La singolare fortezza di Aitoliko, piccola Venezia alle porte acquatiche d’Etolia

Che sia un luogo scarsamente noto ai turisti, lo si capisce dalla mancanza di testimonianze video a livello della strada registrate sui canali rilevanti di YouTube. Ciò che invece non manca affatto, ad opera d’innumerevoli aziende locali, enti preposti e semplici appassionati del volo telecomandato, sono le riprese in alta definizione effettuate mediante varie tipologie di drone. Del resto la parte storica della piccola città di Aitoliko, situata nella vasta laguna corrispondente all’estuario congiunto dei fiumi Aspropotamo ed Evinos. O per meglio dire le due lagune assai diverse, proprio per l’effetto della suddivisione operata dall’uomo tramite l’antica costituzione di un simile isolotto artificiale. Che nasce attorno al 900 d.C. ad opera dell’Impero Bizantino, in questa regione citata nei poemi omerici come luogo d’origine di molti orgogliosi guerrieri, con la specifica mansione di proteggere l’ingresso del golfo di Corinto. Sebbene all’epoca ed almeno fino al XII secolo, l’attuale terra emersa con la forma approssimativa di un limulo fosse in realtà composta da una quantità stimata di quattro o cinque isole distinte, interconnesse tra di loro tramite l’impiego di una serie di ponti di legno. Diventato in seguito famoso sotto la dominazione veneziana per l’estrazione di sale dal mare, praticata soprattutto nella vasta zona lagunare di Messolonghi, le cui acque raramente superano la profondità media un metro e mezzo, questo insolito insediamento avrebbe guadagnato un ruolo di primo piano durante il periodo delle guerre d’indipendenza combattute dai greci contro gli Ottomani, quando venne sottoposto a non uno, né due, bensì tre assedi particolarmente sanguinosi durante l’intero corso del XIX secolo, nell’ultimo dei quali si dice che soltanto 500 difensori combatterono contro le truppe turche composte da 5.000 uomini armati di tutto punto. Un ruolo di primo piano nella narrativa patriottica ellenica, che si trova pienamente rappresentato nell’annuale festa di Sant’Agata (Agiagathis) creata per commemorare un’importante riunione strategica da parte dei diversi leader dello sforzo bellico tenutasi presso il santuario dell’Assunzione in città, che incerti su come procedere raggiunsero un accordo a seguito di un improvviso terremoto, che si disse essere stato scatenato dalla santa in persona. Soltanto successivamente, nel 1848, l’allora sindaco Kourkomeli avrebbe chiesto personalmente un finanziamento al nuovo re Ottone I, per la costruzione dei due ponti della lunghezza approssimativa di 300 metri ciascuno, con lo scopo di fornire un più efficiente collegamento dell’isola alla terra ferma. E fu a partire da quel momento, che il villaggio marittimo diventato famoso anche per la pesca del cefalo o muggine, dalle cui uova viene prodotta la bottarga, avrebbe acquisito un ruolo di primo piano in qualità di spazio liminale, ovvero luogo di passaggio verso località di più chiara e larga fama. Una caratteristica che mantiene tutt’ora, come esemplificato dall’assenza di alberghi o altre strutture ricettive, nonostante il fascino offerto ai visitatori di un paesaggio certamente più unico che raro, in mezzo a palazzi costruiti, come all’interno dell’originale dominatrice di tutto l’Adriatico, per resistere alle frequenti e inevitabili inondazioni, capaci di sorpassare i non altissimi argini costruiti attraverso il succedersi dei periodi Rinascimentale e Moderno.
Questione a parte, ulteriormente utile ad approfondire il ruolo storico della città oggi non più riconosciuta come comune ma integrata dal 2011 come sezione della vicina città santa di Messalonghi, è quella relativa al nome di quest’isola artificiale, le cui prime attestazioni geografiche si riferiscono mediante il termine di Anatolikòn, ovvero letteralmente “l’Orientale” dopo che era stata ceduta ai crociati veneziani a seguito della caduta di Costantinopoli nel 1204, in quanto considerata l’esponente più a est dell’arcipelago di Echinades, benché si trovasse separata dalle sue consorelle e ben protetta all’interno del suo golfo. Soltanto in seguito, il toponimo sarebbe mutato verso l’espressione contratta di Anteliko/Aiteliko, probabile riferimento al verbo “pompare” poiché sembra che in qualsiasi luogo si scavasse una buca all’interno dei suoi confini, non importa quanto poco profonda, l’acqua scaturisse immediatamente con pressione assai significativa. Nient’altro che un effetto collaterale, per chi vive a circa un metro di distanza dalla superficie del mare…

