Era esattamente l’ultimo giorno di aprile del 1982, quando l’isola vulcanica di Ascensione, nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, si svegliò al rombo di una vera e propria carovana aerea, la più impressionante fila di aerei che sarebbe mai decollata dal suo piccolo aeroporto militare, costruito dagli americani come punto d’appoggio per la traversata e poi lasciato in eredità agli inglesi, possessori indiscussi di questo, ed innumerevoli altri territori remoti. Luoghi come l’arcipelago delle isole Falklands a largo dell’Argentina, almeno finché il generale Leopoldo Gualtieri, l’allora presidente di quel paese, non aveva deciso all’inizio del mese di “invaderle” e dichiararle nuovamente parte della sua potestà, in una mossa decisamente poco diplomatica destinata ad essere definita da molti dei suoi successori, per usare un eufemismo, un potenziale passo falso. Così che la risposta delle forze armate di Sua Maestà, assai prevedibilmente, non tardò a farsi sentire, dando origine ad uno dei conflitti più squilibrati, risolutivi e chiari dell’intera storia moderna. Una guerra costata “soltanto” 907 vittime, la cui rapida risoluzione, secondo gli storici nazionali, fu anche il merito di una singola ed ambiziosa follia, una di quelle strane iniziative tattiche, tanto caratteristiche del paese di Robin Hood e King Arthur, che avrebbero in seguito ispirato scene come la distruzione della Morte Nera nel fenomeno su pellicola di Star Wars. Stiamo parlando, in altri termini, del bombardamento più a lungo raggio della storia fino a quel momento, condotto per di più da una coppia di velivoli che all’epoca avevano quasi trent’anni, essendo stati concepiti all’epoca per una specifica missione e soltanto quella: decollare senza preavviso, superare l’antiaerea sovietica volando ad alta quota e sganciare una o più bombe atomiche sulle principale città del blocco orientale. Il che avrebbe richiesto, per dare spazio alla matematica, un’autonomia inferiore ai 4.000 Km, contro i 12.600 che distava l’isola di Ascensione dall’aeroporto di Stanley nella zona militare di Buenos Aires, unico luogo nel paese sudamericano da cui potessero decollare i moderni intercettori Dassault Mirage III. A meno che a qualcuno, mediante l’impiego di bombe rigorosamente convenzionali, non venisse in mente di sorvolare quell’obiettivo, e senza alcun margine d’errore praticare un gran buco proprio al centro della pista principale. Ma chi avesse alzato lo sguardo al cielo, quel giorno, sarebbe stato preso in contropiede: in mezzo a una flotta composta per lo più da 11 aerocisterne Handley Page Victor, dalla riconoscibile prua tondeggiante, figuravano due strani velivoli dalla forma inusitata, il cui rombo in fase di decollo riusciva ad emergere persino da un tale frastuono. Raggiunta la fine della pista, quindi, i poderosi motori salirono fino al massimo dei loro giri. Chi avesse ascoltato senza le conoscenze di contesto un simile grido beluino, probabilmente, avrebbe pensato che la vecchia montagna si era risvegliata, preparandosi alla colata di lava destinata a fare il suo ingresso dalla porta principale di casa.
