La fortezza sul macigno nel cuore dello Sri Lanka

Possenti regni ed enormi imperi sono crollati per una vasta gamma di situazioni svantaggiose, come mutamenti sociali, invasioni barbariche, crisi del commercio e dell’economia. Nel corso di battaglie cruciali al culmine di un conflitto epocale, può essere bastato un imprevisto, come condizioni climatiche avverse o un errore dei generali, per modificare lunghi secoli o persino millenni di storia. Resta tuttavia profondamente impressionante, tornare col pensiero alla fulgida ascesa e l’altrettanto rapido crollo dell’era del re Kashyapa nel 495 d.C, per l’effetto disastroso del mero capriccio di un elefante. Ovvero il suo pachiderma da guerra, per essere più precisi. Del quale si narra, nel momento in cui egli scese in campo per sfidare il suo più acerrimo nemico, che deviò di lato all’improvviso, portandosi dietro il suo padrone e tentano almeno in apparenza di fuggire via. Il che bastò a gettare l’intero esercito nello sconforto. Ed a portare a molti dei suoi comandanti più fidati ad ordinare la ritirata, se non addirittura un repentino cambio di bandiera. Certo, è inutile specificarlo: se il nemico fosse stato uno straniero, o il portatore di uno spietato cambiamento dell’elite al potere, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma il nemico di Kashyapa, in quel fatidico giorno, altri non era che il suo stesso fratellastro Moggallana, unico vero erede al trono dei Moriya, dal momento esatto in cui l’altro aveva assassinato crudelmente il loro padre, murandolo vivo in una stanza del palazzo reale ben 18 anni prima di quella data. Un gesto imperdonabile secondo qualsiasi cultura, che l’aveva probabilmente indotto, fin da allora, a trasferire la sua capitale dall’ancestrale seggio di Anuradhapura. In un luogo che veniva ritenuto, a torto a ragione, del tutto inespugnabile da chicchessia.
Il senso di colpa ed uno stato di paura costante possono indurre le persone a fare molte cose. E specialmente quando le risorse a disposizione sono virtualmente infinite, come nel caso del monarca di un predominio sul popolo concesso dagli Dei stessi, edificare delle vere e proprie meraviglie dei loro tempi. Come le piramidi in Egitto, ritenute l’unico strumento per mantenere l’importanza di un sovrano dopo la sua morte. O la ricerca, relativamente più immediata, di una vita lunga e serena, all’interno di un sontuoso palazzo completo di giardini (pensili) svariate concubine, opere d’arte, incalcolabili ricchezze ed una vista ininterrotta verso l’orizzonte, al fine di scrutare l’arrivo dell’ora temibile della vendetta. Fu così che Kashyapa, secondo alcune teorie portando a termine un progetto già stilato dal suo sfortunato padre e predecessore Dathusena, decise di far costruire il nuovo centro del suo regno in un luogo dotato di qualcosa che fosse letteralmente unico nell’intera terra di Tambapanni (antico nome dello Sri Lanka). Ciò che in termini moderni viene definito una monadnock, oppure un inselberg: l’enorme macigno, in questo caso alto più di 200 metri, che costituiva l’unico residuo tangibile di un precedente vulcano. Come la celebre Uluru (Ayer’s Rock) australiana, ma nel territorio di un popolo dotato delle risorse tecnologiche, e la propensione culturale, necessari a sfruttarne a pieno l’imponente presenza. E questa fu la nascita di Sigiriya, che sembrava dovesse garantire al suo proprietario una vita eterna. Finché l’elefante, che come sua natura non dimenticava mai nulla, non decise di porre fine ad un simile ingiustizia di fronte al popolo di questo mondo e il successivo.
Ma non prima che egli facesse, della sua preziosa gemma sopraelevata, uno dei luoghi più magnifici che il mondo avesse mai conosciuto fino ad allora. La fortezza di Sigiriya, il cui nome significa “Roccia del Leone” prendeva il nome da una colossale porta scolpita posta in fondo a 1200 ripidi scalini, raffigurante l’animale più feroce noto alle genti dello Sri Lanka. Da lì, quindi, si accedeva ad un camminamento sopraelevato lungo 140 metri, completamente ricoperto di affreschi raffiguranti più di 500 Apsaras, le leggendarie consorti degli dei del cielo. In un tratto successivo, dove un tempo continuavano i dipinti, l’alto parapetto lascia il posto ad una parete ricoperta di un marmo lucido, affinché il sovrano e i suoi sottoposti potessero osservare la loro immagine assieme a quella delle divinità. Ma soltanto ai più fidati tra gli uomini, o alle più desiderabili tra le donne, sarebbe stato permesso di penetrare ulteriormente nel sancta sanctorum del despota patricida…

