Scaturendo dal suo massiccio uovo dorato, la torre di cristallo emerge tra le nubi con stranissimo profilo a martello, alto esattamente 256 metri. Come un fiore, come un Faro, come la distanza tra il dire e il fare. Oltre i calibri dei condomini anneriti dallo smog, situati ad un’elevazione comparabilmente limitata dal livello stradale, il suo profilo sfrangiato sembra non soltanto voler grattare il cielo, ma tagliarlo via letteralmente, dallo scorcio che riesce a profilarsi oltre il punto di fuga prospettico dal surrealismo e un certo livello di minaccia latente.
Nel giorno in cui l’espressione programmatica e corrente del cyberpunk sta per ritornare alla ribalta grazie alla pubblicazione dell’atteso videogioco eponimo, è difficile non ricordare come l’intento di partenza di quel movimento, alle sue origini letterarie degli anni ’80, fosse mirato a evidenziare una serie di elementi in forte contrapposizione: la ricchezza delle multinazionali rispetto all’esigenza di arrangiarsi per gli hacker e i samurai delle strade derelitte; la tradizione delle antiche discipline orientali contro la più sfrenate soluzioni digitali dei tempi moderni; il pessimismo, quasi dickensiano, per intere generazioni perdute di fronte alla promessa di un futuro impossibilmente migliore. Transumanismo e cibernetica a parte, tuttavia, sarebbe disingenuo voler fingere che almeno dal punto di vista visuale ed apprezzabile, tale intento segretamente didascalico non si sia rivelato anche profetico, in qualità di commento storico a tecnologie e tendenze che stavano iniziando a palesarsi, con estrema pervicacia, già un trentennio a questa parte, in alcune delle metropoli più variopinte ed interessanti dei nostri tempi. Vedi a tal proposito l’estremo sincretismo di Macao, la più longeva delle colonie europee in Asia, destinata a rimanere tale fino al 1999, prima di tornare in qualità di costola cinese nel Celeste Impero, con qualifica formale non diversa da Hong Kong. Se volessimo del resto riassumere in una singola espressione la fondamentale differenza tra questi due luoghi, potremmo anche scegliere d’utilizzare la singola espressione “gioco d’azzardo”, proibito presso l’isola ex-inglese, e permesso invece qui sulla penisola, che si affacciano a una manciata di chilometri sul palcoscenico del Mar Cinese Meridionale. Ma se la città rinominata dai portoghesi rispetto all’antica definizione di Àomén (澳门) può essere detta la monumentale realizzazione dedicata ad una tale basica pulsione degli umani, ciò è anche attribuibile alla singola figura e l’intento imprenditoriale del grande Stanley Ho, l’unico detentore per gli oltre 50 anni a partire dal 1961 di una licenza atta a costruire e gestire in tale terra la remunerativa struttura di un casinò. O parecchi, come sarebbe giunto a fondarne sotto l’etichetta della compagnia Sociedade de Turismo e Diversões de Macau (STDM) ancora oggi amministratrice di 22 tra le 41 siffatte istituzioni tra i confini della città.
Consultando tuttavia le fonti coéve, appare chiaro come verso l’inzio degli anni 2000 la splendente fama della “Las Vegas d’Oriente” stesse iniziando a sfumare assieme alla reputazione in essere, causa un graduale peggioramento e sovraffollamento di alcune delle strutture più rinomate, diventate luoghi di prostituzione e messa in pratica per alcune delle attività meno apprezzabili degli strati sociali in cerca di un facile, per quanto imprescindibile guadagno. Serviva quindi una ventata di rinnovamento che non fosse solamente dovuta all’apporto d’investimenti stranieri e tale metaforico fenomeno atmosferico avrebbe avuto modo di palesarsi, ancora una volta, grazie alla sapiente mano del suo più anziano amministratore. Così l’onorevole Dato Seri Ho, ormai detentore di uno dei titoli onorifici civili più elevati che possano essere assegnati ai non appartenenti di una casa reale, chiese ed ottenne il permesso di far costruire agli architetti di Hong Kong Dennis Lau e Ng Chun Man un qualcosa che potesse essere degno di rivoluzionare lo skyline, ed assieme ad esso le aspettative dei turisti, convergenti tra i dorati confini di Macao. E quel qualcosa sarebbe stato proprio, da molti e appariscenti di vista, l’impressionante Grand Lisboa Hotel.