Una caratteristica ricorrente dei macchinari bellici inglesi, volendo trovare un filo conduttore attraverso le epoche, è la loro tendenza ad assumere un aspetto altamente riconoscibile e distintivo, persino per le mansioni di tipo ordinario. A partire dai carri armati delle origini, dalla caratteristica forma romboidale, evolutisi all’epoca della seconda guerra mondiale nel Churchill, dal design inconfondibile piatto, largo e rettangolare. Per non parlare, poi, della linea elegante degli splendidi Supermarine Spitfire, aerei al tempo stesso leggiadri e “cattivi”, le cui ali dal profilo a petalo bastano ancora oggi ad emozionare gli appassionati di aeromodellismo e storia dell’aviazione. C’è stato tuttavia un caso, una singola, rinomata contingenza, in cui l’aspetto esteriore di un velivolo sembrò esulare completamente dalle aspettative di contesto, sfociando in un micidiale bombardiere dell’epoca della guerra fredda, non meno improbabile, dal punto di vista della sua forma e potenzialità, dell’aereo di Wonder Woman o degli X-Men. Ben pochi in effetti, posando per la prima volta lo sguardo sulle forme geometriche di una simile meraviglia dei cieli, tendono a collocarlo realisticamente al principio degli anni ’50, epoca del suo primo volo, associandone istintivamente l’aspetto al B-2 (l’ala volante) o gli altri aerei ben più recenti della divisione progetti segreti Skunk Works della Lockheed Martin statunitense. Ma il Vulcan, come chiaramente esemplificato dal suo nome completo, è in realtà frutto dell’ingegno puramente britannico della Avro, una fra le prime compagnie al mondo operative nella storia dell’aviazione. Mentre ogni sua più insolita caratteristica, lungi dall’essere il frutto di una semplice ricerca di sterile differenziazione, è una conclusione a cui si giunse per gradi, guidati dalla lanterna della pura e semplice necessità. Ciò di cui stiamo parlando, in effetti, fu il frutto di un lungo periodo di studio e progettazione…
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Una scacchiera gigante intagliata dai piloni del ponte
Canada, Confederation Bridge: tre semplici parole, che comportano in realtà una narrazione carica d’implicazioni meteorologiche e il lato più impietoso del carattere climatico del mondo. Gelo, nelle ossa. E movimento della corrente oceanica che ogni giorno, per l’effetto del vento, s’instrada nel canale che divide l’Isola di Prince Edward dal continente Nordamericano. Una commistione di fattori che risulterebbe ardua da comprendere, per così dire, al volo, se non fosse per la pronta disponibilità di immagini come questa, scattata col telefonino dall’istruttore di volo Paul Tymstra a bordo del suo Cessna 172 del 1973. Un aereo che noi tutti conosciamo, grazie alle disordinate scorribande compiute in ore di volo su Flight Simulator: quattro posti a bordo, sportelli come quelli della macchina, un paio di ali situate in alto e le tre ruote del carrello non ritraibile, chiamato in gergo “il triciclo”. Non propriamente il velivolo in cui vorremmo trovarci, insomma, quando la temperatura scende molti gradi sotto lo zero e le nubi si addensano con aria di tempesta.
Ma il cielo era limpido, quel giorno, e la mano salda che impugnava il cellulare è così riuscita, grazie alla luce del sole e una risoluzione più che buona, a catturare quello che vedete riportato qui sopra. Questa è una foto che andrebbe guardata nei particolari: una singola e compatta massa di ghiaccio, nella parte inferiore dell’inquadratura, che lascia il posto, a partire da un’altezza estremamente precisa, ad una serie rettangoli in sequenza parallela, apparentemente non dissimili dalle caselle usate nei giochi della dama e gli scacchi. Ma larghi, ciascuno, esattamente 250 metri, in funzione del singolo elemento per così dire “nascosto” dell’eccezionale composizione. Potreste riuscire a scorgerlo se cliccate e ingrandite l’immagine: quella sottile striscia scura, che agisce come una sorta di separatore tra la parte integra e quella segmentata della distesa glaciale. Lo spirito e l’anima del ponte. Il “corpo” fisico di quanto l’originale confederazione delle colonie inglesi del Nord, oggi trasformata in un singolo stato, sia riuscita a costruire al termine degli anni ’90, dopo una delibera durata una generazione e un tempo assai più lungo trascorso a destreggiarsi coi traghetti stagionali. Limitati a primavera, estate ed autunno, perché questo particolare tratto di mare, lo stretto di Northumberland, ha una caratteristica decisamente fuori dal comune: la capacità di ghiacciarsi completamente in inverno, diventando totalmente impossibile da navigare. Ma non per questo, statico, con ben due correnti contrapposte che si scontrano in un vortice centrale, trasformando il suo punto più stretto nell’approssimazione naturale di una colossale betoniera distruggi-navi. Ecco spiegata, dunque, l’importanza degli aerei: fino al completamento di quello che i locali chiamano affettuosamente il “Passaggio Fisso” il miglior modo per raggiungere l’isola durante il grande freddo era a bordo di un mezzo volante, con l’unica, temeraria alternativa delle cosiddette iceboat, barche a remi con una lunghezza media di 5 metri, che l’equipaggio e i passeggeri dovevano letteralmente sollevare, una volta raggiunti maggiormente solidificati del tragitto, e spostare a braccia finché non era di nuovo possibile tornare a galleggiare. Una soluzione estremamente scomoda, per un luogo abitato da quasi 150.000 persone, con una natura splendida capace di sostenere una proficua industria del turismo.
