Nel Mondo Antico i conflitti tra nazioni opposte potevano talvolta rappresentare, per agenti terzi, un significativo punto di svolta nei processi basilari della civilizzazione umana. Come nel caso celebre delle tribù nomadi dei popoli nordafricani che i latini chiamavano Massylii e Masaesyli, situati grossomodo nell’odierna Algeria, allo scoppio del conflitto più importante che il Mediterraneo aveva conosciuto: la seconda guerra punica (218-201 a.C.) Quando un re particolarmente potente, nonché saggio e illuminato, prese un gruppo di guerrieri scoordinati e ne fece una forza di cavalleria priva di paragoni; riformò l’agricoltura per produrre cibo dove prima esisteva soltanto il deserto; ma soprattutto, stabilì l’esistenza di un’identità comune ed al di sotto di tale bandiera, trasformò le genti nomadiche in un vasto regno stanziale. Così nacque il regno della Numidia, secondo alcuni nel preciso momento in cui il sovrano recentemente riconosciuto Masinissa (o Massena) scelse di cambiare la propria alleanza politica dall’ancestrale avversario Cartagine, alla forza che evidentemente stava per sconfiggerla, l’ondata inarrestabile dell’Urbe settentrionale. Fu dunque la costituzione in essere di un contesto culturale significativamente diverso, situato ai margini dei grandi imperi, che per lungo tempo aveva commerciato e tratto ispirazione dalla cultura sincretistica dell’Ellenismo. Il che lascia sorgere spontanea la domanda del perché, esattamente, molto poco sia rimasto come lascito degli oltre due secoli, in cui i discendenti di una tale tradizione avrebbero continuato a regnare come stato cliente, eppure mai del tutto annesso dall’Impero Romano. Che avrebbe conquistato, a seguito di ulteriori conflitti fino alla caduta di Cartagine, anche parti della Libia e della Tunisia. Edificando importanti centri d’interscambio culturale e luoghi fortificati per difendere i propri confini. La risposta è rintracciabile nel modo in cui l’architettura dei primi tempi moderni avrebbe trattato i tre principali monumenti ancora integri di tale situazione remota, tradizionalmente accorpati sotto la definizione di “architettura reale numida”. Un punto di partenza, isolato nel vasto vuoto delle nostre conoscenze, dell’ideale fascino locale verso gruppi umani antecedenti quali Egizi e Greci, come se nulla d’originale potesse sorgere da tali territori aridi ed ormai sostanzialmente dimenticati. Osservate, come primo riferimento, la tomba risalente al terzo secolo chiamata mausoleo di Medracen o Medghassen situata nei pressi della città di Batna, all’ombra dell’Aurasius Mons. Sostanzialmente una piramide di pesanti mattoni tufacei, sostenuta da una base circolare con colonne sormontate da capitelli dorici, ove s’ipotizza che il membro omonimo dell’elite regnante, antecedente a Masinissa, fu deposto nell’ora del suo eterno riposo. Un luogo presso il quale, riscoperto agli albori dell’archeologia moderna, fu fatto oggetto di una gara nel classificarlo come mera gestalt o deriva d’influenze di seconda o terza mano…
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L’eredità silente dei Nabatei, una seconda necropoli di pietra nel deserto saudita
L’aggregazione delle civiltà nel Mondo Antico è sempre stata un catalizzatore per la costruzione di opere capaci di resistere al passaggio dei millenni. In parte come tappe di un costante viaggio tecnologico e creativo, nonché come strumento utile alla congiunzione delle spirito e la mente, il raggiungimento di uno stato collettivo incline alla risoluzione dei grandi problemi dell’esistenza. D’altra parte “ciò che unisce”, popoli distanti nello spazio e nel tempo come gli Egiziani, i Cinesi, i Greci, i Romani, gli Aztechi… Forse non è altro che una condizione concettuale nota in campo psicologico come il pregiudizio di conferma: essi passarono alla Storia come grandi architetti, poiché tutto il resto è stato nel frattempo trasportato via, dall’incessante vento delle epoche intercorse. Un’affermazione in alcun caso