uova
La favolosa corsa sull’acqua dello svasso americano in amore
Eleganza, prestigio, tradizione. Di un antico rituale che sin da tempo immemore, è stato tramandato da una lunga dinastia. Il che non significa, d’altronde, che l’espressione e la creatività personale non trovino alcun posto, nella messa in pratica da parte degli uccelli candidi che si esibiscono ogni anno ad aprile. E fino al mese di giugno, una coppia alla volta, percorrono agilmente l’increspata superficie dei maggiori laghi americani. Non volando a bassa quota, come sono soliti fare nei momenti in cui hanno l’intenzione di spostarsi da un luogo all’altro; né nuotando o galleggiando in superficie, metodo più che altro utile a trovare qualche meritato attimo di riposo. Bensì correndo in modo verticale sulle zampe, che potremmo definire posteriori se non fossero le uniche a disposizione, dell’uccello che proprio da tale propensione sembrerebbe prendere il nome. Svasso, “lo sguazzatore” nell’arcaico dialetto romagnolo, mentre il nome anglosassone grebe parrebbe provenire dal termine bretone che vuole dire “pettine” in riferimento all’alta cresta erettile di colore scuro sulla sua testa. Termine quest’ultimo, che ritroviamo assai più spesso riferito alla particolare specie qui mostrata dell’Aechmophorus occidentalis, diffuso in colonie di centinaia d’esemplari nell’intera parte ovest degli Stati Uniti. Dove il suo particolare stile usato nel periodo dei corteggiamenti, differente dalle comunque notevoli sceneggiate dei cugini europei, lo vede eseguire un’acrobazia inerentemente appropriata alla figura veneranda del divino Salvatore: camminare sull’acqua, un miracolo piuttosto semplice. Quando si dispone della forma fisica ed il peso ridotto di creature come queste, lunghe 55-75 cm e con un peso massimo di appena 2 chilogrammi. Senza nessun particolare dimorfismo tra il maschio e la femmina, sebbene esista una specie cognata che può trarre l’ornitologo in inganno, data l’inerente somiglianza in ogni aspetto tranne le dimensioni leggermente inferiori e la scurezza del piumaggio in corrispondenza delle ali. Mentre uguale resta, per tale A. clarkii, l’abitudine a praticare il podismo super-acquatico, nel momento fatidico della sua storia riproduttiva annuale. In quella che viene definita dagli etologi una vera e propria cerimonia, per la ripetizione di una serie di gesti e movimenti chiaramente sempre identici, facenti parte delle cognizioni ereditarie possedute in potenza fin dal momento in cui l’uccello fuoriesce dall’uovo.
Si comincia, in genere, con un richiamo ripetuto e squillante, finalizzato a segnalare ai propri simili che la sfida è prossima a cominciare. Una volta che i maschi si ritrovano assieme, e le femmine riunite in cerchio a guardare, le coppie di pretendenti si mettono fianco a fianco ed uno di loro solleva prima il lungo collo da cigno, quindi il corpo intero. Iniziando a muovere con precisione consumata i suoi piedi palmati, mentre accelera rapidamente verso l’orizzonte e di nuovo in senso contrario. La controparte, ben presto, inizia a seguirlo sincronizzando i propri movimenti fino al benché minimo dettaglio, mentre i due fanno a gara per vedere chi riesce ad andare più lontano, o alternativamente riesce a proseguire più a lungo la stancante attività fisica. Una volta che le potenziali partner hanno fatto la propria scelta, si esegue a questo punto una corsa finale i cui due membri sono i novelli innamorati, pronti a passare alla seconda parte della loro ben precisa cerimonia nuziale. Chiamata per l’appunto “rito delle alghe” in quanto consiste nel tuffarsi ripetutamente sott’acqua, per offrire vicendevolmente al partner piccoli ciuffi di materiale erboso, che viene successivamente rigettato da una parte con un elegante movimento del lungo becco appuntito. Un passaggio potenzialmente finalizzato a dimostrare in potenza l’abilità dei membri della coppia nell’imminente costruzione del nido tra le canne e la vegetazione lacustre ripariana. Verso l’ottenimento di uno stato di grazia e soddisfazione familiare, che culmina generalmente con la deposizione di 3-5 uova bluastre, destinate ad essere covate a turno da entrambi i genitori. Mentre l’altro, dimostrando il suo altruismo, si occupa di procacciare il cibo per entrambi nutrendo il coniuge come se fosse parte della sua stessa prole…
