Gli eterei e zannuti guardiani dei branchi, che nascono grigi, poi diventano bianchi

“Te l’avevo detto che avremmo dovuto prendere la Toyota bianca!” Il veicolo dal moto ondulatorio, una vecchia Land Rover rossa che sembrava oggettivamente aver visto tempi migliori, arrancava faticosamente lungo il sentiero fangoso, la cosa più prossima a una strada presente all’interno del vasto parco naturale di Etosha, nella parte nord-occidentale della Namibia. La coppia di turisti, terminata la fase tranquilla della visita lungamente pianificata, aveva commesso l’errore di attardarsi nella parte conclusiva del pomeriggio, per assistere al popolare spettacolo delle sagome di giraffe (nessun baobab, ahimé!) che si stagliano contro il sole in prossimità dell’ora del tramonto. Ed ora nelle tenebre incipienti, guidati innanzi dall’unica luce dei fari polverosi, stavano iniziando a preoccuparsi. “Ricordi che ci ha detto la guida? Il parco è aperto soltanto nelle ore diurne. Siamo tecnicamente… Fuorilegge.” Distogliendo momentaneamente la sguardo dalla striscia sottile che tanto dolorosamente stavano percorrendo, lui stava per rispondere alla moglie. Ponderando l’espressione di quest’ultima, pensò all’ultimo momento di tacere, concentrandosi piuttosto sulla guida. Ora dopo una rapida curva a sinistra, il rettilineo si estendeva all’infinto, permettendo di spingere un po’ più a fondo il pedale dell’acceleratore. Dopo l’ennesimo dosso, gli sembrò però di scorgere qualcosa all’orizzonte. “Lo vedi anche tu? Se non fosse impossibile, direi quasi…” La pallida presenza, accogliendo in se la tenue luce lunare, appariva come una sorta di statua catarifrangente. Quattro zampe vaste come colonne ed un corpo massiccio dell’altezza di circa 3 metri e 50. Due bandiere ai margini del suo profilo, che parevano agitarsi nel vento. E soprattutto quella mano senza dita e intenta a protendersi, protendersi in maniera stranamente ipnotica, un fascio di muscoli simile un serpente. Due cose avvennero allo stesso momento. “Fre…Frenaa!” Gridò lei. Mentre il bagliore dei fari, rimbalzando sulla pallida creatura, fece comparire all’improvviso una dozzina di forme simili. Era la morte pallida in vacanza, trasfigurata nella forma di pacifici giganti. Era un gruppo di zannuti egualmente ritardatari, di ritorno presso i luoghi della propria notte onirica del tutto avulsa dalle residenze avìte.
Unico è il colore che in un libro per bambini viene, tanto spesso, utilizzato al fine di evocare le caratteristiche delle creature vagamente familiari. Giallo come la giraffa. Nero come il bufalo. Oh, maculato leopardo! E tutto grigio alla maniera del più tipico… Padrone di proboscide dominante. Se è così, d’altronde, perché in Africa ci sono membri di questa grande famiglia, che appaiono rossicci, arancioni, color ocra o addirittura nei casi più notevoli, bianchi come l’osso delle matriarche nelle fosse dove i membri anziani vanno a salutare i loro insigni predecessori? La risposta è contenuta chiaramente nell’intrinseca natura della terra stessa. Non intesa come pianeta, stavolta, bensì l’accumulo di strati e sedimenti che costoro impiegano, come il più semplice vestito contro il rischio dell’arsura e i parassiti che all’interno di essa, moltiplicano le proprie schiere fino a permeare l’aria dei paesi a ridosso dell’Equatore…

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La pianta che incentiva l’atterraggio delle mosche imitando l’odore di formiche ferite dai ragni

