Ma naturalmente, come abbiamo dimostrato in apertura, i risultati possono variare in modo significativo sulla base alle condizioni meteorologiche vigenti…

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