Lo spirito selvaggio dell’asino che vive sul tetto del mondo

In una narrazione in prima persona del suo viaggio verso la capitale Lhasa, che lo portò ad attraversare le sperdute regioni montuose circostanti monastero di Kumdun, Thubten Jigme Norbu scrisse: “Vedemmo gli asini selvatici o kiang aggregati in gruppi tra le 10 e 50 femmine, ciascuno capeggiato da uno stallone. Animali alti, nobili e scattanti, mi colpirono in modo particolare per la bellezza della loro colorazione, caratterizzata da una linea nera situata al centro della schiena. Questi branchi seguirono incuriositi la nostra carovana. Talvolta si avvicinavano e tendevano a circondarla, senza mai avvicinarsi tuttavia in modo eccessivo.” E potrebbe sembrare strana la maniera in cui il fratello maggiore del Dalai Lama, che negli anni ’50 aveva circa una quindicina d’anni, possa essere rimasto così profondamente colpito da una presenza numericamente piuttosto diffusa, parte inscindibile del patrimonio faunistico del suo paese. Ma la realtà è che simili equini, strettamente imparentati l’onagro o hemione, più comunemente detto l’asino asiatico, possiedono degli specifici adattamenti evolutivi tali da permettergli di vivere in ambienti particolarmente inospitali tra i 2.700 e i 5.400 metri, dove la temperatura può tranquillamente scendere al di sotto dei 25 gradi durante i mesi invernali. Il che ha richiesto, per la loro sopravvivenza, lo sviluppo non soltanto di un’ottima capacità d’isolamento termico ma anche tratti genetici idonei alla respirazione di aria con basse quantità di ossigeno, oltre ad una flora intestinale capace di digerire pressoché qualsiasi forma di resiliente e formidabile forma di vita vegetale. Tutto ciò in associazione ad una forma fisica eccellente, la corporatura massiccia ed un altezza più simile a quella di un cavallo dalle dimensioni medio-piccole pari a 140 cm, con zoccoli perfetti per spostarsi su irte pendici montane o arrampicarsi sulle rocce come una sorta d’imponente creatura caprina. Tale da permettere a quello che la scienza definisce Equus kiang, in effetti, una significativa capacità di resistenza nei confronti della caccia condotta attraverso i secoli da plurime generazioni delle genti locali, che non riuscirono mai davvero ad addomesticarlo. Nonostante l’areale significativamente ampio che ne vede tre sottospecie talvolta riconosciute, l’E. k. kiang occidentale, l’E. k. polyodon e l’E. k. holdereri orientale, diffuso fino ai bassipiani della regione dello Xinjiang, dove prospera all’interno di bacini fluviali costituendo aggregazioni di fino ad un migliaio di esemplari. Gruppi di animali tutt’altro che permanenti, bensì fluidi e inclini a frequenti scambi dei loro membri costitutivi, con il probabile obiettivo di scongiurare la consanguineità. Mentre particolari analisi biologiche, di contro, hanno suggerito la possibilità che tale suddivisione sia effettivamente superata, trattandosi di un mero cline o variazione graduale tra le tre forme, possibilmente esse stesse una singola sottospecie dell’asino asiatico propriamente detto (E. hemionus) a sua volta differenziatosi dalla versione africana dello stesso animale attorno ai 4.0, 4,5 milioni di anni fa. Nel momento stesso in cui iniziò a fare la sua probabile comparsa la zebra, con cui condivide in parte la forma del muso convesso e la corporazione fisica, per non parlare dell’indole territoriale mostrata dai maschi solitari, che porta questi equini ad aggredire con una certa enfasi qualunque essere indesiderato che tendono a incontrare sul proprio cammino. Una comprensibile ed inevitabile applicazione pratia, se vogliamo, delle spietate leggi di sopravvivenza…

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Il giorno in cui facemmo implodere Kunming: distruttivo epilogo di un mega-progetto cinese

