La manovra del cobra di Pugachev, astuto approccio al combattimento aereo

Nella tipica rappresentazione scenografica di un duello tra cavalieri medievali, due sono gli esiti convenzionalmente attesi dagli spettatori: nel primo uno dei contendenti, chiaramente forte e meritorio, soverchia l’avversario fin da subito, dimostrando la sua netta superiorità e la termine di un confronto privo di sorprese o importanza di trama, confermarsi l’evidente vincitore. Mentre nel secondo caso, generalmente preferibile nelle scene culmine di un dramma, il protagonista sembra subire fino all’ultimo momento. Viene aggirato, fatto arretrare, rischia varie volte di venire assassinato. Finché in un clamoroso capovolgimento, sfruttando l’eccessiva sicurezza del proprio avversario, non gli riesce a portare a segno un singolo colpo. Il solo, perfetto attacco, simile a quello di un serpente che ghermisce la sua preda. Ed altrettanto risolutivo, nonché letale.
Panoplia, cavallo, lancia, mazza o spada. Una serie di strumenti che bastavano, in quell’epoca remota, a trasformare un uomo nella più perfetta macchina da guerra. Non c’è perciò davvero molto da sorprendersi, se nello svolgimento dei conflitti moderni, l’equivalenza di una tale duplice visione si ritrovi in qualche modo nel combattimento aereo. L’interscambio, molto spesso romanzato, di precisi movimenti tra le nubi, culminanti nel rilascio di un preciso carico di munizioni, nella speranza o ragionevole certezza di riuscire a perforare l’abitacolo nemico. Al punto che, in effetti, la contrapposta casistica sin qui desiderata rientri a pieno titolo nella dottrina bellica di due paesi, gli originari avversari di un gelido conflitto che per la fortuna di noi tutti, non ebbe mai ragione concretizzarsi: sto parlando, chiaramente, della Russia e degli Stati Uniti. Laddove quest’ultima nazione, nella propria etica progettuale del secondo secolo del volo, ha sempre considerato un caccia come un velivolo la cui sopravvivenza in combattimento è garantita da un singolo valore: l’energia motrice, intesa come velocità che permette d’intercettare, eludere e distruggere il bersaglio. Mentre i tecnici del principale paese dell’ex Blocco Orientale, dal canto loro, da tempo fondano le loro creazioni ingegneristiche sopra tutt’altra cognizione: la consapevolezza che qualsiasi velivolo da guerra, non importa quanto avanzato, potente o invisibile ai radar, dovrà prima o poi trovarsi impegnato nel combattimento ravvicinato. Situazione nella quale, per tornare alla nostra analogia iniziale, talvolta può contare più l’attacco portato contro la visiera del rivale con un corto pugnale misericorde, che i colpi vibrati dalla distanza mediante l’impiego del possente spadone o alabarda della situazione. Il che, tradotto in termini aeronautici, potrebbe anche ricondursi alla specifica, leggendaria manovra, col nome prototipo del suo presunto iniziatore, Viktor Pugachev, il pilota sperimentale russo che per primo, seppe dimostrarne l’efficienza nel corso di un famoso airshow del 1989 sopra i cieli di Parigi. Quando, lasciando a bocca aperta il pubblico, all’improvviso mandò in stallo il suo fido Sukhoi Su-27, puntando il muso in alto con un angolo d’attacco tra i 90 e 120 gradi. Senza guadagnare ne perdere quota, bensì riducendo la propria velocità praticamente allo zero. Rimanendo quindi per alcuni straordinari, magici secondi, sospeso in aria e in apparente equilibrio sull’estremità posteriore della sua coda. Prima di riassumere con estrema semplicità l’assetto originario, pronto a far fuoco, sin da subito, contro l’immaginario avversario che tentava di posizionarsi dietro di lui. Il giorno dopo i giornali di settore pubblicarono numerosi articoli su tale impresa, tutti orientati a chiedere quale potesse essere, sostanzialmente “[…] L’utilità di una così pericolosa e incauta manovra, nel contesto contemporaneo del combattimento aereo moderno” Ponendo in evidenza i fattori negativi, piuttosto che quelli positivi, sopratutto per una specifica ragione: non esisteva all’epoca un singolo aereo, né pilota, nell’intero mondo Occidentale, che potesse portare a termine alcunché di simile nei cieli di questa Terra.