L’ingresso nel pacifico scenario dell’orto botanico di 40 acri Koishikawa, costruito nel quartiere Bunkyō di Tokyo all’epoca dello shogunato Tokugawa, è un’esperienza che può trasportare il visitatore verso un tempo e contesto culturale distante. In mezzo alla natura pre-configurata sulla base delle necessità e sensibilità umane, dove ogni pianta ha una ragione ed il susseguirsi degli eventi stagionali appare in subordine al mantenimento di uno status quo immutato lungo il corso delle alterne generazioni. Ciò che Ko Mochizuki, biologo dell’Università cittadina, ebbe modo di notare durante i propri sopralluoghi con ragioni di studio, era una concentrazione anomala d’insetti, che per una ragione o per l’altra era lungamente sfuggita ad un commento scientifico da parte dei suoi colleghi. Mosche impollinatrici della famiglia Chloropidae, per essere precisi, vivaci volatrici che al di là di qualsivoglia ragionevolezza in termini di anonimato dallo sguardo dei predatori, sembravano massimamente inclini a concentrarsi sopra i fiori verdi a cinque petali di una pianta e soltanto quella: il tachigashiwa (タチガシワ) alias Vincetoxicum nakaianum, anche detto apocino giapponese o dogbane, per la sua presunta capacità di avvelenare con serie conseguenze la stirpe quadrupede dei cani. Causa la produzione pressoché continuativa di una resina biancastra, lievemente maleodorante, affine a quella immediatamente letale del suo parente prossimo sorprendentemente comune nei parchi cittadini europei, l’oleandro (Nerium oleander). Con potenziali conseguenze assai meno pericolose in questa attraente versione locale, ma l’apparente capacità di massimizzare le proprie chance riproduttive mediante l’utilizzo di un meccanismo particolarmente raro in campo botanico: la recentemente scoperta tecnica della cleptomiofilia. Il cui funzionamento risulta essere, allo stesso tempo, semplice e decisamente affascinante. Potreste a tal proposito già conoscere la maniera in cui l’insetto sociale per eccellenza, l’onnipresente formica, sia solita comunicare con i propri simili mediante l’utilizzo dei feromoni. Codici olfattivi utili in qualsiasi circostanza, poiché consentono il riconoscimento, la dichiarazione delle proprie mansioni ed in determinate circostanze, l’invio di un’ultima, disperata richiesta di aiuto. Così come talvolta capitava, successivamente all’incontro sventurato con aracnidi famelici, persino nella falsa quiete del Koishikawa Shokubutsuen…

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L’ultimo abbaio del warrah, canide perduto dell’Atlantico meridionale

È una storia vecchia come il tempo: animale carnivoro raggiunge, per un caso fortuito o l’intervento inappropriato dell’uomo, i territori straordinariamente biodiversi di un’isola lontana dalle coste dei continenti. Qui, adattandosi perfettamente al clima locale, diventa un agguerrito predatore della fauna drammaticamente impreparata, che l’evoluzione pregressa ha lasciato priva di alcun tipo di difesa contro i denti e forti muscoli che ad un tratto inseguono le loro placide giornate. Finché in una manciata di generazioni, esso stesso si trasforma nella creatura dominante, continuando a mietere le proprie vittime ad un ritmo sempre più serrato. Dopo qualche secolo, l’unica forma di vita rimasta è il vorace malfattore, che non può effettivamente trarre nutrimento dagli altri membri della sua stessa specie. Così la sua popolazione torna a diminuire, finché ad un certo punto, scompare anch’egli nelle fitte nebbie della storia biologica del pianeta Terra. Eccetto che in determinati luoghi, la cosa può svolgersi in maniera differente. Perfetti posatoi per i volatili ed onnipresenti insetti come il remoto arcipelago delle Falklands, 500 Km ad est della punta estrema dell’America Meridionale, situate come un sopralluogo di origine vulcanica sul bordo esterno della placca continentale della Patagonia. Dove l’assenza di una popolazione di quadrupedi naturalmente residenti non precluse in alcun modo l’approvvigionamento ed alimentazione di quest’abitante monotipico, il canide a metà tra volpe e lupo che i primi coloni europei di simili terre lungamente disabitate scelsero di definire Warrah. Forse per assonanza con l’appellativo utilizzato dagli indigeni Yamana della vicina terraferma, magari per assonanza con la parola in lingua inglese worry, che significa “preoccupazione”. Oppure, cosa ancor maggiormente probabile, con l’intento d’assonanza al ritmico rimbombo di un abbaio lontano, formato comunicativo spesso utilizzato da queste creature socievoli e non certo prive di un livello di scaltrezza, utile a procacciarsi il pane quotidiano nell’intero ciclo alquanto mutevole delle stagioni locali. Ma non, purtroppo, quella necessaria ed opportuna paura dell’uomo che avrebbe potuto allontanare di qualche decade la loro intercorsa estinzione attorno al 1876, soltanto 43 anni dopo che lo stesso Charles Darwin era passato in questi luoghi a visitarli nel corso del celebre viaggio della Beagle, notando l’eccessiva mansuetudine che permetteva ai cacciatori di ucciderne un esemplare con un semplice pezzo di carne nella mano sinistra, mentre la destra già manteneva in bella vista un lungo ed affilato coltello. Pratica diffusa non soltanto per poterne trarre le pelli rossicce di apprezzabile livello di pregio, ma anche rimuovere dal pool genetico quegli esemplari che si erano macchiati, nell’opinione degli abitanti, del crimine più efferato per un animale: aver cacciato ed ucciso, senza remore, il bestiame facente parte delle molte dotazioni consortili dell’odierna civiltà pulsante. Riunita sotto la bandiera con lo slogan valido al di là di qualsivoglia confine: “Prima gli umani” al di là di ogni ragionevolezza, senza considerazioni per il meccanismo autoriparante di eventuali e intonse biosfere. “Gli umani solamente” e nulla più…

