L’ultimo abbaio del warrah, canide perduto dell’Atlantico meridionale

È una storia vecchia come il tempo: animale carnivoro raggiunge, per un caso fortuito o l’intervento inappropriato dell’uomo, i territori straordinariamente biodiversi di un’isola lontana dalle coste dei continenti. Qui, adattandosi perfettamente al clima locale, diventa un agguerrito predatore della fauna drammaticamente impreparata, che l’evoluzione pregressa ha lasciato priva di alcun tipo di difesa contro i denti e forti muscoli che ad un tratto inseguono le loro placide giornate. Finché in una manciata di generazioni, esso stesso si trasforma nella creatura dominante, continuando a mietere le proprie vittime ad un ritmo sempre più serrato. Dopo qualche secolo, l’unica forma di vita rimasta è il vorace malfattore, che non può effettivamente trarre nutrimento dagli altri membri della sua stessa specie. Così la sua popolazione torna a diminuire, finché ad un certo punto, scompare anch’egli nelle fitte nebbie della storia biologica del pianeta Terra. Eccetto che in determinati luoghi, la cosa può svolgersi in maniera differente. Perfetti posatoi per i volatili ed onnipresenti insetti come il remoto arcipelago delle Falklands, 500 Km ad est della punta estrema dell’America Meridionale, situate come un sopralluogo di origine vulcanica sul bordo esterno della placca continentale della Patagonia. Dove l’assenza di una popolazione di quadrupedi naturalmente residenti non precluse in alcun modo l’approvvigionamento ed alimentazione di quest’abitante monotipico, il canide a metà tra volpe e lupo che i primi coloni europei di simili terre lungamente disabitate scelsero di definire Warrah. Forse per assonanza con l’appellativo utilizzato dagli indigeni Yamana della vicina terraferma, magari per assonanza con la parola in lingua inglese worry, che significa “preoccupazione”. Oppure, cosa ancor maggiormente probabile, con l’intento d’assonanza al ritmico rimbombo di un abbaio lontano, formato comunicativo spesso utilizzato da queste creature socievoli e non certo prive di un livello di scaltrezza, utile a procacciarsi il pane quotidiano nell’intero ciclo alquanto mutevole delle stagioni locali. Ma non, purtroppo, quella necessaria ed opportuna paura dell’uomo che avrebbe potuto allontanare di qualche decade la loro intercorsa estinzione attorno al 1876, soltanto 43 anni dopo che lo stesso Charles Darwin era passato in questi luoghi a visitarli nel corso del celebre viaggio della Beagle, notando l’eccessiva mansuetudine che permetteva ai cacciatori di ucciderne un esemplare con un semplice pezzo di carne nella mano sinistra, mentre la destra già manteneva in bella vista un lungo ed affilato coltello. Pratica diffusa non soltanto per poterne trarre le pelli rossicce di apprezzabile livello di pregio, ma anche rimuovere dal pool genetico quegli esemplari che si erano macchiati, nell’opinione degli abitanti, del crimine più efferato per un animale: aver cacciato ed ucciso, senza remore, il bestiame facente parte delle molte dotazioni consortili dell’odierna civiltà pulsante. Riunita sotto la bandiera con lo slogan valido al di là di qualsivoglia confine: “Prima gli umani” al di là di ogni ragionevolezza, senza considerazioni per il meccanismo autoriparante di eventuali e intonse biosfere. “Gli umani solamente” e nulla più…