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Liuti nel Pacifico: la travagliata condizione delle tartarughe più imponenti al mondo

Cosa sia un mostro rappresenta una questione largamente soggettiva, intesa come l’interpretazione dei singoli fattori descrittivi, per l’accesso a un’impressione d’insieme che possa riuscire ad esser valida nel caso di un determinato essere, sia questo una persona, un uccello, un rettile o altro animale. Dal punto di vista di una semplice medusa semi-trasparente dell’Oceano, la cui vita è consistente unicamente nel lasciarsi trasportare dalle più notevoli correnti della Terra, nulla può apparire maggiormente terrificante che l’esistenza di un tubo aspiratore, la cui apertura principale risulta essere del tutto priva di denti, avendo sostituito questi ultimi con lo strumento evolutivo di una moltitudine di aculei rivolti verso l’interno, affinché qualsiasi cosa si ritrovi all’improvviso circondata da una simile possente camera d’intrappolamento, sia del tutto condannata a fare visita all’interno dello stomaco situato all’altro capo di quel canale. E non c’è pietà ne alcun senso d’inerente morigeratezza, nel modus con cui opera la grande tartaruga liuto o leatherback (let. “dalla schiena di cuoio”) che gli scienziati chiamano Dermochelys coriacea, almeno sin da quando nel 1816, il zoologo francese Henri Blainville coniò tale termine per definire l’essere, catturato per la prima volta nel Mediterraneo quasi 50 anni prima e donato all’Università di Padova da Papa Clemente XIII. Questo imponente dinosauro dell’era Moderna, caratterizzato da una forma idrodinamica riconducibile all’eponimo strumento musicale, la cui precisa ecologia sarebbe rimasta ancora largamente incomprensibile fino all’esecuzione di studi più complessi ed estensivi, capace di raggiungere un peso di fino a 700 Kg per la lunghezza di “solo” 1,75 metri, aveva infatti l’inaspettata abitudine di fare la sua comparsa nelle coste più lontane tra di loro al mondo.
Finché all’incirca 40 anni a questa parte, fu finalmente fatta chiarezza sulla quantità di appartenenti alla sua specie che venivano osservati, e qualche volta catturati, lungo buona parte delle coste orientali nordamericane, sebbene in tali ambienti non fosse mai ancora stato possibile registrare l’esistenza di una popolazione stabile, né il suo chiaro effetto sull’ecosistema dell’alta colonna marina. Questo perché le suddette tartarughe, con i le loro due pinne frontali simili ad ali spalancate verso l’infinito, erano capaci di percorrere una quantità di miglia inferiori soltanto a quelle dell’enorme squalo balena, dai territori pescosi dell’Asia, l’Indonesia e le isole del Pacifico Meridionale fino alle acque comparativamente gelide dei Caraibi. Al solo fine di riuscire a procreare, seppellendo le proprie uova in un preciso luogo di spiagge così distanti, alla stessa maniera in cui avevano fatto i propri genitori, e gli antenati di quest’ultimi da un periodo approssimativo di 110 milioni di anni. Un vero e proprio fossile vivente, dunque, inteso come forma di vita capace di resistere a innumerevoli trasformazioni climatiche, mutazioni delle condizioni in essere e la nascita di varie specie concorrenti. Ora tale particolare storia riproduttiva, appartenente alla prima e un tempo maggiormente numerosa popolazione delle tartarughe in questione (con altre due situate rispettivamente nel Pacifico Occidentale e nell’Atlantico) è stata sottoposta a un rinnovato conteggio verso la fine del 2020, mediante l’impiego di un’estensiva campagna di cattura e rilascio previa installazione di appositi segnali a distanza, oltre all’impiego rinnovato di quelli ancora funzionanti da precedenti iniziative, fino alla pubblicazione dello studio di Scott R. Benson e colleghi dell’Istituto Oceanico di Moss Landing (CA) che dando un numero e precise statistiche alla questione, ci ha permesso di far mente locale su quanto purtroppo, ormai da lungo tempo, in molti eravamo giunti a sospettare: che il numero totale delle tartarughe in questa straordinaria collettività itinerante, nelle ultime decadi, è andata incontro ad una progressiva riduzione, che considerata l’appartenenza a tale gruppo di un buon 38-57% di tutte le femmine in età riproduttiva del mondo, potrebbe condurre ad una quantità di esemplari restanti nel mondo intero inferiore ai 1.000 entro il non troppo remoto anno 2030. Una condizione meritevole, quanto meno, di essere sottoposta a un certo grado di approfondimento…

