La battaglia delle aquile giganti

Il grido distante dell’uccello, simile a quello di un cane con la tosse, sottolineò il momento dello scambio d’opinioni. Allo stesso modo di un frullar di piume, sempre più vicino, come se la natura, stanca di sopportarli, stesse per richiudersi sopra di loro. Lui sapeva bene di cosa si trattava: la battaglia infuriava di nuovo. “Per l’ultima volta Georg: non nutrirò i miei uomini con bacche, foglie e radici. Soprattutto adesso. Soprattutto in un luogo tanto ricco di cibo…Che tra l’altro, lasciamelo dire: è assolutamente…” Il grande navigatore ed esploratore Vitus Jonassen Bering, dall’alto dei suoi oltre 50 anni d’età, morsicò con gusto la coscia fumante del gabbiano kittiwake (Rissa tridactyla) tanto da trasformare la successiva parola in un goffo ed indistinto: “Deh-lischo-sho!” I pochi denti rimasti non aiutavano affatto la situazione. Assumendo un’espressione indescrivibile, l’interlocutore scrollò, per la duecentesima volta, le spalle. Naturalmente. A cosa serve un naturalista laureato a bordo? Scrivere un diario, inviare qualche lettera una volta fatto ritorno all’Accademia Imperiale di Mosca, promuovere le imprese del grande uomo che, alla ricerca di nuove rotte commerciali, gli ha permesso di vedere cose che nessuno, prima di allora, avrebbe mai neppure sognato. Non di certo, dare consigli al capitano! Per settimane e interminabili mesi, questo scambio si era ripetuto ad intervalli regolari, grossomodo con le stesse obiezioni e il risultato altrettanto inconseguente. Mentre la stragrande maggioranza degli uomini a bordo, uno dopo l’altro, cadeva vittima dello scorbuto. Finché ad un certo punto del 1741, di ritorno dalla spedizione che avrebbe aperto i mari a settentrione della Siberia ai mercantili del glorioso zar Pietro il Grande, non si giunse all’inevitabile finale. Da tempo separato dalla sua nave gemella e compagna di viaggio, la nave San Pietro aveva continuato a navigare verso Nord Est, fino ad approdare presso una terra ricoperta di ghiaccio che tutti, a bordo, sospettavano potesse essere l’Alaska. Ma a quel punto, gli uomini di mare che erano ancora in grado di svolgere le proprie mansioni si contavano sulle dita di due mani. E includevano, ovviamente, l’ospite d’onore tedesco Georg Wilhelm Steller, assieme al suo sollecito assistente. Tutti fecero il possibile, spronati dal carisma e le capacità di navigazione del vecchio e beneamato capitano. Nessuno, essenzialmente, commise errori di sorta. Ma la nave, con le vele in condizioni pessime per una precedente tempesta, alla fine naufragò.
In Paradiso, credete a me: l’isola di Bering, a largo della stretta striscia di terra segnata sulle mappe come Kamchatka, era più di ogni altra la dimostrazione in Terra dell’esistenza di Dio: florida, nonostante le temperature molto al di sotto dello zero, e brulicante di ogni forma di vita immaginabile dall’uomo. Poco dopo l’incidente, la nave San Pietro fu giudicata irrecuperabile, e i marinai ancora in grado di muoversi iniziarono immediatamente a costruire un vascello più piccolo, a partire dai rottami di quest’ultima, che potesse dimostrarsi sufficiente a tornare in patria. Tutto questo, a posteriori, fu drammatico. Ma ebbe un grosso, ed imprevisto punto a favore: dare a Georg il tempo di disegnare, appuntare e descrivere ciascuna di tali incredibili creature, poco prima di cuocerle a puntino sopra il fuoco della pura e semplice sopravvivenza. Sottoposti alle continue scorribande delle volpi artiche, i membri della spedizione non potevano conservare a lungo il cibo. Proprio per questo, ogni giorno uccidevano una delle gigantesche “mucche di mare” che di lì a poco si sarebbero viste attribuite il nome scientifico di Hydrodamalis gigas, e banchettavano serenamente. Ma lo scorbuto, senza sosta, continuava ad avanzare. “Capitano, adesso ascoltatemi. Molte miglia a sud di questa posizione, vive il popolo dei Jipangu, che è vissuto per generazioni del tutto isolato dal resto del mondo. Il loro paese, prima di essere unito, era suddiviso in clan che si facevano la guerra tra loro. E sapete, fra una battaglia e l’altra, cosa mangiano costoro? Pesce crudo ed alghe. Erba, erba proveniente dai fondali più profondi dell’Oceano stesso…” Ancora una volta, l’uomo stava superando il suo grado. Ma le sue storie… Troppo interessanti! Un’aquila abbaiò di nuovo. Ra-ra-ra-raurau, ra-ra-ra…
