Un ballo da discoteca nel cuore dell’Africa nera

L’italiano che sta alla commedia dell’arte, come l’americano ai suoi supereroi. Vi siete mai chiesti la provenienza della calzamaglia di Superman, del cappuccio di Batman, della tuta rossa-blu del giovane, informale Spiderman? Costumi che rappresentano un tema, tenute riconoscibili prima ancora che funzionali. È un po’ il paradigma della casacca di Pulcinella, bianca quanto l’innocenza perduta, e il suo grande naso per percepire l’aria che tira sul palcoscenico dalle alterne vicende umane. E basta poi spingersi innanzi ed ancor più a meridione, fin oltre l’apice dello stivale, per trovare in Sicilia, Peppe Nappa, Pasquino e poi… Il mar Mediterraneo. Un sottile braccio, oltre cui sorge l’isola di Malta, ed al di là Tunisi, Tripoli e le altre città nordafricane. Un luogo in cui la cultura dei popoli, semplicemente, non prese mai questa specifica strada, preferendo metodi espressivi in cui il volto dell’artista rimaneva scoperto. Niente archetipi, nessun travestimento. La stessa regola tra i siccitosi confini dell’Algeria e del Niger. Ma contrariamente a quanto vorrebbero spesso farci pensare attraverso lo strumento del “senso comune”, l’Africa non è affatto questa massa indistinta occupata da un’unica, indivisa tribù. Così oltre i confini del Mali, in Burkina Faso e tutto quello che viene sotto ai confini dell’arco aggraziato che è la parte occidentale del continente, si entra in un regno che appartiene a una pletora di personaggi, figure prive o dotate di un nome, personificazioni degli alberi, della foresta, del vento e della savana. Sono strumenti, questi, che prima ancora che rappresentare gli Dei, costituiscono la loro inanimata manifestazione terrena, in attesa di un corpo umano da infondere della loro conoscenza arcana. Grandi risolutori di tutti i problemi della comunità o il villaggio, attraverso il significato nascosto nel ritmo e nella danza. Arte mistica, piuttosto che combattimento violento contro i criminali. Sono certo che la dicotomia sia chiara.
Non è spesso discusso quali fossero i superpoteri di Zaouli, la bella figlia di Djela, una misteriosa danzatrice originaria della Costa d’Avorio, a cui il coreografo Ouinnaila si ispirò negli anni ’50, per trasformare un antico ballo dal significato religioso in… Questo. L’omonimo spettacolo, che si dice propiziatorio per la produttività di chi vi assiste, nonché velatamente apotropaico, benché la sua vera finalità nel mondo moderno risulti essere più che altro di aggregazione sociale dei suoi estimatori, in una sorta di atipica espressione del canone post-moderno. In modo particolare per quel circa un milione di persone che costituiscono gli appartenenti all’etnia Gouro, parlanti dell’omonima lingua, genti che seppero fare del movimento a tempo di musica un’arte così straordinariamente elevata, da non conoscere più alcun tipo di confini. Già! È uno stile che potrebbe ricondursi a molti nomi diversi: Boogie Woogie, B-Boying, Charleston, Footwork, Electro Dance… Tutte correnti riconducibili allo stesso, inconfutabile merito: saper scollegare i quattro arti dal nucleo centrale del proprio corpo. Per esprimere il nesso attraverso le astruse movenze. La danza Zaouli è leggendaria in questo, con la fase ritmica in continua evoluzione, portata a compimento da un ballerino solista ricoperto da un variopinto costume e col volto coperto dalle fattezze di quella che dovrebbe rappresentare la donna aggraziata, o donna ideale per la sua cultura. Occhi a mandorla, mento sottile, fronte bulbosa e un ornamento sopra di essa, generalmente rappresentante le fattezze stilizzate di un animale. Unica concessione, questa, alle antiche dottrine sciamaniche di questi luoghi, raffiguranti gli spiriti noti come Neyo e Wan, recipienti di oscuri sacrifici di sangue e surreali nenie al chiaro di luna, tra i quali la figura dell’elefante, dell’ippotamo e del coccodrillo sostituiva, in maniera spesso fin troppo chiara, l’implicita funzione degli archetipi comportamentali umani. Finché al termine del rituale, senza falla, scaturivano dall’ombra le forme degli Dei antropomorfi, ancor più potenti e misteriosi, pronti ad elaborare incomprensibili profezie. Ma caso vuole che non ci sia niente di tanto sinistro, nel passo ritmato di colui che interpreta la figlia della perfetta danzatrice…

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L’eleganza degli scheletri viventi del Benin