Così che la percezione di una forte necessità, normalmente, pone le basi per l’ipotesi di massicci megaprogetti. E qualche volta accade, con un plebiscito popolare e la magnanima approvazione della classe al potere, che simili ipotesi ingegneristiche approdino al programma dei lavori con sovvenzioni statali. E un significativo aiuto, in questo caso, di un consorzio privato (Strait Crossing Development Inc.) che potrà incassare tutti gli introiti derivanti dai (costosi) pedaggi fino all’anno 2032. Condividendo, inoltre, il merito di foto straordinarie come questa. Già, la foto. Ritornando allo strano fenomeno: avevate mai visto niente di simile? Come credete che sia stato possibile per il ponte tagliare il ghiaccio a quel modo? La risposta, come spesso capita, non può prescindere da una sommaria analisi tecnica di ciò di cui stiamo parlando…
Lo spettro atlantico del mega-tsunami
All’alba del giorno X, lievi tremori sveglieranno tutti i cani delle isole Canarie, per quello che i locali potrebbero interpretare, inizialmente, come l’ennesimo sciame sismico privo di conseguenze. Ma una scossa più forte delle altre, all’improvviso, lascerebbe intuire la verità: la montagna di fuoco che si risveglia, ancora una volta, per scatenare tutta la sua furia repressa sulle teste di coloro che da un tempo lunghissimo, sono vissuti all’ombra della sua svettante presenza. Un poco alla volta, o forse nel giro di un istante, gli sconvolgimenti geologici che seguono puntualmente il fenomeno di un’eruzione, intaccherebbero in profondità la crosta e il mantello, con ondate oblique che andrebbero a manifestarsi, di nuovo, in un particolare punto della montagna del Cumbre Vieja, sull’isola verdeggiante e ospitale de La Palma. E sarà allora che l’evidente crepa sul suo versante, lungamente studiata da geologi ed altri scienziati della Terra a partire dal 1999, raggiungerà un punto critico di non ritorno. Un disastro come questo che avanza, lento e imperterrito, verso il suo espletamento risolutivo, può essere facilmente previsto. Ma ci sono casi in cui neanche l’uomo, l’onnipotente, onnisapiente erede delle scimmie sagge della Preistoria, può industriarsi per risolvere alcunché. Così l’intero versante ovest del monte scivolerà in mare. Potrebbe succedere tra mesi, anni, oppure generazioni. Ciò di cui dovremmo preoccuparci maggiormente, tuttavia, non è l’incertezza cronologica. Bensì la portata, letteralmente globale, delle possibili conseguenze.