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La iena bruna, latrante nemesi dei cuccioli di foca

Oh, Grande Spirito di tutte le belve, concedimi l’abilità di abbattere il possente erbivoro. La scaltrezza di aggirarlo e tendergli una trappola. La resistenza per corrergli dietro attraverso le ondeggianti distese della savana. OPPURE, molto semplicemente, la faccia tosta e forza bruta necessaria al fine d’intromettersi tra cacciatori molto più efficienti e il loro lauto pasto, perché il furto si trasformi in un pilastro stesso della mia esistenza. Anche a discapito dell’opinione che il mondo potrà riservare alla mia prole: iena, mangiatrice di carcasse o essere rissoso che destabilizza i già difficili rapporti tra felini e cani. E se vi dicessi che nel più profondo meridione, ne persiste ad oggi una particolare specie che risulta essere, in effetti, persino peggiore? Questa è la tetra leggenda dello strandwolf, fuori dal Sudafrica chiamato “lupo della costa” o in termini latini H. brunnea, unico rappresentante, come le altre tre specie appartenenti alla sua stessa famiglia, di un genere tassonomico soltanto suo: Parahyena. E per questo praticante di un sistema di sopravvivenza estremamente distintivo, in funzione del difficile habitat occupato, sin da tempo immemore, dalla sua famelica genìa: niente meno che la rinomata Costa degli Scheletri, sul lato atlantico della Namibia settentrionale, luogo in cui il principale punto di riferimento risultavano essere un tempo i rimasugli dei cetacei catturati e poi scarnificati dagli umani cacciatori di balene. E in cui ben poca vita sulla terraferma riesce a prosperare, fatta eccezione per minuscoli mammiferi o speciali insetti il cui metabolismo si è adattato, nei secoli e millenni, a una carenza d’acqua e umidità capace di durare multiple stagioni. E da cosa potrebbe mai trarre nutrimento, dunque, un predatore con la folta criniera marrone e dal peso di fino a 60-70 Kg e 144 cm di lunghezza, bastanti a renderlo la seconda iena per dimensioni dopo la Crocuta crocuta dal manto a macchie e l’iconica risata sghignazzante? Ovvio: creature che provengono da un altro mondo. Nonché esseri, in un certo senso, simili a lei: le otarie orsine del Capo (Arctocephalus pusillus) che in funzione della propria ecologia, sono propense a radunarsi in gigantesche colonie di fino a 1.500 esemplari, essendo programmate per fare ritorno, svariate volte l’anno, presso il luogo stesso della propria nascita, per procreare. Segue dunque un difficoltoso e vulnerabile periodo, durante il quale fin troppo spesso, una sensibile percentuale di cuccioli muore inevitabilmente di stenti, per il clima inclemente e la continuativa carenza di cibo: un letterale banchetto potenziale, per divoratori opportunisti che dovessero “accidentalmente” transitare di lì. Ma le iene, si sa, non eccellono certo per la loro pazienza, ragion pere cui può capitare, spesse volte, che un rappresentante di quel popolo decida di aver atteso abbastanza. Intervenendo, per così dire, al fine di accelerare la pinnipede dipartita delle giovani speranze di quel mondo, ahimé, soltanto in parte marino. Segue, a questo punto, scena prelevata in modo pressoché diretto dal più orribile e terrificante splatter movie

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L’artiglio del gatto che ha distrutto un’intera colonia di uccelli rari

Una grande verità della guerra è che il fattore psicologico, molto spesso, può ampiamente superare l’effetto puramente materialistico delle armi. E che un singolo agente, schierato in circostanze particolarmente opportune, possa arrecare danni pari o superiori a quelle di un’intera squadra, compagnia, battaglione… Soprattutto qualora il “nemico”, se realmente vogliamo definirlo tale, risulti essere del tutto impreparato agli eventi, ovvero vulnerabile a strategie capaci di disgregarne la coesione e conseguentemente il morale, inficiando qualsiasi possibile strategia reattiva… “Eccolo, eccolo, sta arrivando di nuovo!” Fece riecheggiare verso le prime ore dell’alba dell’Australia Occidentale la voce di Claire Greenwell, naturalista e biologa dell’Università di Murdoch, reclutata temporaneamente tra i ranghi della ronda notturna di Mandurah, cittadina con un particolare problema dotato di quattro zampe, vibrisse e una saettante coda. “Il… Fantasma.” Bianco come la neve, spietato come la Triste Mietitrice. Una leggenda, soprattutto tra le incolpevoli vittime della sua insaziabile fame, le delicate e preziose sterne delle fate (Sternula nereis) del locale santuario, orgoglio imprescindibile dell’intera comunità locale proprio perché classificate come “vulnerabili” nella lista rossa della IUCN. Al punto da vietare severamente di far uscire i gatti domestici per tutti i mesi da ottobre a febbraio, periodo primaverile ed estivo da queste parti durante il quale tali creature erano solite terminare la propria migrazione per nidificare e deporre le uova contenenti la successiva generazione. E sottolineo “erano” visto che adesso, per quanto sappiamo, potrebbero anche non tornare mai più.
Una norma comportamentale, questa, prevedibilmente non sempre rispettata; il che in effetti era previsto ed in ultima analisi, privo di gravi conseguenze. Poiché non c’è molto danno che un singolo felino abituato agli agi casalinghi possa arrecare, quando un’intera squadra di ranger e volontari è stata riservata per rispondere alle sue scorribande, prenderlo in trappola e previa analisi dell’obbligatorio microchip, restituirlo con meritata ramanzina al distratto proprietario. Ma per quanto riguarda un vero e proprio gatto ferale, ovvero ritornato allo stato selvatico, ecco, lasciatemi dire che le cose possono assumere tinte decisamente più fosche. Come cominciarono a notare i suddetti operativi man mano che ritrovavano, una notte dopo l’altra del passato periodo pre e post-natalizio, svariati esemplari adulti decapitati o fatti a pezzi (ne sono stati stimati 8) per non parlare delle letterali dozzine dei graziosissimi pulcini recentemente usciti dalle loro uova (oltre 40 innocenti). Fu ben presto chiaro, dunque, che un letterale Diavolo era all’opera, e che niente, tranne una ferma disciplina e l’implementazione di tutte le più avanzate tecniche, avrebbe potuto esorcizzare il suo effetto sulla più amata riserva di uccelli della ridente cittadina di Mandurah.

