Per l’ira degli dei o il semplice destino dei continenti, l’antico continente emerso di Atlantide fu trascinato negli abissi, senza la benché minima residua considerazione per i suoi condannati abitanti. Un mito possibilmente collegato all’episodio preistorico dell’alluvione zancleana, consistente nell’apertura dello stretto di Gibilterra e il conseguente riversamento dell’Atlantico in quello che oggi costituisce il vasto bacino del Mar Mediterraneo. Ciò che l’ideale narrazione, tuttavia, oggi manca di menzionare, è che nel progresso dei secoli la lenta e prototipica scomparsa delle masse emerse ha suscitato l’emersione di una forza contrastante: umana è tale mano, e non del tutto intenzionale l’intento. Se non nella misura in cui esso permette alle disordinate moltitudini di eliminare un tipo di problema latente, quello relativo al dispendioso, spesso impegnativo smaltimento dei maleodoranti residuati del consumismo. Ah, spazzatura! Segno amato-e-odiato dell’odierno culto dell’abbondanza. Che una volta generata, puoi persistere oltre il mero cerchio delle imprescindibili generazioni. Fino a diventare una parte dolorosa, ma feconda, dei sostrati senza una presenza chiara sulle mappe dei viaggiatori. In ogni caso tranne uno, di primaria importanza. Fu in effetti l’Amministrazione per l’Oceano e l’Atmosfera statunitense (NOAA) a predire inizialmente nel 1988 l’esistenza di un punto di convergenza per la plastica non biodegradabile presente negli oceani terrestri, in un punto grosso modo al centro del Pacifico dove le correnti del pianeta tendevano a confluire fin dai tempi estremamente distanti. Finché 9 anni dopo l’oceanografo Charles J. Moore, di ritorno da una lunga regata, non incontrò un colossale ammasso di flottanti detriti. La più eccezionale concentrazione di spazzatura mai avvistata lontano da masse emerse evidenti. Un’immagine capace di trarre in inganno, tanto che l’appropriatamente denominata EGP (Eastern Garbage Patch) poi GPGP (Great Pacific Garbage Patch) dopo l’agghiacciante presa di coscienza dei suoi circa 1,6 milioni di Km quadrati d’estensione e 79.000 tonnellate di peso, viene da quel momento descritta dai media internazionali come una letterale isola compatta e percorribile, in qualche modo tenuta assieme da una sorta di perversa tensione di superficie. Il che accantona il fattore di contesto riassumibile in quanto segue: l’oceano è davvero molto, molto grande. Ed ogni elucubrazione attorno all’idea di un concentramento di materiali dovrebbe essere interpretata sulla base del relativismo contestuale. Il che permette la corretta interpretazione della “chiazza” come una presenza soltanto parzialmente affiorante di detriti occasionali, qualche bottiglia, frammento di oggetto d’uso comune ed altro, soggiacente all’accumulo sottostante del vero problema. Un letterale brodo fatto delle microplastiche a grandezza microscopica o poco più di questo. Elemento di estremo disturbo dal punto di vista ecologico, per la capacità di avvelenare e mettere a rischio una grande quantità di specie marine. Ma anche, nel modo sottoposto a studi approfonditi a partire dall’inizio degli anni 2020, la genesi e propagazione di altre. Diventando sinonimo di vita, in una maniera che può risultare parimenti problematica, se non addirittura più del processo inverso…
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Le ali nella spazzatura che riemergono grazie agli uccelli anamorfici di Tom Deininger
Nasce, cresce, si trasforma. Vola, viaggia, piomba sul bersaglio. L’arte che fluttua e si agita nell’aere, su correnti ascensionali che costituiscono il prodotto alternativo della società. Civile, si, da un vasto punto di riferimento. Razionale. Ma anche poco avvezza a mettere su un piedistallo quella serie di concetti e accorgimenti che costituiscono le plurime sfaccettature di un sistema sostenibile ad oltranza. Un’epoca che non distrugge se stessa, non annienta fino all’ultima scintilla di speranza che sussiste nel suo presente. Perciò ben venga l’atto di chi sdrammatizza e riconquista. L’opera di colui che, alle prese con l’oscurità, guarda verso la luce e tenta in qualche modo di mostrarci la via giusta per sbucare dall’oscurità della caverna. Thomas Deininger del Rhode Island (Norwell) a poca distanza dalla città di Boston, è uno di