Li sto lentamente convincendo, pensò Steller. Sopravviveremo. Mentre si allontanava per l’ennesima volta dal campo base, inoltrandosi oltre le scogliere pietrose, dove sapeva bene cosa avrebbe avuto modo di vedere. Ancora una volta, come ogni giorno, gli uccelli più grossi e nobili di tutti i continenti, ridotti al ruolo di semplici passeri arrabbiati per qualche gustosa briciola di pane. L’aquila reale (A. chrysaetos) e quella dalla coda bianca (Haliaeetus albicilla) egualmente intente a litigarsi lo stesso scampolo di cibo. In trepidante attesa che giungesse, sulla scena, la più grande e terribile di tutte. Becco arancione, piume nere e zampe bianche, come se portasse i pantaloni. Fra tutte, l’unica con cui Steller sentisse d’identificarsi davvero.

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Un gatto invisibile che scava buche nel deserto


Nord Africa, Medio Oriente, Asia Centrale. Quando la popolazione di una specie animale si aggira tra i 200 e i 300 esemplari, può essenzialmente andare in entrambi i modi. Nel giro di una decina d’anni, a seconda della sua capacità di adattamento, dallo stato ambientale dell’area presa in esame, dalle iniziative di conservazione messe in atto dalle associazioni naturalistiche, essa può riprendersi e tornare a prosperare. Oppure estinguersi nel giro di un paio di generazioni. E non puoi aiutare in alcun modo quello che non puoi trovare, giusto? Così ormai erano davvero in pochi, tra gli studiosi degli Emirati Arabi Uniti, a credere che l’antica popolazione locale del gatto delle sabbie (Felis margarita) fosse ancora attestata nel raggio di molte migliaia di miglia dai confini del paese. Finché la piccola e sfuggente creatura, del peso medio di appena due-tre chilogrammi, non è stata nuovamente avvistata l’anno scorso nei pressi di Abu Dhabi, per la prima volta dall’ormai remoto 2005. Tre esemplari, per essere più precisi, nella regione ad ovest della città, in un area di piccole dune ricoperte di vegetazione rada e cespugli nani, particolarmente adatta alle abitudini e lo stile di vita dell’unico gatto in grado di sopravvivere nel deserto. Di sicuro, non è stato facile: gli addetti dell’Al Ain Zoo hanno dovuto fare affidamento su una grande quantità di telecamere con sensore di movimento, disposte in un’area di circa 2 Km quadrati e rese più attraenti grazie al posizionamento di scatolette aperte di cibo per gatti domestici. Un’impegno ricompensato, tuttavia, dallo spuntare di quella testa stranamente triangolare, con le orecchie impossibilmente grandi nella stessa maniera dell’ancor più piccola volpe di Fennec, la doppia coppia di strisce nere sulle zampe anteriori e la striscia marrone che dai lati degli occhi, corre fin sui margini del volto come una sorta di trucco teatrale. Impossibilmente grazioso, con proporzioni tali da poter quasi restare, in determinati casi, un gattino per la maggior parte della sua vita. Eppure così dannatamente scaltro, tanto furbo e adattato a fare affidamento sulle sue sole, notevoli capacità di sopravvivenza…