Devastazione quasi apocalittica oltre una scala facilmente descrivibile a parole. E ai margini di tutto questo, l’uomo con l’elmetto giallo situato nel preciso punto da cui può gestirne l’occorrenza e tutto quello che ciò comporta, mediante la semplice omissione di un gesto. Sto parlando di un pulsante, in altri termini, che ha la facoltà di emettere un impulso elettrico. Capace di raggiungere un sistema di raccordo tra i detonatori, per una cifra pari a 4,6 tonnellate di TNT. Utilizzate nel principio e al fine d’eseguire uno spettacolo destinato a rimanere impresso a chiare lettere all’interno dei corsi e ricorsi anti-architettonici del mondo. Anti-archi come anti-materia, ovvero l’essenziale disintegrazione di una cosa in essere, capace di raggiungere la cima della curva in modo graduale, dopo anni di sincera dedizione e da quel saliente punto, rovinare in modo metaforico verso il fondo della pagina mediante l’uso di un singolo segmento verticale (che tenderebbe pure all’infinito, se non fosse letteralmente impossibile dare manifestazione a disintegrazioni complessivamente superiori all’opera precedentemente compiuta). Ed è in questo modo che, alle fatidiche ore 15:30 del 27 agosto 2021, si è raggiunta l’ora ed il momento prefissato, per dare luogo alla trasformazione deflagrante di un intero distretto cittadino. Non in modo migliorativo né, in effetti, necessariamente peggiorativo. Ma provando al di là di ogni possibile dubbio o esitazione che in effetti, errori erano stati commessi, nell’accodare determinati livelli di fiducia a particolari aziende, aspettandosi il mantenimento di promesse implicite nel vasto ed omni-comprensivo patto tra le genti della società contemporanea. Capace di sottintendere, all’interno dei confini di questo specifico luogo, la creazione e futuro utilizzo di un imponente spazio abitativo, chiamato per l’appunto Liyang Star City “Fase” 2 (丽阳星城二期 – Liyang Xīngchéng èr qí) entro cui la brava gente della città di Kunming, capoluogo della provincia dello Yunnan, avrebbe potuto trascorrere le proprie serene esistenze. Ma come in una sorta di parabola sul tema del progresso e tutto ciò che questo tende a comportare, l’effettivo corso di una simile vicenda restava implicitamente incline a deviare. Analogamente a quanto fatto da taluni dei ben 15 edifici lungamente soprannominati dai locali “cicatrice di Kunming” prima di essere fatti coerentemente brillare, nel momento cardine finale della propria stessa esistenza, quasi fossero delle moderne torri di Pisa, inevitabilmente destinate in questo dopo-bomba ad un tipo maggiormente laborioso e meno sicuro di rimozione. Uno scenario senz’altro interessante, ma di certo non tra i più semplici da risolvere, in base alle precise prerogative e competenze delle aziende coinvolte. Il che doveva d’altra parte giungere a costituire, a suo modo, l’unico finale possibile dell’intera vicenda, nel momento stesso in cui a partire dal 2012, momento in cui lo sviluppatore Kunming Xishan Land Housing Development and Management ha iniziato a lamentare l’esaurimento dei fondi a disposizione. Generando un effetto a cascata tale da perdere la maggior parte dei propri investitori, verso l’inizio di quella che possiamo solamente definire come una statica ed irrisolvibile condizione di stasi…

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Video appassionante mostra la perizia coreana nel far progredire le ceramiche a sbalzo

In questa sequenza pubblicata sul canale d’approfondimento artistico Process K, l’artista coreano Tag Weondae, dello studio di produzione Woorimdoe, si mostra profondamente concentrato nell’apposizione di uno strato decorativo sulla superficie di un vaso dalle dimensioni alquanto significative. In quella che la didascalia di YouTube definisce come una tecnica affine al concetto di buncheong, apparentemente simile al sistema occidentale dello “sgraffito” un approccio pratico consistente nell’ottenimento di un immagine incidendola direttamente in uno strato monocromatico, in questo caso la vetrinatura stessa dell’oggetto di una simile capacità manuale. Un tratto dopo l’altro, come se fosse la cosa più facile del mondo, l’artista tratteggia le forme riconoscibili di un albero contorto dai molteplici rami, alcuni pescatori, le gru in volo e dei bambini che procedono in groppa ad un bue. Quindi, in un impulso dinamico ma attentamente calibrato, inizia a circondare i suoi disegni con tratti grossolani e nebulosi, apparentemente privi di una logica del tutto evidente. Ma l’immagine, a poco a poco, inizia ad assumere un significato maggiormente profondo…
Ogni opera creativa prodotta nel corso dei secoli tende in modo implicito alla perfezione, ma siamo assolutamente certi, in fin dei conti, che si tratti di un concetto totalmente oggettivo? Se il principio di partenza delle arti, a seconda dei secoli, varia in maniera progressiva e qualche volta imprevedibile, cosí dovrebbe essere anche nel caso dei valori perseguibili attraverso il suo sentiero verso la tangibile presenza generativa. E non è certo la raffinatezza, di suo conto, a dover costituire in modo imprescindibile un sinonimo di tale persistente aspirazione umana. O almeno ciò si evince, in modo alquanto pratico, dal prendere atto delle caratteristiche fondamentali dell’attività ceramica della penisola coreana, un ambito talmente distintivo e interessante, da aver costituito per secoli una delle principali esportazioni di questo paese. Fino ai confini dell’epoca moderna ed oltre, in modo tale da trascendere il mero concetto di una prassi dall’interesse nazionale diventando un punto di riferimento per culture altrettanto attente ai fattori tecnologici delle cose quotidiane, quali potremmo essere inclini a definire quelle del Giappone e della Cina. Ed è perciò diffuso ancora oggi, il commento storiografico basandosi sul quale nulla di più bello ed universalmente apprezzabile in quanto tale sia effettivamente rintracciabile in tale ambito del cosiddetto celadon, dal termine francese usato in qualità di sinonimo del personaggio letterario dell’Astrea, un pastore dal costume ornato di nastri di un colore verde chiaro. Lo stesso caratterizzante, in base al novero dell’esperienza dei collezionisti, il tipico vaso proveniente dal paese di Goryeo, originariamente traslitterato dal viaggiatore Marco Polo mediante l’espressione fonetica di Cauli. Una scelta di termini che ci pone, cronologicamente, nella seconda metà del XII secolo, quando tale forma d’arte fu capace di raggiungere una vetta destinata a rimanere insuperata nei secoli successivi. Con una pletora di meriti talmente lunga e significativa, da indurre lo stato centralizzato del paese all’implementazione di un sistema di meriti e regolamenti, per cui giammai un artista produttore di cheongja (청자) avrebbe potuto avere l’iniziativa d’insegnare la sua arte all’estero, o in alternativa importare termini creativi da tale misterioso ed altrettanto proibito ambiente. Il che diede inizio a quella che potremmo definire come l’arte senza tempo del buncheong…