Per la prima volta descritti nei diari di bordo del capitano britannico John Strong, “scopritore” a beneficio delle genti europee dell’estensivo territorio oltremare delle Falklands nel 1690, queste volpi lupine suscitarono dunque fin da subito l’interesse degli scienziati al seguito della spedizione. Il che avrebbe indotto il famoso esploratore a farne catturare un esemplare vivo, da riportare a Londra a bordo della sua nave ammiraglia se non che nel corso delle esercitazioni d’artiglieria di rito in mezzo ai flutti dell’oceano, il suono dei cannoni avrebbe spaventato il malcapitato canide che riuscì purtroppo a gettarsi in mare. La prima classificazione scientifica degna di nota avvenne invece nel 1792 a distanza grazie all’opera del naturalista scozzese Robert Kerr, che scelse per definirli il termine binomiale Dusicyon Australis, dal greco Δύς – difficile, strano + κύων – cane. Ma ci sarebbero voluti oltre due secoli affinché, rinnovato l’interesse nei confronti delle anomalie in questione grazie all’opera tra gli altri dello stesso Darwin che aveva profetizzato per loro un destino simile a quello del dodo, ulteriori due membri della specie venissero messi a bordo di altrettante navi nel 1868 e ’70, con lo scopo tardivo di trapiantarne una popolazione negli zoo di Londra, prima che l’orologio delle vigenti estinzioni dell’Olocene ne scandisse l’irrimediabile dipartita finale. Missione destinata, anch’essa, a fallire, vista la rapidità con cui le volpi trapiantate si ammalarono finendo per passare a miglior vita tra l’impotenza dei loro guardiani. Molti tra coloro che si erano interessati alla questione sapevano d’altronde della riduzione progressiva del territorio selvaggio sulle isole, con conseguente riduzione delle macchie di bassa vegetazione dove i warrah erano soliti cercare rifugio. Lo stesso ammiraglio John Byron, che aveva preso possesso per Sua Maestà delle Falklands a partire dal 1765, fu fautore e più volte praticante della tecnica consistente nell’impiego d’incendi (più o meno) controllati, per stanare e uccidere sistematicamente quello che veniva percepito come un elemento di disturbo all’installazione d’insediamenti umani. Con l’arrivo dei greggi di pecore dal continente al volgere del secolo, quindi, la situazione non aveva fatto altro che peggiorare, causa l’idea completamente erronea secondo cui il carnivoro locale potesse nutrirsene, laddove la realtà dei fatti era probabilmente che la loro presenza spaventasse occasionalmente il gregge, portando alcuni capi ad allontanarsi e perdersi tra le paludi locali. Non che ciò cambiasse molto il risultato, sia per le pecore che i loro persecutori, già lungamente condannati nella mente delle persone.

Molti anni dopo che il warrah si era ormai estinto, lasciando soltanto qualche dozzina di pelli montate e limitati resti scheletrici nei musei del mondo, l’ambiente accademico iniziò dunque a porsi la domanda fondamentale. Come aveva fatto, esattamente, il canide solitario a raggiungere alcune delle isole più remote della Terra? Una possibile risposta sarebbe giunta nel 2021, grazie allo studio lungamente discusso di Kit Hamley et al, Evidence of prehistoric human activity in the Falkland Islands, in cui l’analisi statistica della quantità di carbone rinvenuto nel sostrato archeologico dell’arcipelago avrebbe permesso di teorizzare un insediamento degli Yamana antecedente all’arrivo degli europei, con la conseguenza di aver portato i misteriosi canidi come animali domestici a bordo delle proprie imbarcazioni. Il che comunque non spiega l’assenza di un antenato comune individuabile per tali creature prima di 6 milioni di anni a questa parte, con il più prossimo parente geneticamente esistente ormai individuabile soltanto nel crisocione (C. brachyurus) iconico canide cerdocionino dalle zampe lunghe oggi diffuso nell’entroterra dell’America Meridionale.
Lasciando una sola semplice, in realtà quasi poetica alternativa. Che il warrah primordiale si fosse trovato ad attraversare, non senza difficoltà, un lungo ponte glaciale temporaneamente esistito tra la Patagonia e le Falklands nel corso dell’ultima Era Glaciale. Continuando a perseguire, senza esitazioni, una delle sue prede predilette, il pinguino. Dimostrando una tenacia tale da poter fare l’invidia di qualsiasi segugio prodotto in seguito alla selezione artificiale frutto del progetto umano. In base alla legge deduttiva del rasoio di Occam, tanto utile nel prevedere le mosse di qualsiasi entità ridotta in termini comprensibili dalla mente umana. Persino, entro specifici confini, la Natura.

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