Per tutti questi anni, in effetti, il gatto delle sabbie non se n’era andato da nessuna parte. Non aveva, neppure, cambiato le sue abitudini. Animale per lo più notturno, è tuttavia perfettamente in grado di avvolgersi di un alone di suprema segretezza anche durante le occasionali escursioni diurne, alla ricerca dei roditori, piccoli rettili ed insetti di cui si nutre. Grazie ad una serie di strumenti evolutivi dalla portata tutt’altro che trascurabile: intanto la colorazione del suo manto, di un beige chiaro che riprende per quanto possibile l’arida tonalità del suo areale. Ma anche il modo con cui è solito camminare, appiattito al suolo, evitando di stagliarsi sulla sommità di una duna, rivelando la sua sagoma ad un numero eccessivo di occhi indiscreti. Il F. Margarita, così chiamato in onore di Jean Auguste Margueritte, capo sul finire dell’800 di una spedizione nel deserto del Sahara, durante cui il gatto fu per la prima volta descritto scientificamente da Victor Loche, può inoltre fare affidamento su un’adattamento particolarmente originale, relativo ai polpastrelli delle sue quattro zampe. I quali sono coperti da un fitto strato di peluria, che ha il duplice scopo di proteggerli dal calore della sabbia cotta dal sole, ma anche di nascondere con straordinaria efficacia le sue impronte, trasformandolo nell’equivalente di un alito di vento fra il nulla. Persino nel profondo della notte, nel caso in cui qualcuno gli punti contro una torcia elettrica, il gatto gode di un riflesso automatico che lo porta a chiudere gli occhi, oppure a distogliere immediatamente lo sguardo. Evitando con la massima efficienza, quindi, che un baluginio possa tradire la sua presenza. A concludere la serie dei suoi metodi per scomparire, quello forse più sorprendente: il gatto delle sabbie scava buche nel terreno (oppure s’impadronisce di quelle di volpi o porcospini) curandosi che siano sufficientemente ampie e profonde per la sua intera cucciolata di tre-quattro piccoli, all’interno della cui casa, oltre che stare al fresco, resteranno protetti da qualsiasi tipo di predatore. La visione di queste adorabili creaturine che mettono la testa fuori per spiare l’ambiente circostante deve offrire uno spettacolo impossibile da dimenticare!

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Che animale fu la leggendaria bestia di Gévaudan?

Che cos’è per noi, oggi, la Natura… Camminate in un parco, aprite un libro sull’argomento, guardate fuori dalla finestra del soggiorno (se siete fortunati) e potreste ritrovarvi a scrutare dinnanzi questa forza ormai latente, debole e arrendevole, incapsulata nel suo ruolo dall’inarrestabile espansione degli umani con le loro cose, case, strade, piste d’atterraggio per i cacofonici aeroplani. È inutile dire, che non fu sempre così. L’epoca preistorica, seguita da quella classica con le sue antiche civiltà, viveva ancora in uno stato di costante nonché giustificato terrore verso tutto ciò che aveva due, quattro oppure sei zampe, in grado di costituire un pericolo per chiunque fosse incauto e impreparato. Ma sapete cosa vi dico? In assenza dei commerci internazionali e degli strumenti di comunicazione moderni, simili episodi rimanevano dei drammi meramente familiari o toccati ad una singola comunità, da accettare come la morte per malattia o lo ius primae noctis di un distante, malevolo signore. Mentre con il progressivo prendere piede dei Lumi e della Ragione, sempre meno le belve feroci apparivano col ruolo di creature sovrannaturali. E sempre più si era disposti, seppure in grado, di trovare una spiegazione logica per ogni eccidio commesso con i denti, l’affilato becco o gli acuminati artigli. In bilico tra l’uno e l’altro stato di quiete ci fu un singolo momento nella nostra familiare Europa, un attimo di panico nel mezzo della storia di Francia, in cui qualcuno, o qualcosa, sfuggì al ruolo di semplice cacciatore o preda, per entrare nelle cronache come uno dei primi criptidi, mostri spesso spietati e in grado di sollevare innumerevoli interrogativi sulla posizione dell’uomo nella più lunga e ininterrotta delle catene. Quella, per l’appunto, alimentare. L’anno era il 1764. Il luogo, l’ex-provincia di Gévaudan, sita tra le montagne Margeride in corrispondenza delle attuali Lozère ed Alta Loira.