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L’evoluzione strategica delle portaerei italiane

ITS Cavour

In queste riprese risalenti al 2013, l’ammiraglia della flotta italiana mette in mostra gli artigli acciaiosi in occasione del meeting tenutosi a sud della Sardegna dell’Atlantic Council, il comitato politico e militare statunitense venutosi a costituire oltre 50 anni fa per favorire la cooperazione tra le diverse potenze economiche globali. Come per l’incontro tra Renzi, la Merkel e Hollande di questo attuale agosto 2016, ospitato stavolta sul meno massivo incrociatore portaeromobili Garibaldi (13.850 Vs. 27.900 tonnellate) lo splendore del ponte di volo in condizioni di operatività era diventato l’occasione di mostrare momentaneamente al mondo che si, dopo tutto esistiamo. E siamo pur sempre pronti ed abili, nel definire obiettivi strategici di portata internazionale.
Se è vero che la “guerra è la continuazione della politica con altri mezzi” come scrisse il grande von Clausewitz, allora la mobilitazione di ciascuna delle tre possibili forze armate di ciascun paese potrebbe corrispondere ad un diverso tipo di messaggio diplomatico: perché l’aviazione interdice o acquisisce, l’esercito conquista o difende, e la marina…Fa un po’ di tutte le cose, ma anche e soprattutto, per via della sua capacità di essere dislocata in ogni regione del mondo senza il bisogno di alcun preambolo, applica lo status de facto di un’estensione della propria operatività, su medio o lungo termine, quale il nemico, o controparte che dir si voglia, può contrastare unicamente con una dimostrazione di forza ancor più grande. Ed è per questo che fin dall’epoca della prima guerra mondiale, la presenza di anche soltanto una singola nave da battaglia nemica all’interno delle proprie acque costituiva l’inizio percepito della fine, una situazione che annunciava generalmente l’ultimo capitolo del conflitto. Fu dunque in funzione di questo che gli Stati Uniti per primi, notoriamente lontani dai confini in arme di qualsivoglia nazione ostile, giunsero ad inventare, finanziare e schierare un nuovo e diverso tipo di unità marittima, capace di dominare i mari come nessuna prima di lei. Erano dunque gli anni immediatamente antecedenti alla grande guerra, quando Eugene Ely, famoso aviatore, decollò per primo dal ponte dell’incrociatore corazzato USS Birmingham nel 1910. Per poi riuscire persino ad atterrare, in una diversa occasione nel corso dell’anno immediatamente successivo, sulla struttura temporanea costruita sopra la poppa dell’USS Pennsylvania. Nulla, a seguire di questo, sarebbe più stato lo stesso. Basi mobili, piattaforme umanitarie, strumenti diplomatici dall’alto tasso di visibilità: le portaerei moderne costituiscono una risorsa costosa ma versatile, che soltanto alcuni dei paesi più potenti del mondo possono permettersi di schierare. Resta tuttavia importante non dimenticare quanto segue: in qualità di armi, esse esistono soltanto perché forgiate nel fuoco della battaglia. E temprate nel sangue versato dalle trascorse generazioni di eroi.
La storia delle due portaerei correntemente schierate dal nostro paese viene generalmente fatta risalire, in via remota, all’episodio di una cocente sconfitta subita nel corso del secondo conflitto globale: la battaglia di Capo Matapan (28 marzo 1941) combattuta contro la Royal Navy degli inglesi per il controllo delle regioni marittime antistanti alla Grecia. Prima di allora, sussisteva ancora l’idea di un’Italia “popolo di navigatori” naturalmente in grado di prevalere tra l’onde, nonché l’insensata metafora di epoca fascista secondo cui la nostra penisola, con la sua posizione strategica nel bel mezzo del Mare Mediterraneo, potesse automaticamente costituire “la portaerei di se stessa”. Da quel momento in poi, il regime duramente umiliato sui campi di battaglia e già in via di disgregazione prima dell’armistizio segreto di Cassibile (3 settembre 1943) lavorò alacremente per crearsi, alla pari dei molti nemici, delle navi dotate di almeno un’intera squadriglia d’aerei. A tal punto pesò, la presa di coscienza della nostra inadeguatezza nel contrastare una forza costituita su questo nuovo precetto dell’ordine di battaglia per mare. Tutto iniziò con una missione teoricamente piuttosto semplice: bloccare i convogli di rifornimento inglesi che si stavano spostando troppo liberamente tra l’Europa e l’Africa, secondo quanto esplicitamente delineato dagli alleati tedeschi. Ma le cose iniziarono quasi subito ad andare per il verso sbagliato…