Le lunghe implicazioni oniriche dell’ultra-uovo
Polli paracadutisti che conquistano le spiagge della Normandia; piccioni provenienti dal futuro; cicogne trasformate, per il tocco di una magica bacchetta, negli elfi alati di un diverso tipo di Babbo Natale. Esprimi dunque un desiderio, quest’oggi, mentre lasci finalmente la cucina: “Vorrei. Che il mondo fosse fatto nella specifica misura del bisogno… Che ogni cosa ed animale, che siano frutto di un Disegno oppure il corso dell’Evoluzione, perseguissero l’unico scopo di semplificare il senso ed il significato della mia esistenza.” Così battono le dita sull’invisibile tastiera del destino ed Internet, manifestazione materiale dell’umano anelito immanente, giunge in vostro aiuto per il tramite del vaticino che ha il nome di Google, l’onnisciente. Un lungo…Uovo. E in fondo… Perché no? Disposti gli ingredienti di una tipica insalata o di un panino, come i pezzi di una strategia scacchistica Vs. Kasparov dei tempi migliori, tutti abbiamo già sperimentato quell’acuta sensazione d’inadeguatezza. Alla difficoltosa presa di coscienza che “Il perfetto cibo pre-confezionato dai pennuti” non è poi così perfetto, e neanche concepito come cibo, all’origine del suo progetto funzionale. Come sarebbe mai possibile spiegare, altrimenti, la maniera in cui la capsula biologica per eccellenza, una volta resa solida grazie alla trasformazione alchemica del fuoco manovrato dall’umano desiderio (“uovo sodo”, hai presente) può essere divisa solamente in fette trasversali ove la divisione tra la chiara e il saporito albume pare essere, per l’ingiustizia perenne, palesemente ineguale!
È il paradosso fondamentale della civilizzazione industriale, quest’ultimo, per cui produrre confezioni progressivamente più complesse aumenta l’inquinamento e la produzione collaterale di scarti, ma riduce in modo esponenziale l’inerente spreco dei non meno preziosi ingredienti. Pensate a tal proposito, a tutti i ristoranti, le paninerie, le linee aeree, gli stabilimenti gastronomici, che in condizioni di tipo normale devono gettare via, in media, il 33% di ciascun uovo! (“Cameriere, dov’è il rosso nella mia porzione? Inaccettabile! Inappropriato!) A meno, s’intende, di far ricorso allo strumento futuribile della tecnologia. Perché intendiamoci, il lungo uovo nell’epoca moderna c’è probabilmente sempre stato. Ma semplicemente nessuno amava parlarne, per l’immediato senso di rammarico e di raccapriccio che una simile creazione “contro natura” sembra suscitare nella mente degli spettatori-per-caso, subito pronti ad inneggiare ai meravigliosi meriti del cibo prodotto in modo AUTONOMO dalla natura, conversando tra un porzione di corn flakes, una fetta di salame e l’irrinunciabile scatoletta di tonno, sorta splendida tra i flutti dell’oceano senza fine. Così che ad oggi, grazie a uno specifico segmento televisivo, tale mistica pietanza ha guadagnato la particolare provenienza geografica della terra di Danimarca, dove una fabbrica con significativi gradi d’automatismo veniva mostrata produrne una quantità smodata, per un mercato chiaramente dedito alla persecuzione della massima praticità culinaria. Sto parlando del servizio riservato dal programma tedesco per bambini Die Sendung mit der Maus (“La trasmissione con il topo”) a questa delicata faccenda, che comincia tra gli astrusi macchinari e raggiunge il suo culmine su una spiaggia delle Isole Salomone. Il cui commento più immediato, nonché valido a comprendere il fondamentale nesso della questione, appare pienamente riassumibile nella domanda: “Che tipo di pollo serve, esattamente, per produrre un lungo uovo?”