Sappiamo più o meno tutto della Bestia, grazie ai molti scritti prodotti dai visitatori della regione in un’epoca in cui il nuovo metodo formale scientifico si stava diffondendo tra gli studiosi e già esisteva, in Francia, il sistema del processo verbale (oggi semplicemente, verbale) in cui un testimone oculare di un delitto o incidente veniva interrogato, mentre l’individuo preposto annotava parola per parola la sua deposizione. Un’altra importante ed esauriente fonte furono le descrizioni del vescovo coévo di Mende, Gabriel Florient, nel suo libro Il Flagello di Dio, in cui si preoccupò anche di attribuire alla creatura poteri sovrannaturali ed il ruolo di un punitore verso la sempre più diffusa abitudine a peccare e rinnegare gli insegnamenti della Santa Madre Chiesa. Ma se pure la Bestia era questo, essa rappresentava anche un pericolo materialmente reale, in grado di gettare nello sconforto e fare strage di un’intera classe contadina e rurale, fino ad allora dimostratasi perfettamente in grado di scacciare via interi branchi di lupi, l’orso occasionale ed ogni altro pericolo che potesse nascondersi nelle foreste dell’ormai sempre più Vecchio continente. Tutto ebbe inizio l’estate di quell’anno, quando una giovane fanciulla di un villaggio vicino Laugogne, come era l’usanza di tali luoghi, si era inoltrata da sola nei pressi della foresta di Mercoire, con un intero branco di bovini da far pascolare. Si narra che ad un certo punto del pomeriggio, dalle tenebre tra gli alberi, fosse sbucata questa creatura simile ad un lupo ma molto più grande, e che l’avesse caricata con l’evidente intento di divorarla. E che per sua fortuna i tori del gruppo, spinti dall’istinto di proteggere le loro compagne, riuscirono a scacciarla grazie all’impressionante potenza delle loro corna. Altre fanciulle, in altri luoghi, non furono così fortunate e la prima vittima non tardò ad arrivare: il suo nome era Janne Boulet, ed aveva soltanto 14 anni. C’è un momento, un singolo terribile attimo, nella vita di alcune belve feroci, in cui esse scoprono il gusto della carne umana, e comprendono quanto sia più facile divorare uno di noi piuttosto che loro prede abituali, quali cervi, gazzelle et similia. In molte cultura, viene considerato il punto di non ritorno, oltre il quale l’unica scelta è rassegnarsi ad essere vittime a vita, oppure armarsi e reagire. Verso la fine del 1764, di uccisioni confermate se ne verificarono svariate decine, tanto che alcuni iniziarono a giurare che dovessero esistere più di una singola bestia, che tuttavia, giammai avrebbe potuto essere un semplice lupo. Le ragioni erano svariate, a partire dalle dimensioni: i superstiti concordavano sempre nel descrivere una creatura grande come un vitello, agile come un gatto e mostruosamente veloce, che attaccava senza troppi problemi anche gruppi di persone adulte ed armate, laddove il tipico canide ululante ha sempre preferito tentare la sua fortuna con i bambini e le donne sole. Molte delle vittime della Bestia avevano inoltre un aspetto atroce, con la carne letteralmente staccata via dal cranio, e le orbite vuote del teschio spalancate in un eterno sguardo vacuo di terribile sofferenza. Presto fu chiaro che se ne nessuno avesse fatto qualcosa, il mostro avrebbe divorato, con la sua fame, l’intero regno di Francia. Intervenne, dunque, il suo sovrano.