Tutti in Italia conoscono, se non ricordano in prima persona, il disastro terribile del Vajont. Quando il nuovo bacino idroelettrico dell’omonimo torrente alpino, costruito senza studi sufficientemente approfonditi della geologia locale, subì le gravissime conseguenze di una frana, verificatasi il 22 marzo 1959, per una quantità complessiva di detriti ammontante a 3 milioni di metri cubi. I quali, precipitando all’interno del lago artificiale, trascinarono con se ossigeno sollevando una quantità persino superiore d’acqua, che tracimando al di fuori dell’invaso, trascinò a valle la spaventosa ondata di fango e pietre che, a partire dalle ore 22:39, causò la totale distruzione di svariati villaggi del fondovalle veneto. Nonché la tragica morte di 1.910 persone. Quello che invece non viene spesso discusso, perché distante geograficamente e fortunatamente privo di conseguenze altrettanto gravi, fu il fenomeno estremamente simile che si era verificato soltanto l’anno prima nella baia di Lituya, non troppo lontano da Anchorage, capitale e principale città dell’Alaska. Quando, per un sommovimento tellurico, le pareti scoscese del golfo si staccarono in maniera improvvisa assieme a una parte del ghiacciaio soprastante, precipitando rovinosamente in mare. 300 milioni di metri cubi stimati, di pietra, terra, neve e detriti, abbastanza per sollevare un’onda apocalittica dall’altezza di 30 metri, che risalì le pareti della baia in data 9 luglio del 1948. Cinque persone, che si trovavano a bordo di due barche di pescatori, persero immediatamente la vita, mentre un sesto equipaggio, composto da marito e moglie, che si trovava all’imboccatura della baia, riuscì a cavalcare con la propria barca la furia della natura sconvolta, per testimoniare l’incredibile evento a beneficio della posterità. Oggi si ritiene che, se questo prototipo del concetto stesso di mega-tsunami si fosse generato in un tratto di mare più aperto, per l’effetto domino delle masse d’acque coinvolte, avrebbe finito per generare la più grande onda anomala della storia, devastando l’intera costa ovest degli Stati Uniti.
Ma persino tutto questo non è praticamente nulla, in confronto a quanto potrebbe verificarsi, secondo uno studio scientifico pubblicato da Simon Day, Steven Neal Ward et al, relativo a quello che ci aspetta nel momento in cui il fianco ovest della seconda vetta più alta delle Canarie dovesse spaccarsi letteralmente in due, lasciando precipitare in mare la quantità stimata di un milione e mezzo di metri cubi di terra e pietra. I quali, accelerando in fase discendente, andrebbero a generare il più grande flusso di detriti della storia registrata, come un sasso gettato al centro di un lago, grande quanto la metà dell’intero pianeta Terra. A quel punto, a patto che il crollo si verifichi in maniera improvvisa e non graduale, ciò che andrebbe a crearsi è un’onda concettualmente non dissimile da quella del Vajont o della baia di Lituya, ma molto più grande ed ampia. La quale si propagherebbe, in maniera minore, verso il Nord Africa, il Portogallo e la parte meridionale dell’Inghilterra. Ma sarebbe sopratutto una direzione, ad accogliere tutta la sua furia: l’estremo Occidente, verso le coste inconsapevoli dei remoti Stati Uniti.
I nidi sotterranei del pappagallo dei mari
Lo chiamavano puffin, il clown dei mari. Oppure “la” Pulcinella, per differenziarlo dal personaggio del carnevale. Forse per analogia con “la” papera, “la” berta… Ma a conti fatti, dal punto di vista aero/idrodinamico, si tratta di una creatura che ha più di qualche cosa a che fare con “il” pinguino. Da cui l’appellativo Fratercula, il piccolo frate (dal piumaggio nero). Fatta eccezione per il ventre bianco, il becco variopinto e le zampe arancioni. Un animale perfettamente in grado di destreggiarsi in aria, nonostante il corpo arrotondato dalla notevole profusione di piume, così come in acqua, una innata prerogativa della sua intera famiglia degli Auk (Alcidae in latino). Poiché essere carini non sottintende alcuna facilitazione nelle avversità del quotidiano, e direi che il suo stile di vita, tra tutti quelli degli uccelli dell’Oceano