A proposito del Sakabula, passero con la coda di un pavone in miniatura
Non è del tutto chiara quale sia l’associazione tra il mostro leggendario del folklore sudafricano, vagamente simile a Piedone o l’Uomo Nero, e l’uccellino piuttosto comune della famiglia Ploceidae, tessitore d’accoglienti nidi, la cui caratteristica principale si trova in opposizione al becco usato per dare la caccia ai semi e qualche volta, insetti piccoli ma nutrienti. Forse il colore, forse il fatto che numerose tribù guerriere, tra cui quella dei temuti guerrieri Emasotsha degli Zulu indossassero le loro piume caudali come parte di un impressionante copricapo, composto in egual misura di parti d’uccello e puro ed inadulterato terrore. Questo perché la vedova codalunga (Euplectes progne) è diffuso nell’intera zona centrale del continente africano dall’Angola al Botswana, dal Kenya allo Zambia, passando per il Congo e lo Swaziland, dove riesce ad essere famoso proprio per il suo comportamento caratteristico e lo stile usato per volare, condizionato in massima parte dall’estensione alquanto esagerata presentata dal comparto retrogado del suo affascinante mantello: mezzo metro contro gli appena 140 cm di apertura alare risultando in altri termini, tre volte e mezzo più lungo di quanto è largo. Così sollevati da terra ad un’altezza non superiore a quella del capo umano, gli esemplari maschi sorvegliano dall’alto il proprio territorio, senza curarsi eccessivamente di attirare l’attenzione di un eventuale predatore. Non c’è molto che possa fare d’altra parte il goffo e inoffensivo uccello, quando inseguito da rapaci o carnivori felini, causa proporzioni sconvenienti ed il profilo certamente poco aerodinamico dettato dalla forma che più di ogni altra riesce a definirlo. Fatto quindi oggetto di una serie di approfonditi studi fin dall’epoca della sua prima classificazione nel 1779, ad opera del sempre rilevante naturalista Georges-Louis Leclerc, Comte de Buffon, quello che culture africane molto distanti tra loro chiamavano col nome inter-lingua di etimologia incerta sakabula ha lungamente lasciato perplesso il mondo scientifico recentemente accomunato da un metodo d’analisi comune, almeno parzialmente per la collocazione cronologica esattamente 80 anni prima delle teorie sull’evoluzione di Darwin, ma anche per una semplice discordanza logica tra forma e funzionalità. Che cosa, infatti, aveva potuto dare l’origine ad un uccello che non sembrava trarre alcun tipo di vantaggio dalla sua mancanza d’agilità, tranne quello assai transiente di occupare una doppia pagina sui cataloghi biologici dell’habitat oggetto di tanto interesse da parte umana? Interrogativo la cui risposta può essere immediatamente più chiara, quando si considera come non soltanto le femmine della stessa specie presentino una semplice colorazione marrone a macchie e code di dimensioni ragionevoli, ma lo stesso discorso si applichi ai maschi subadulti e tutti quelli che non hanno ancora sperimentato la propria prima stagione degli accoppiamenti. Passeriformi normali a tutti gli effetti, esattamente come se la natura stessa avesse chiaro come la progettazione originale dell’uccello in questione risulti essere poco efficiente, soprattutto nel suo competitivo contesto geografico d’appartenenza. Ecco perché l’Euplectes progne, il cui nome è un composto della parola greca eu (bello) + quella latina plectes (tessitore) seguite dal termine che significa “rondine”, viene ad oggi considerato uno degli esempi più estremi di condizionamento fisico dettato dalla selezione naturale, non per semplici ragioni di sopravvivenza bensì l’obiettivo di portare a compimento con successo la missione più importante, quella di andare, per così dire, a meta. Portando a termine l’accoppiamento che così tanto, attraverso i secoli, è costato alla sua antica specie…