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La presenza inamovibile del pellicano educato

Un inchino, un inchino. Scuote la testa. Ribalta gli occhi e chiude le strane palpebre trasversali. C’è una diretta correlazione, nell’habitat sparsamente popolato dall’enorme Balaeniceps rex,  tra esso, i pesci polmonati dell’ordine dei dipnoi e la pianta di papiro. Questo non è certo un caso, visto come l’uccello in questione si nutra primariamente dei primi ed usi la seconda per fare il nido. Nei momenti occasionali in cui sceglie di muoversi dalla ponderosa posizione neutrale. Secoli fa, quando la sua popolazione totale non si era ridotta a soli 9.000 esemplari distribuiti tra Uganda, Ruanda, Congo, Tanzania ed il nord dello Zambia, doveva costituire una vista piuttosto comune tra i popoli di questi luoghi, che lo catturavano facilmente per farne un pasto luculliano; dopo tutto, stiamo parlando di un’animale alto più di un metro e mezzo dal peso di fino a 7 Kg. Mentre oggi, nello scorgerlo esplorando il terreno paludoso al confine della savana, sarebbe giustificato essere colti da una forte ondata di dissonanza: eccolo lì, perfettamente immobile. Un bambino con la maschera, uno stregone avvolto nel suo mantello. La cicogna dal becco a scarpa, che in realtà secondo studi di classificazione recenti dovrebbe appartenere all’ordine dei pelicaniformi, non si comporta come un comune uccello, non ne ha la aspetto né il contegno. Per le dimensioni notevoli, ma anche a causa della sua postura straordinariamente verticale, e l’inizio delle ali, che viste da davanti sembrano braccia incrociate dietro la schiena. Poi c’è la piccola questione del suo sguardo fisso e indemoniato che, incidentalmente, potrebbe anche bucare una parete.
C’è un che di preistorico, in questa creatura, che sembra prescindere le divisioni attuali tra le specie. Tutto, in essa, si configura in qualità di un riferimento diretto agli antichi dinosauri volanti, come lo pterodattilo o il quetzalcoatlus. Il che ha gettato per lungo tempo nello sconforto intere schiere di scienziati, che hanno lungamente faticato nel tentativo di trovargli una posizione precisa nell’albero della vita. Il fatto, da sempre estremamente problematico, è che il Balaeniceps non ha vicini parenti nel catalogo delle specie attualmente in vita. Tranne, secondo alcune teorie, l’umbretta o uccello martello (Scopus umbretta) dell’Africa Subsahariana e del Madagascar, che supera difficilmente il mezzo metro di lunghezza. Ma come dice il naturalista Cottam (1957) non ha molto senso mettere in relazione un uccello dalla genesi incerta ad un altro. L’unico effetto ottenuto da una simile prassi, generalmente, è infittire il mistero. Come se non fosse già abbastanza profondo, parlando di un animale che appare come una commistione di elementi provenienti da specie diverse, alla maniera di un criptide mitologico o il disegno di un artista della fantasy moderna. Le lunghe zampe degli aironi abbinate ad un collo relativamente corto, l’apertura alare paragonabile a quella di un condor (230-260 cm!) e il grosso becco dalla forma estremamente peculiare, che è una caratteristica appartenente soltanto a lui. Paragonata per ovvie ragioni a una scarpa, ma anche talvolta a una balena (altro nome dell’uccello: whalehead) per la forma vagamente idrodinamica, derivante in realtà da esigenze specifiche di tutt’altro tipo. Tale strumento primario per la sopravvivenza, in effetti, è un vero capolavoro dell’evoluzione, con una capienza sufficiente a dragare il fondale dell’acqua preferibilmente stagnante, dove i pesci devono restare più attivi per procurarsi l’ossigeno di superficie, e mortalmente affilato, per decapitare la preda in un semplice assalto letale. Il vistoso rostro posizionato in corrispondenza della parte anteriore dello stesso, infine, assicura che nessuna vittima di questo insolito predatore possa sfuggirgli con facilità. Proprio tale caratteristica, per inciso, lo accomuna da vicino al familiare e ben più diffuso pellicano. Ma le somiglianze con il candido pescatore di buona parte dei mari della Terra, dalla temperata Tasmania alle acque semi-ghiacciate del Canada, non vanno molto più avanti di così. Esso non possiede, in effetti, lo spaventoso cipiglio del Balaeniceps, non ha lo stesso rapporto passivo con gli eventi e le situazioni della vita, che lo portano a sollevarsi in volo soltanto se assolutamente necessario, ed al massimo per qualche centinaio di metri. Questo emblema vivente dei calzolai africani, sotto numerosi punti di vista, percorre l’anacronistica leggenda di se medesimo.

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