Atlantico, resta uno di quelli che richiede il maggior grado di coraggio. La sua varietà più famosa vive nei mari freddi, a settentrione d’Europa, sulla cima delle ripide scogliere di Scandinavia ed Islanda. Da dove si tuffa a capofitto, nella ricerca di piccoli pesci e cobepodi, che afferra in grande quantità grazie alla particolare conformazione del suo becco, per riportarli quindi immediatamente al suo singolo pulcino, nascosto in modo particolare nel mezzo di un prato. Giacché camminando, durante un soggiorno turistico tra tali lidi, può capitare di udirne il richiamo: come un lamento penetrante fra il nulla, il suono di un trapano alla potenza minima, che sembra provenire dritto da sotto i piedi. E nei fatti, è proprio così: poiché la piccola Pulcinella di 30-32 cm, al momento della deposizione del suo prezioso uovo, si è messa a scavare assieme al compagno per l’entità di un metro. Per far covare a turno ed in fine nascere il suo erede laggiù nel profondo, lontano dal Sole e dai predatori. Una strategia evolutiva, questa, piuttosto insolita per un volatile, ancor più nel caso in cui si tratti di un uccello marino. Che in effetti risulta essere ben poco conosciuta, nonostante il piccolo in questione compaia spesso come simbolo di luoghi quali la Groenlandia, le Isole Faroe, le Vestmannaeyjar e addirittura il Canada occidentale, dove talvolta si recano per svernare, su francobolli, guide turistiche e banconote. Il che probabilmente, non va molto bene all’uccello, che cerca soprattutto un’irraggiungibile tranquillità.
Lungi dall’essere una creatura rara e pregiata, il puffin esiste tutt’ora in oltre 10 milioni di esemplari, benché il mutamento climatico e la caccia eccessiva ne abbiano ridotto il numero di circa il 40-60% nel corso delle ultime quattro generazioni umane. Il suo problema principale è la temperatura del mare, che dovrebbe rimanere al di sotto di un certo valore affinché possa riuscire a cacciare: circa 10-15 gradi, oltre i quali le sue prede tipo si rafforzano, e diventano in grado di nuotare più velocemente di lui. A quel punto, tutto quello che gli resta da fare è migrare, oppure perire. Ma è comunque una triste scelta, questa, poiché l’uccello in questione è non soltanto monogamo, ma preferisce fare il nido sempre nello stesso luogo esattamente come la rondine, talvolta perché ciò gli permette di sfruttare un pertugio pre-esistente magari scavato da un piccolo mammifero come il coniglio. In ambienti in cui tale possibilità si presenta, è possibile incontrare delle vere e proprie colonie di questo uccello socievole, che preferisce vivere in gruppo e ricerca, più di ogni altra cosa, la vicinanza dei suoi simili. Esattamente come fanno i pappagalli. Probabilmente per un meccanismo evolutivo dell’immunità dello stormo, da predatori che includono non soltanto uccelli rapaci, ma anche grossi pesci e talvolta, persino le foche. Per quanto concerne invece le creature terrestri, generalmente il puffin è piuttosto al sicuro, a causa del posizionamento remoto dei suoi pochi, collaudati luoghi d’approdo. Soltanto una creatura, non sembra intenzionata a lasciargli condurre in pace la sua esistenza. Serve realmente che faccia il nome? Siamo noi, l’uomo. O per essere più specifici i nostri simili di talune terre, dove la carne del volatile in questione viene considerata una vera prelibatezza, e l’attività di cattura costituisce un’eredita tramandata dall’epoca dei più remoti antenati. In modo particolare nel territorio d’Islanda, dove la caccia è permessa ed attentamente regolamentata, preferibilmente da effettuare tramite l’impiego dello strumento di una rete da lacrosse sovradimensionata dal nome di fleyg, da manovrare attentamente presso l’estremità a strapiombo del faraglione. Tanto che nel 2008, in un famoso e criticato episodio del suo show, The “F” Word, il famoso cuoco inglese Gordon Ramsey cadde da un dirupo alto 25 metri delle isole Westman finendo in mare e rischiando di morire annegato. Tra la cruda soddisfazione degli animalisti, rabbiosi per l’aver mostrato anche la scena in cui veniva tirato il collo al grazioso volatile pronto per la padella.