costoro, come chiunque può notare avendo l’opportunità di scorgere una delle sue opere compiute, cui d’altronde sembra mancare ancora qualche cosa d’importante: l’anima intangibile che è sinonimo poetico dell’esistenza. Sebbene ne possiedano, a ben vedere, di un diverso tipo che può essere toccato, manipolato, interpretato in molti modi allo stesso tempo. Prendete, per esempio, uno dei suoi molti corvi, merli, pappagalli. Sculture tridimensionali messe al centro di un riquadro monocromatico, e frequentemente presentate al pubblico attraverso un punto consigliato per osservarle. Questo perché, come un miraggio della Fata Morgana al centro di un deserto riarso, basterà spostarsi innanzi per scoprirne l’improbabile segreto. Scovando l’assoluta moltitudine, in quella gestalt che in origine sembrava presentarsi come un unico insieme. L’avrete certamente visto, a questo punto: lui è quel tipo di creativo che raccoglie oggetti di recupero un po’ qui, un po’ lì (egli stesso è solito chiamarsi: “artista della spazzatura”) per poi usarli come materiale utile a creare l’ultima visione scaturita dai complessi labirinti della sua fantasia. Primariamente figurativo, ossia abile nella raffigurazione iconica di soggetti esistenti, soprattutto animali, la sua forza espressiva risiede primariamente nell’impiego di un ben collaudato sistema. In base al quale gli oggettini colorati, i vecchi giocattoli, i ritagli di reti o recinzioni vengono laboriosamente messi in posa ed incollati mediante l’uso di grandi quantità di colla a caldo. Secondo uno schema attentamente progettato, che è diretta risultanza di molteplici e reiterati tentativi di perfezionamento. Sostanzialmente una sorta di proiezione, concettualmente non dissimile dal metodo delle ombre cinesi. Con una significativa, tutt’altro che sottile differenza: la predisposizione ad essere ammirato in piena luce, affinché l’esatta scelta di colori e sfumature donino all’oggetto risultante un fotorealismo quasi impossibile da prevedere nel momento in cui aveva appoggiato la metaforica prima pietra dell’intricato edificio situazionale…
L’iconico castello della spazzatura sull’isola nella baia metropolitana di Osaka
Emblema esecrabile per il movimento internazionale straordinariamente disomogeneo del NIMBY (“Non Nel Mio Cortile!”) un termovalorizzatore rappresenta il paradosso di un edificio utile a migliorare le condizioni di vivibilità urbana, ma al tempo stesso sgradevole dal punto di vista concettuale. Poiché trasportare la spazzatura via dal cortile, non importa dove, parrebbe costituire dal punto di vista mediano una soluzione in qualche modo inerentemente migliore. Il che risulta essere del tutto comprensibile, in linea di principio: chi, meglio degli abitanti di un grande agglomerato, conosce le problematiche che nascono dal vivere a stretto contatto con le conseguenze a lungo termine delle proprie scelte ed azioni? Ecco perché poter disporre di un’isola artificiale, al tempo stesso vicina e separata dal centro metropolitano, parrebbe costituire una soluzione ideale per questa pesante giustapposizione; una di quelle strutture, spesso costruite paradossalmente proprio attraverso l’impiego di materiali riciclati, che hanno permesso in epoca moderna alle città giapponesi di espandersi, senza invadere il territorio di qualcun altro. Bensì tendendo in modo agile i propri tentacoli in direzione dell’infinito. Là dove sorgono, con leggiadria fuorviante, alcune installazioni di pubblica utilità del terzo centro urbano più popoloso dell’arcipelago, la capitale omonima della grande prefettura di Osaka. Tanto caratteristiche nonostante i presupposti da aver attirato, nel corso degli anni, l’attenzione di innumerevoli turisti, anche senza considerare quelli che scorgendone le torri da lontano, hanno attraversato il ponte pensando di essere diretti verso il parco dei divertimenti Universal Studios menzionato sulle guide della città. Fraintendimento surreale, a suo modo, almeno quanto gli ovoidi dorati sopra due cilindri, rispettivamente azzurro con accenti rossi e ricoperto di titaniche piastrelle bluastre, appartenenti rispettivamente all’inceneritore dei rifiuti/compattatore di rottami e l’installazione di trattamento delle acque fognarie di Maishima. Le cui mura variopinte, con profili curvilinei surrealisti