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Gli uccelli che sconfissero l’esercito australiano

Great Emu War

“Maggiore, credo che dovremmo appostarci qui. La strada è stretta e d’importanza strategica. Il nemico dovrà farsi avanti, prima o poi!” Appesantito dai 12,7 Kg della sua Lewis Automatic Machine Gun e circa un terzo delle munizioni, in aggiunta al resto dell’equipaggiamento da escursione, O’Halloran sudava copiosamente nell’estate australiana. 2 Novembre 1932: appena iniziata, questa guerra già sembrava futile ed eccessivamente onerosa. Per lo meno dal punto di vista del distaccamento di tre uomini sotto il comando di G.P.W. Meredith dell’Artiglieria Reale Australiana, eroe di guerra decorato, sagace stratega ed ora flagello dei volatili in terra selvaggia, secondo il mandato ricevuto direttamente dal Ministro della Difesa, Sir George Foster Pearce. “Aiden, ti ho già detto che il tuo modo di pensare mi piace?” L’ufficiale si fermo di scatto, piantò le mani sui fianchi ed indicò la direzione con un cenno della testa. Dì a Stephenson che ci fermiamo qui. Fagli piazzare il tripode a ridosso di quell’albero di eucalipto. Questa sarà la prima, ed ultima battaglia della nostra spedizione. Grossi polli senza ali..Puah! Non sanno cosa li attende…” E nemmeno tu, pensò O’Halloran. Chi mai, nella storia dell’umanità, avrebbe pensato di sfidare il secondo uccello più grande del mondo, impiegando l’attrezzo che più di ogni altro aveva modificato questi ultimi anni della storia umana: la mitragliatrice. Ma a mali estremi, come si dice… “Steph ci sei?” Il commilitone, con l’uniforme zuppa e l’espressione contorta dallo sforzo, si era già liberato dello zaino in mezzo alle radici dell’arbusto, e stava al momento armeggiando rumorosamente con l’attrezzatura di sostegno per tendere l’imminente imboscata al nemico pubblico numero 1-20.000.  “Dannazione!” Esclamo sottovoce il mitragliere: questa è la cifra di cui stiamo parlando. Di devastatori piumati dagli occhi iniettati di sangue, alti fino a 2 metri, calati sulla regione di Campion, nell’Australia Occidentale, con tutta la furia di un’orda di barbari o di cavallette. Una tale situazione non poteva in alcun modo continuare; non l’avrebbero accettata i veterani del primo conflitto mondiale, che recentemente avevano iniziato a rifarsi una vita, ricevendo concessioni e sussidi (a dire la verità, inferiori a quanto gli era stato promesso) per stabilirsi tra alcune delle terre più selvagge ma estremamente fertili del Quinto Continente; non sarebbe andata bene alla popolazione, che pretendeva di poter acquistare a buon mercato frutta, verdura, grano e derivati; e soprattutto non poteva essere neppure concepita dal governo, che proprio in quegli anni stava iniziando a comprendere le deleterie conseguenze della grande depressione americana, sopraggiunta pochi anni prima per scuotere le fondamenta stesse del mercato. Come si sarebbe mai potuto, in un tale momento delicato, regalare i propri spazi più preziosi a questi giganteschi gallinacci provenienti dall’entroterra desolato? E come gli spartani alle Termopili, i soldati non erano del tutto soli. Un gruppo di agricoltori locali, tutti volontari, si stavano industriando per spingere gli uccelli verso il punto designato per l’imboscata. Mancava sempre meno…
Completata l’opera di allestimento, O’Halloran guardò Stephenson, che a sua volta guardò verso la remota collinetta, dove il maggiore Meredith si trovava a gambe larghe, il binocolo ben stretto tra entrambe le mani e ritmicamente sollevato, su, giù, su, giù, in una sorta di ginnastica dettata dalle circostanze. Finché ad un tratto, il movimento ritmico non cessò di compiersi, e la mano destra dell’uomo non fu sollevata in una sorta di gesto teatrale, le cui implicazioni apparivano sin troppo chiare ai sottoposti. Eccoli, ci siamo, è giunta l’ora della verità. “Maggiore, non stia lì! Venga a mettersi qui dietro.” Non appena il comandante senza paura ebbe terminato di voltarsi, nei suoi occhi c’era il fuoco vivo. Sembrò stare per aprire la bocca, poi tacque e silenziosamente ubbidì. Ora veniva la parte interessante. La mitragliatrice in dotazione all’esercito australiano, notevole innovazione tecnica del colonnello statunitense Isaac Newton Lewis, aveva una cadenza di 550 colpi al minuto, 50 più della seconda miglior arma del suo periodo. Poteva montare caricatori a tamburo (le cosiddette “padelle”) con fino a 97 proiettili, che un soldato addestrato era in grado di sostituire in appena 5 o 6 secondi. La metà, con l’aiuto di un assistente. E i due addetti all’opera di necessario sterminio, qui presenti perché scelti personalmente dal loro stesso fiero comandante, erano i migliori dell’intero corpo d’artiglieria. Controllata la regolazione del mirino, scambiato uno sguardo d’intesa coi due compagni di avventura, O’Hallora socchiuse gli occhi e guardò verso l’orizzonte. Da qualche parte, nel mondo, era sicuramente mezzogiorno.