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L’antica genesi dell’arpa e le palline da ping pong delle remote profondità marine

La ragione per cui l’abusato modo di dire “Come vendere frigoriferi agli eschimesi” appare ormai desueto, o quanto meno dovrebbe tendere a farlo, è che un diverso tipo di pensiero può essere desunto dalla più materialistica espressione: “Allo stesso modo di chi affitta ombrelli, ai pesci e gli altri esseri sottomarini”. In altri termini perfetti parasole, in altri casi, strumenti musicali o basici accessori per la pratica di quel tipo di sport che nel più ampio ventaglio dei casi, consiste nel far rimbalzare una pallina da un lato all’altro di un tavolo rettangolare, mentre ci si tuffa nell’auspicabile speranza di riuscire a offrire una risposta valida e mandarla oltre la racchetta del proprio avversario. Oppure tennistavolo: se mai c’è stato un altro tipo di attività, che sottintende una specifica serie di condizioni fisiche, gravitazionali e di resistenza dell’aria… Completamente irriproducibili al di sotto delle superfici acquee, dove la Sirenetta rivolgeva il proprio sguardo e anelito verso inimmaginabili opportunità d’emersione. Eppur di certo proprio lei, prima di stringere malcapitati patti con creature dai tentacoli a raggiera, avrebbe potuto apprezzare l’opportunità di fare pratica sott’acqua in molte delle tecniche e i sistemi in uso tra le genti di superficie! Vedi l’arte musicale che riesce ad essere esemplificata, o quanto meno esteriormente rappresentata, dalla forma soavemente armonica di quest’altra notevole creatura, il cui ruolo e aspetto potrebbero rassomigliare a quelli dell’aspirapolvere-pterodattilo, o la televisione stegosauro, del celebre cartoon degli Antenati. Poiché rappresenta un innegabile rappresentante del mondo animale, tale membra della classe delle Demospongiae o spugne di mare, benché appaia di per se dotata di una serie di caratteristiche trasversalmente riconducibili alla collettività vegetale, oltre che all’ambito dell’oggettistica ad uso specifico di esseri dotati di orecchie, braccia e mani. Ed è Chondrocladia il suo genere d’appartenenza, più comunemente detto delle “spugne carnivore” mentre il nome specifico latino si presenta col binomio metaforico di C. lyra e non… Arpa.
Osservata per la prima (e ultima?) volta ad oltre 3500 metri di profondità a largo della California, per opera dei soliti operatori di batiscafi a controllo remoto dello Mbari (Monterey Aquarium Research Institute) nell’ormai remoto 2012, mentre operava facendo quello che, più di ogni altra cosa, sembrerebbe riuscirgli al meglio: prelevar dall’acqua valide fonti di sostentamento, che costituiscono le briciole danzanti e saltellanti di questo mondo. Ma non esattamente quel tipo di particolato, micro-particelle o ancor più infinitesimali organismi, che gli altri poriferi delle acque oceaniche sono soliti filtrare, facendo affidamento sulla naturale capacità d’assorbimento dei propri utili sistemi digerenti. Bensì effettivi cobepodi, oltre a larve di pesce ed altri esseri dotati di una propria mente e desiderio di sfuggirgli, tuttavia del tutto inutile di fronte alla furbizia evolutiva di questa particolare “spugna”. Che progressivamente attraverso i secoli, ha visto allungarsi le proprie propaggini fino alla forma verticale di una serie di preminenze o “pali” a partire dai sinuosi tentacoli che s’irradiano dal rizoma centrale, ciascuno rivestito di una serie di minuscoli uncini simili alla parte ruvida del velcro, tali da poter intrappolare qualsivoglia tipo di passante impreparato ad evitare di venirne a contatto. E così via a seguire, senza neanche la necessità di trasportare quel che è stato catturato fino a un qualche tipo di bocca, di cui comunque il predatore non risulta dotato, provvedendo a digerire gradualmente il malcapitato direttamente lì, sul ramo. Grazie all’uso di un vero e proprio microbioma simbiotico facente parte del suo involucro esteriore, che ne prepara l’assorbimento, a ulteriore coronamento di un funzionamento biologico perfettamente ed innegabilmente alieno. Una considerazione, quest’ultima, che potremmo trovare ancor più esplicita nella pregressa storia di un’altra rara appartenente a questo genere, la pianta che comunemente siamo giunti a definire, albero delle palline da ping pong. E mai nome avrebbe potuto essergli più adatto…