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Gli eterogenei tesori cinesi nella fortezza meridionale del Buddha d’Oro

L’idea che la maggioranza delle metropoli d’Asia presentino un volto tradizionalista, improntato sull’architettura nazionale e identitaria che permette di distinguerle istantaneamente dalle loro controparti occidentali cessa progressivamente di mostrare una particolare rilevanza, nel momento in cui si prende atto della loro vastità e lo spazio riservato all’utilizzo pratico degli spazi. Luoghi come Pechino, Shanghai, Chongqing, pur essendo estremamente ricchi di palazzi e strutture storiche, nel momento in cui si lasciano i quartieri maggiormente documentati sulle guide turistiche rivelano la loro pura e più contemporanea essenza, fatta d’infrastrutture tecnologiche, svettanti grattacieli e isolati ben più avveniristici del classico concetto di hutong. Un contrasto mai più netto di quello direttamente osservabile nella città meridionale di Yulin, non troppo lontano dalla penisola vietnamita e l’isola di Hainan, eppure più simile per la sua impostazione urbanistica alla Cina corrente che al Sud-Est asiatico di cui dovrebbe, almeno geograficamente, essere tutta una parte. Per cui l’esposizione visuale dei molteplici reperti ed opere d’arte, qui fatte confluire attraverso i secoli in qualità d’importante centro d’interscambi commerciali ed amministrazione burocratica del Celeste Impero, sembrerebbe aver preso nei tempi moderni una piega senz’altro caratteristica, per non dire essenzialmente unica al mondo: la costruzione di un gigantesco palazzo, più simile a un castello nella propria configurazione, che costituisce anche per estensione la maggior struttura di siffatta natura dell’intero paese. Primato effettivamente strappato, nell’anno 1998 del suo completamento alla svettante costruzione tibetana del Potala, residenza del Dalai Lama tra il 1694 e il 1959, quando scelse di riparare all’estero per l’arrivo delle truppe d’invasione cinesi. Un gigante di “appena” 130.000 mq contro i circa 140.000 del Yuntian gong (云天宫 – Palazzo del Cielo) con la sua altezza di 108 metri e 21 piani, le torri laterali digradanti a circondare ed abbracciare un padiglione dal tetto a pagoda, nel quale si trova custodito il più grande Buddha d’Oro al chiuso del mondo, una formula impiegata in campo artistico per classificare tale tipologia di opere scultoree assemblate da una lega bronzea di color giallo intenso. Per un totale di 600 tonnellate, pari al peso di un enorme camion per il trasporto dei materiali grezzi nel campo delle miniere. Laddove nulla, nella complessiva concezione di questa struttura, lascia intendere uno spazio preponderante riservato a cognizioni di natura pratica o ingegneristica, con l’intento primario evidente di creare un’attrazione memorabile per lo sguardo dei visitatori, ma anche un simbolo capace di raggiungere la propria fama imperitura al di là dei semplici confini cinesi. Una vera e propria meraviglia scenografica, in altri termini, non del tutto scevra della dote di crearsi un imprescindibile alone di mistero…

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