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E così, francese, dici che puoi correre con l’armatura?

Armored Boucicaut

I vestimenti metallici dei cavalieri risplendevano persino sotto il sole tenue di fine ottobre, mentre il meglio della Francia si schierava in cima a un colle ad Agincourt. Ma nessuno, in quel frangente, aveva un’espressione più decisa, un cipiglio maggiormente fiero, ed una presa ancor più salda sulle redini che Jean Le Meingre detto Boucicaut, esimio maresciallo del Regno, salvatore del patriarca di Costantinopoli, flagello dell’antipapa Benedetto XIII ad Avignone, nonché probabilmente il più famoso guerriero della sua era. Estremamente consapevole, come del resto il conestabile Carlo d’Albret alla sua destra, per non parlare delle due vecchie conoscenze d’arme e d’avventure i duchi Charles d’Orléan e Giovanni I di Borbone che si agitavano in sella sulla sua sinistra, che se eri Enrico V il re d’Inghilterra nel 1415, e volevi rimanere tale, non imbarcavi circa 10.000 truppe in prossimità dello Stretto di Dover, non le traghettavi con lo scarso numero di imbarcazioni fino al passo di Calais, e soprattutto non ti lanciavi all’assalto di una mezza dozzina di fortezze prive di significato in giro per la Piccardia, quasi dimezzando i tuoi soldati in modo inutile, per poi tentare di tornare in patria con quel poco che ti rimaneva. Si, le notizie sull’incipiente pazzia del re di Francia Carlo VI, vecchio amico d’infanzia del possente maresciallo, potevano anche essere vere. Ma dall’altro lato della Manica, a quanto pare, la cupidigia del guadagnarsi nuove terre stava per mietere ancor più vittime della guerra civile tra Armanacchi e Borgognotti, scaturita dalla necessità d’istituire una reggenza a Parigi.
Un falco ammaestrato, senz’ombra di dubbio la proprietà di un nobile locale, lanciò il grido che segnava lo scoccar dell’ora storica del cambiamento. Era proprio questa del resto, la fine di una lunga cavalcata a perdifiato, che aveva finalmente permesso ai francesi, dopo numerosi fallimentari tentativi d’imboscata, di sorpassare gli invasori e sbarrargli la strada, tra due alture fittamente alberate che non gli avrebbero permesso di fuggire tanto facilmente. Il perfido dragone, dunque, sarebbe finalmente perito in questa valle, liberando la France dal più terribile dei rischi che correva: ritrovarsi presto comandata da un re inglese. Il cavalier di Boucicaut, giunto l’epico momento, sollevata in alto la sua lancia col vessillo, diede allo schieramento il suo segnale di avanzata. Come un sol uomo, 36.000 tra cavalieri, fanteria, balestrieri genovesi ed arcieri fecero il primo passo verso la vittoria, discendendo verso il fulmine ed il lampo della gloria. Naturalmente, l’impatto tra gli schieramenti non avvenne subito. Mentre i francesi tentavano d’indurre una probabile carica suicida sfidando il nemico, Enrico V dispose i circa 4.000 tiratori che gli rimanevano sulle ali destra e sinistra, dietro delle fortificazioni