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Ancor si muove fuori dagli abissi l’orrido groviglio che fiorisce tra i coralli notturni

Era l’apice di una giornata di pesca come tutte le altre, quando tirando a bordo la rete a strascico di questa nostra imbarcazione, ci rendemmo all’improvviso conto di aver tratto a bordo un araldo di Yog Sothoth, Mietitore degli Abissi. Ammasso di tentacoli vibranti, la bocca spalancata al centro per costituire l’apertura verso un altro piano dell’esistenza. L’occulto e onnipresente luogo dove le realtà si sovrappongono, mettendo a dura prova la limitata cognizione di causa posseduta da noialtri esseri capaci di percepire o concepire appena una manciata di dimensioni. La triplice precisa contingenza, per essere precisi, dove la Creatura getta la sua ombra, pur riuscendo a mantenere l’evidente ed impossibile complessità del proprio corpo dalla plurima coscienza, equamente distribuita. Perciò una stretta di mano, lupo di mare, che foraggi fonti di sostentamento dal profondo, inquieta anima incapace di capire dove ha fine l’essere vivente, e inizia l’aura di mistero che ogni tipica sinapsi accende. come il bulbo di una lampadina che galleggia nel trasparente plasma dei primordi sussistenti. Là dove la tenue catena delle circostanze si assottiglia, perdendo il modo di congiungere la Terra e il Mare. E ciò che avremmo voglia di scrutare guarda facilmente, molto prima di quanto potremmo, il nucleo della nostra persistente anima ormai prossima allo smarrimento.
Echinodermata, ovviamente. Che altro? Il phylum di creature caratterizzate dal superamento della simmetria bilaterale una volta che si trovano a raggiungere l’età riproduttiva, puntando a quella del pentametro radiale benché pure questo sia più che altro il mero approccio di un flessibile riferimento della procedura. Fino al caso estremo di presenze come questa, che paiono sfidare il tipico concetto di cos’è una pianta per i nostri occhi. E cosa, invece, un animale. Laddove pur non integrandosi nel vasto insieme di creature cosiddetti sessili, che amano ancorarsi a quel fondale distante, “stelle” come queste trovano preferibilmente un pratico pertugio da cui emergere cacciando con la captazione. Soltanto e preferibilmente nelle ore tra il tramonto e l’alba, all’esaurirsi delle quali tornano a serrarsi come un pugno, comprimendo i propri arti nello spazio appena sufficiente per nasconderle e proteggerle da sguardi indiscreti. Una mansione che talvolta può essere difficile per queste varietà giganti, come le esponenti di generi come Astrophyton, cui parrebbe appartenere il notevole per quanto breve segmento videografico sopra mostrato, che parrebbe aver colpito comprensibilmente la fantasia di un’ampia percentuale di spettatori online…

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