vera, quanto quello di uno dei regni classici del deserto d’Arabia, nato attorno al III secolo a.C. da un gruppo di tribù beduine provenienti dallo Yemen, capaci di sopravvivere sotto il sole ardente, là dove nessun altro era capace d’individuare l’acqua. Da cui il termine in lingua akkada di nabatu, “brillare intensamente”, e il conseguente etnonimo di Nabatei, connesso a un regno con la capitale nell’odierno stato di Giordania. E non c’è forse maggior creatore di beni tangibili, di colui o coloro che conobbero la vita nomadica, prima di scegliere il sentiero esistenziale che risiede nella costruzione di grandi città. Particolarmente quando progressivamente quando in grado di arricchirsi, grazie al posizionamento strategico lungo un’importante linea di collegamento commerciale, la Via dell’Incenso che partiva dall’estremità della penisola dai molti beni predisposti all’esportazione. Luoghi come Petra, patrimonio dell’UNESCO fin dal 1985, celebre per le facciate delle tombe situate nelle rocce d’arenaria finemente scolpite dai generazioni d’artigiani sacri. Ma così come qualsiasi impero non può essere riassunto da un singolo luogo, circa 500 Km più a sud gli stessi Nabatei costruirono un sito paragonabile per antichità ed importanza, che oggi molti tendono purtroppo a dimenticare. Forse per la difficoltà di ottenere un visto turistico con la qualifica di visitarlo, essendo questo situato entro i confini dell’Arabia Saudita, dove in base ad un particolare brano del Corano viene giudicato maledetto e soltanto in epoca recente, branche del governo maggiormente progressiste stanno cominciando a favorirne l’approfondimento archeologico mediante l’impiego di mezzi contemporanei. Sto parlando di Hegra, da cui ogni traccia d’insediamenti precedenti è stata ormai da tempo immemore spazzata via. Tranne le incombenti presenze di maestose tombe, paragonabili per la loro magnificenza ai più imponenti beni artistici e culturali dell’umanità di un tempo. In verità abbastanza remote, da possedere quel fascino isolato che si attribuisce in modo stereotipico ai dintorni di massicci centri urbani, come le piramidi nella piana di Giza, che gettano la propria ombra su palazzi costruiti con cemento e vetro…
Volto da troll, occhi da granchio: la civiltà fluviale delle statue di bronzo del Sichuan
Assoluta unità d’intenti, parametri culturali e caratteristiche inerenti: questa è l’immagine fondamentale della Cina arcaica, per come viene tradizionalmente integrata nel sistema cronologico delle dinastie successive. Ma mentre nella valle del Fiume Giallo regnavano le prime dinastie di Xia, Shang e Zhou, a migliaia di chilometri nell’entroterra di uno dei paesi più grandi del mondo, l’iconografia del sovrano sembrava possedere tratti somatici del tutto distintivi e profondamente diversi. Una testa squadrata con larghe orecchie a punta. Il naso camuso con le froge spiraleggianti. Ed un singolare paio di peduncoli oculari dalla forma sporgente. Accantonando dunque le tipiche elucubrazioni sugli antichi alieni, chi era esattamente il personaggio che figura nei soggetti delle statue bronzee della cultura di Sanxingdui o del “Tumulo delle Tre Stelle”? Ritrovato, assieme ad innumerevoli altre figure umane dalla forma flessuosa e sottilmente inumana, in pose che vanno da atteggiamenti rilassati a imperiosi gesti di dominio, per non parlare delle innumerevoli chimere fantastiche, giade votive e maschere mostruose facenti parte di quel sito archeologico, inizialmente scoperto nel 1927 ed in seguito connesso alla collocazione della capitale di una nazione precedentemente ignota, con mura poligonali della lunghezza di oltre 2.000 metri per lato. Principalmente per l’assoluta quanto inspiegabile assenza di frammenti scritti, diversamente da quei regni dinastici settentrionali, di cui sappiamo molto grazie ai loro annali, le ossa oracolari di tartaruga, le iscrizioni funebri sui monumenti sepolti. Benché almeno un appiglio storico possa essere desunto, per inferenza, dalla