improvvisate con pali di legno appuntiti, mentre 1.000 uomini d’arme e cavalieri appiedati, con picche, alabarde e semplici spade, si ponevano al centro dello schieramento, per assorbire l’impatto del nemico. Uno schieramento, tutto considerato, relativamente ben concepito. Ma la differenza numerica, di armi ed equipaggiamento era di certo troppo significativa, o almeno questo riteneva Boucicaut. Così alla fine, fu proprio lui a lanciarsi all’assalto, assieme ai circa 8.000 coraggiosi cavalieri che includevano, nei fatti, una buona metà della corte di Francia.
Trovarsi all’altro lato di una carica di cavalieri di quell’epoca del Basso Medioevo costituiva, nei fatti, un’esperienza terrificante. Innumerevoli storie e leggende narravano di piccoli manipoli appartenenti a questo o quell’Ordine rinomato, che galoppando tra gli schieramenti dei non-cristiani, potevano distruggere la coesione di forze numericamente molto superiori. Un guerriero pienamente corazzato, con palafreno adeguatamente abile nel suo ruolo, era una forza inarrestabile comparabile a quella di un moderno carro armato. Soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare Enrico V, in quel frangente. Ed il miracolo (della tecnologia) arrivò. O per meglio dire, esso era già lì, cautamente avvolto in un panno impermeabile nei bagagli di ciascun margravio, ogni vassallo, dei pochi popolani e seguaci che si erano trovati a supportare l’offensiva del re. Il suo nome: longbow. L’arco lungo, il più letale strumento bellico che fosse stato mai schierato in un campo di battaglia. Soltanto che allora, non lo sapeva ancora nessuno. L’arte del tiro a lunga gittata era infatti praticata in Inghilterra come una sorta di sport, trasmesso di padre in figlio nelle città, nelle tenute, nei villaggi, come un utile modo per andare a caccia e procurarsi della carne. Le frequenti competizioni regionali, nonché il plauso concesso ai migliori cecchini, costituivano tutto il premio di cui avessero bisogno costoro. Poi nel momento della verità militare, naturalmente, quell’attrezzo si scopriva estremamente utile allo scopo di difendere se stessi ed il paese: perché una freccia che può giungere fino a 200 metri, altrettanto facilmente, se chiamata a farlo, avrebbe perforato qualche valido centimetro d’acciaio. Uccidendo chicchessia. Così Boucicaut, alla testa dei suoi prodi, si lanciò alla carica contro l’istrice inferocito, contando assieme agli altri comandanti sulla forza imperitura del suo diritto di nascita, l’onore e la fierezza dei cavalieri. Per primo cadde Carlo d’Albret, colpito fatalmente alla gola. Quindi i Duchi di Borbone e d’Orléan, i cui cavalli, follemente, non portavano una bardatura laterale. E infine egli stesso, il più grande cavaliere della Storia. Mandato a rotolare giù nel fango, mentre gli zoccoli infuriavano tutto attorno alle sue membra indolenzite. Ma l’intera vicenda, a conti fatti, non poteva certo finire a quel modo…

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