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La grande guerra per le uova più apprezzate del Pacifico californiano

“Approderemo lo stesso: venisse anche giù l’inferno!” In piedi sull’imbarcazione da diporto, un braccio lungo il fianco e l’altro alzato ad indicare la sua meta, oltre le dozzine di metri di secche, rocce frastagliate ed altri ostacoli alla navigazione, che tanti anni prima erano valsi a questo luogo il nome di Isole della Morte per le religione dei Nativi ed in seguito, ad opera dei colleghi spagnoli dell’esploratore e celebre corsaro Sir Francis Drake che le aveva scoperte nel 1579, semplicemente Farallones, ovvero “scogli”. Uomo in grado di sfidare il pericolo e la convenzione, esattamente come il tale di nome David Batchelder, ricordato dalla storia in qualità di coraggioso capo di una squadra di pescatori dalle origini italiane, che partendo dalla città di San Francisco, decise di dirigere la propria cupidigia verso l’Oro. Ma non quello seppellito sotto strati di geologica immanenza, come i cercatori che due secoli dopo lo sbarco degli europei su quelle coste, ne avevano fatto il luogo principale dei loro sogni di prospezione e ricchezza mineraria. Bensì quel particolare tipo di regalìa del popolo dei cieli, diventata attorno a quel fatidico 3 giugno 1863 un bene commerciale irrinunciabile, in qualità di principale fonte di proteine prontamente disponibile, che fosse ragionevolmente resistente al tempo, alle intemperie e al moto distruttivo delle onde (fattore, questo, assai importante durante il trasporto) trasformandosi per questo in una via d’accesso meritevole al guadagno. Ed io lo immagino alto, orgoglioso, magari con la stessa lunga barba nera del corsaro, mentre lancia la sua sfida agli uomini della guardianìa del faro, che a partire da una decade, oramai, facevano il bello e il cattivo tempo sulle “loro” isole, in forza di un mandato concesso, a torto o a ragione, dal XV presidente degli Stati Uniti in persona, James Buchanan. “A vostro rischio e pericolo signori, a vostro rischio e pericolo.” Risposero le rabbiose controparti dalla riva, accarezzando la canna dei loro fucili. Ma era chiaro essenzialmente ad entrambe le parti, giunti ormai a quel punto, dopo innumerevoli scaramucce verbali e intercettazioni da parte della guardia costiera, con conseguente confisca delle armi, attraverso un ripetersi di tentativi che avevano occupato i molti mesi trascorsi, che si era ormai giunti al punto di non ritorno. E il fatto che stavolta, per una ragione o per l’altra, la spiaggia avrebbe finito per tingersi di un color rosso intenso.
L’oggetto del desiderio di cui sopra, del resto, pareva certamente meritarlo. Così come aveva scoperto nell’ormai remoto 1849 un altro immigrato della principale city sulla faglia di Sant’Andrea, dal nome tramandato di Dr Robinson, la cui flessibilità e immaginazione imprenditoriale aveva permesso, dopo aver noleggiato un’imbarcazione, di recarsi per primo dopo tanti secoli su queste coste. In cerca di quella fortuna finanziaria che gli avrebbe permesso, in pochi mesi, di fondare una delle maggiori farmacie di San Francisco. E tutto grazie ad un oggetto rotolante, il singolare uovo dell’uccello guillemot…

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