corrispondenza geografica all’area del regno semi-mitico di Shu, che sappiamo aver costituito un partner commerciale per i primi Imperatori, con il proprio centro economico ed amministrativo in corrispondenza delle pianure dell’odierna Chengdu. A partire dal passaggio tra il terzo e secondo millennio a.C, grosso modo, sebbene molti dei manufatti più caratteristici ritrovati a Sanxingdui risalgano alla tarda Età del Bronzo (decimo/undicesimo secolo) ovvero la quarta fase nella lunga storia d’utilizzo di quest’area, quando i suoi abitanti disponevano di risorse e conoscenze relative alla lavorazione metallurgica prossime allo stato dell’arte. Oltre ad una predisposizione creativa notevolmente sviluppata, se si osserva la quantità di dettagli presenti nei pezzi più grandi, che includono la prima statua in bronzo della storia di una figura a grandezza naturale, di un sacerdote, con gli stessi occhi bulbosi e orecchie da elefante, intento a stringere un oggetto oblungo andato ormai da lungo tempo perduto. Uno degli oggetti forse più memorabili del sito, ma certamente non l’unico degno di essere citato esplicitamente…
Riconosciuto dall’UNESCO il patrimonio dei moidam, tumuli sopra le teste della dinastia Tai Ahom
Si narra che originariamente l’unico aspetto dell’Universo fosse un vasto oceano, del tutto privo di terre emerse. Finché il Dio supremo e senza forma Pha Tu Ching non creò dal suo petto il figlio Khun Theu Kham, che non avendo nulla su cui posare i piedi si sdraiò sul fondo, lasciando che un fiore di loto germogliasse dal proprio ombelico. Quindi generò una tartaruga, un granchio ed il cobra dalle otto teste, che si allargò istantaneamente in ogni direzione allo stesso tempo. Non ancora contento, l’antenato dell’umanità decise quindi per la liberazione subacquea di due elefanti dalle zanne d’oro e la creazione di altrettanti Pilastri, destinati a sostenere la volta celeste. Destinata ad essere esplorata da una coppia di ragni, che librandosi nel cielo grazie all’uso delle proprie tele, lasciarono inevitabilmente cadere verso il basso degli escrementi. Questi ultimi, consolidatisi nel giro di qualche migliaio d’anni, diventarono il Mondo. Qui, le genti prosperarono e poterono moltiplicarsi, con particolare riguardo al popolo prescelto dei Tai, discendenti di Khun Theu Kham provenienti dall’attuale Sud-Ovest cinese. Da cui presero la scelta mai eccessivamente facile di emigrare, superando le pendici periferiche dell’Himalaya al seguito del condottiero del tredicesimo secolo Sukaphaa, principe supremo della regione di Mong Mao e sacro fondatore della fazione politica degli Ahom. I cui membri giunsero, in quel particolare, presso la terra promessa della valle di Brahmaputra, destinata in seguito a venir chiamata Assam. Ove costruirono vaste città, svettanti palazzi e luoghi di sepoltura dalla complessità notevole, non a caso chiamati a scopo divulgativo “Le piramidi dell’India”. Riconosciuti finalmente dall’UNESCO all’inizio della scorsa settimana, nella stessa sessione che ha portato la Via Appia dell’Antica Roma a diventare il sessantesimo patrimonio italiano, i loro tumuli (maidam) in particolare dell’antica città e luogo sacro di Charaideo, la “Città della Collina Sacra” spiccano per integrità e complessità architettonica nonostante i saccheggiamenti subiti nel corso dei secoli, a partire dall’apertura forzata dalle truppe del colonialismo durante l’epoca del colonialismo inglese. Giunte in questo luogo ameno ma remoto con la forza delle armi, come non erano riusciti a fare neanche gli emiri dei Mughal, dinnanzi alla considerevole forza marziale e conoscenza del territorio posseduta dai Tai Ahom. Il che avrebbe permesso al loro regno di durare oltre sei secoli, dal 1228 al 1826, data del trattato di Yangbao con cui rinunciavano alla propria egemonia in cambio della “protezione” della Compagnia delle Indie Orientali. Il che avrebbe certamente contribuito a scuotere, ma non cancellare del tutto, la loro incomparabile eredità secolare…