e molteplici finestre dall’aspetto disordinato, sembrano richiamarsi a un certo tipo di arte surrealista di metà secolo scorso. Quella dimostratasi capace di ispirare, nelle decadi a seguire, il mondo fantastico dei cartoni animati. Non abbiate tuttavia alcun dubbio residuo, sul fatto che simili punti focali dell’attenzione dei passanti occasionali o meno siano l’opera quanto meno esteriore di un importante nome del mondo dell’architettura, ovvero la nostra precedente conoscenza di Friedensreich Hundertwasser, il pittore, scultore e progettista di Vienna, autore tra le altre cose della spettacolare Torre della Birra di Arlensberg e la quasi reazionaria Hundertwasserhaus, un condominio dove ogni abitante ha il diritto nominale di dipingere le pareti esterne fino al punto che riesce a raggiungere con il braccio dall’interno della finestra di casa sua. Nient’altro che un preambolo, di quella che potrebbe dirsi la fondamentale eredità poetica di un personaggio che aveva molto da insegnare…
Megaspirapolvere d’Olanda: ai festival come in autunno, tra gli alberi le foglie
“Ma si, dopo tutto giunti a questo punto… Che differenza può fare?” Il milionesimo partecipante al primo grande festival musicale in calendario d’Olanda, per lo meno in ordine di tempo, si guarda intorno con gli occhi socchiusi e l’aria circospetta. Alle letterali migliaia di espressioni assorte catturate dal concerto, al servizio d’ordine distante e come al solito distratto. Quindi preso l’ultimo sorso dalla sua lattina di birra preferita, allunga il braccio con gesto magniloquente. E aprendo le dita, la lascia cadere a terra. Di certo, in un mondo ideale o quasi, un tale oggetto avrebbe rotolato senza un suono in mezzo all’erba sgombra, per essere immediatamente calpestato ed appiattito dall’ondeggiante danza dei presenti. Ma poiché siamo al Paaspop, dove l’educazione ambientalista di un popolo molto civile viene temporaneamente accantonata, l’oggetto d’alluminio cade in mezzo a molti altri, entrando a far parte di un sostrato ininterrotto e stranamente soffice al calpestio.
Molte ore dopo al tacere degli altoparlanti, il palcoscenico e gli spalti ormai del tutto silenti, l’addetto alle pulizie contempla la portata del disastro: un ammasso policromo d’oggetti, recipienti, piccoli contenitori. E fazzoletti, buste di plastica, frammenti d’indumenti e addirittura qualche tenda, addirittura. È un preservativo, quello? Poco importa. Con un cenno a lato che ricorda dolorosamente quello di coloro che hanno dato il proprio contributo individuale all’Apocalisse, fa capire al suo collega che è giunto il momento di farsi avanti. Un rombo di motore suona in mezzo all’aria tersa del mattino, spaventando stormi di gabbiani intenti a setacciare la discarica in cerca di cibo. Si tratta dell’iconico grido di guerra del semovente porta-attrezzi a tre ruote FM-3 della Widontec. Con mano ferma sul volante, Herman Eskes fa il suo ingresso nell’arena, procedendo a un ritmo lento ma sostenuto. Il veicolo in questione, dapprima procedendo in linea retta, disegna un arco lungo il manto ininterrotto della spazzatura. E dove esso è transitato, in modo sorprendente, torna a intravedersi il verde di quel prato ormai del tutto dimenticato. Potremmo chiamarlo, se concesso, l’imprescindibile potenza del risucchio. Un’applicazione fisica di quel concetto secondo cui qualsiasi cosa venga immessa in un sistema chiuso tramite un potente getto d’aria, debba sempre necessariamente giungere all’interno del recipiente finale. Ovvero in questo caso, quello posto sopra il retro del curioso autocarro dal peso a vuoto di 7 tonnellate. Conveniente, nevvero? Siate attenti, tuttavia, a non cadere nella trappola di scambiare il marchingegno soprannominato commercialmente con l’appellativo “Hermanes” come l’ennesimo esempio di scopa meccanica da marciapiede, il cui principio di funzionamento tradizionale risulterebbe d’altra parte largamente inefficace alle prese con l’impressionante quantità e varietà di spazzatura che la gente ha accatastato in seguito alla festa del Paaspop. Qui siamo alle prese con una vera e propria versione sovradimensionata, ed attentamente perfezionata, del più utile e diffuso strumento elettrico per la pulizia di casa. Potenzialmente l’aspirapolvere (su ruote) più potente al mondo…