Le mani bianche, aguzze, gli occhi cavernosi e neri. Gli arti sottili e affilati. Le costole che protrudono ai lati, per tornare ad abbracciare una serie d’organi che non esiste più. Come potrebbe, da quando il corpo e la pelle si sono del tutto volatilizzati? Ecco, dunque, cosa resta: la parte macabra della struttura, il minerale che sostiene e dava la rigidità. Ma persino un Orisa, lo spirito degli antenati, non può svolgere al meglio le sue mansioni avendo l’aspetto della morte personificata in Terra. Così egli è ricoperto, da capo a piedi, da un costume variopinto. Un velo di perline copre il suo mostruoso volto. Un addetto con la frusta, in abiti soltanto lievemente meno sfolgoranti, lo segue da presso, per assicurarsi che nessuno lo tocchi. Altrimenti, sarebbe punizione capitale per entrambi. Scivolando silenziosamente oltre i confini della piccola città, l’essere non-morto e neanche-vivo si avvicina ad una casa, poi si ferma. Con una voce gracchiante, inizia a richiamare i suoi abitanti. Nessuno comprende le gesta degli Egungun, men che meno le loro parole. Ma le donne si rintanano nei più profondi pertugi dell’abitazione, come vuole l’usanza di Yorubaland. Quindi il vecchio patriarca, spalancando la porta, discende lo scalino sulla soglia. Piegato a causa dell’artrite, ascolta attentamente la disquisizione della strana creatura. Quindi annuisce, offre un obolo al guardiano armato e torna pensierosamente all’interno. Strofinando i piedi, lo strano visitatore si volta e se ne va. Cosa è successo? Quale oscuro segreto ha trasmesso, questa manifestazione sovrannaturale, come avviene ormai da secoli sotto il Sole bruciante dell’Equatore?
C’è un fondamentale fraintendimento, nella concezione universale di questi paesi, per cui qualsiasi luogo che si trovi a sud del Mar Mediterraneo non avrebbe mai contribuito alla cultura universale della società. Questa strana, assurda idea, secondo cui il più antico dei continenti sarebbe una sorta di distesa scarsamente popolata, priva di caratteristiche particolari dal punto di vista delle dinamiche artistiche e sociali. Ovviamente, chi lo pensa è un ignorante. Non in senso metaforico, ma in quello che gli mancano le cognizioni, come del resto a molto di noi, in merito alcune delle usanze, tradizioni religiose e pratiche più straordinarie al mondo. L’Africa è una terra di imperi Imperi sconfinati, difesi dal potere dei guerrieri. Di colori e straordinarie meraviglie. Una landa di terrori e mostri sconvolgenti.  Come ogni altro luogo abitato dagli esseri umani, creatori di leggende ed altre storie. Grazie, se vogliamo, proprio all’opera di coloro che sono venuti prima, qui raffigurati dai cultori di una particolare forma di sciamanesimo dell’osso o dell’uomo-osso (ciò vuol dire un tale nome). L’Egun (pl. Egungun) è molto più che un semplice teatrante viaggiatore. Egli è una manifestazione di tuo padre, tuo nonno, il tuo bisnonno, talvolta anche se sono ancora in vita, mediati e interconnessi con le voci corali del Tutto. Che può dirimere questioni, esprimere profezie, comunicare con il mondo dei trapassati. Tra i servizi più importanti resi dai bardatissimi sciamani, quello relativo ai funerali. Quando è l’usanza che la bara del defunto venga accompagnata da una o più di queste figure, che gridi ossessivamente il suo nome. E che il giorno dopo torni a casa di chi l’aveva chiamato, per comunicare gli ultimi messaggi di colui che non risiede più tra i viventi. Un Egun non può mai scoprirsi, né essere scoperto del suo costume. Poiché se fosse possibile riconoscere colui che si trova al suo interno, ne deriverebbe che egli non era uno scheletro animato dal potere degli Orisa. E si trattava, dunque, di un impostore. Tuttavia il processo che gli dona i suoi poteri deve comportare un qualche tipo di trasformazione reversibile, se è vero che nelle abitazioni delle famiglie più abbienti di quest’area geografica, che include anche la Nigeria, possiedono almeno uno o più vestiti da indossare durante i riti sacri. In particolare verso l’inizio di giugno, quando si svolgono i sette giorni della Festa dei Morti. E per le danze del Gẹlẹdẹ, il rito pubblico che celebra le donne e la fertilità. Ma se pure si dice che l’abito non faccia il monaco, sentite a me: esso può certamente fare lo sciamano…

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