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Gli affollati abissi delle anguille dal moto ondulatorio indefesso

Nel settore galattico Beta-Coriolis Gamma-201, la reattività dei protocolli d’emergenza indicava chi poteva sopravvivere e chi invece, avrebbe dovuto soccombere all’attacco dei pirati spaziali. Ancora una volta gli abitanti dei vasti recessi ricoperti di sabbia stellare, rivolsero i propri apparati di rilevamento verso le correnti galattiche e solari, nella costante ricerca del riconoscibile profilo di un possibile aggressore. Finché qualcuno, verso i margini della colonia, operò vistosamente per ritrarre il proprio corpo longilineo all’interno dell’abitazione sotterranea. “Allarme, allarme, squalo in avvicinamento” serpeggiò l’avviso implicito determinato dal ritmo e i movimenti della collettività in pericolo incostante… Ed uno dopo l’altro, gli abitanti in quel fatidico momento fecero quello per cui tanto a lungo si erano preparati. Immersione! Così che a partire da un campo florido di quelle rapide e flessuose forme di vita, restò in apparenza una distesa priva di alcun movimento, ciascun individuo al sicuro nella sua personale ed invisibile camera di muco. Il pirata nel suo affusolato vascello, dopo qualche attimo, spalancò leggermente le gigantesche fauci dai molti denti simili a coltelli. Ma non poté far altro che proseguire oltre il suo pattugliamento, conservando solamente un vago senso di perplessità immanente. “Dannate, dove siete?” Rivolse gli occhi piccoli alla distante superficie dell’oceano senza posa. “Anguille pronte a tutto per aver salva la vita, persino rinunciare alla capacità di… Nuotare.”
Come un campo d’alghe, come un’aiuola, come un frutteto e come una fioriera: ogni tipo di metafora è calzante, purché provenga in via diretta dal mondo delle piante, sia subacqueo che in superficie. Poiché di sicuro, la maggior distinzione tra coloro che biologicamente ci assomigliano e i più verdi ornamenti dei nostri giardini, è la capacità di muoversi da un punto all’altro ogni qualvolta l’occasione si presenta assieme alla necessità di farlo. Mentre il comportamento di un’anguilla appartenente alla famiglia delle Congridae, come queste Gorgasia hawaiiensis dell’eponimo arcipelago, assomiglia piuttosto a quello di una Mimosa pudica o sensitiva, la pianta che protegge le sue foglie richiudendole per l’avvenuta sollecitazione di un possibile divoratore. Ed è concettualmente molto simile questa particolare strategia sommersa, che vede il pesce senza scaglie non più lungo di 60 cm e con un diametro di circa 10-16 mm raggiungere un preciso punto dei legittimi fondali d’appartenenza. In cui provvedere a seppellir se stesso senza alcun particolare grado di preparazione psicologica o possibile sentiero alternativo; nell’abitazione che costituirà l’unico rifugio possibile per l’intera parte rimanente della sua vita.
Il che non impedisce, d’altra parte, all’anguilla di provvedere efficientemente a nutrirsi, primariamente di cobepodi e altre forme di vita planktoniche trasportate dalle correnti marine, ma nel caso specifico dell’anguilla hawaiana soprattutto di minuscole uova di pesce, catturate in orario diurno, quando si può fare affidamento sulla capacità di osservazione per percepire in tempo ogni possibile aggressore. Il che conduce essenzialmente a questa scena chiamata “il giardino”, con le molte dozzine di creature poste l’una a ridosso dell’altra che oscillano insistentemente da una parte all’altra, assecondando per quanto possibile i naturali influssi delle masse d’acqua sottoposte a continuo rimescolamento. Casistica in merito alla quale, nel 2018 è stato redatto uno studio (Khrizman et al.) capace di evidenziare la posizione assunta nel corso di tale prassi ininterrotta dalla prima osservazione mai fatta di questi animali: rigida e verticale, nel caso di situazione sottomarine calme. O con la flessuosa posizione di un punto interrogativo, nel caso in cui si rendesse necessario resistere a spinte trasversali fino a 40 volte più intense…

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