È una faccenda nota che spostandosi abbastanza in profondità, il concetto di ciclo stagionale cessa di essere rilevante, portando ad un livello di temperatura stabile che resta sempre identico nel corso dei mesi. Ciò è compatibile col mito classico della Dea Persefone, figlia di Demetra che venne rapita dal sovrano dell’Oltretomba, restituita per intercessione di Zeus alla madre per un periodo ricorrente di metà dell’anno. E che nel periodo della propria assenza, giustifica la rabbia materna di colei che parrebbe possedere la sublime qualità di poter influenzare l’asse della rotazione terrestre. Se potessimo d’altronde diventare delle mosche sopra i muri di quei luoghi remoti, scopriremmo come un tale matrimonio sia basato quantomeno sopra solide fondamenta. Giacché i due possiedono parecchi aspetti in comune. E dove il ghiaccio del Cocito intrappola e ghermisce i traditori di coloro che gli furono vicino in vita, battono ritmicamente sulla superficie solida del fiume. Producendo, con i loro molti piedi, il suono distintivo di un ritmico tip-tap danzante.
Lunghi, lunghi, (poco) larghi e piatti sul terreno per meglio adattarsi alle situazioni di un ambiente il quale, fin dai tempi più remoti, non è mai cambiato in modo significativo e/o evidente. Il nome di Ade e quello della sua consorte al giorno d’oggi, in ambito accademico, risultano direttamente collegati a una specifica genìa di esseri viventi. Non più lunghi di 8-10 cm eppure dei giganti concettuali, dal punto di vista dell’insolito quanto efficiente stile di vita. Sono le uniche due tipologie note di miriapodi Geophilus che siano anche dei veri e propri troglobi, ovvero abitanti obbligatori delle caverne. A qualche centinaio di metri sul confine tra Spagna e Francia nel 1999 nel caso di “lei” (G. persephones) ma un massimo attestato di ben 1.100 per quanto concerne “lui” (G. hadesi) scoperto solamente nel 2015 da un team di speleologi operante presso il sottosuolo delle montagne di Velebit, in Croazia. Aprendo la strada ad una rinnovata presa di coscienza, su come non soltanto placidi erbivori e insostanziali batteri possano riuscire a prosperare ad oltre un chilometro di distanza dalla luce dell’astro solare. Ma anche vivaci, agguerriti carnivori forniti delle armi di cui l’evoluzione è riuscita a dotarli. Sebbene i centopiedi in questione, lontani parenti della scolopendra, non siano effettivamente temibili quanto il Re sotterraneo in grado di sfidare i Titani assieme al fratello, la loro capacità d’individuare, ghermire ed avvelenare una preda grazie ai forcipuli posizionati ai lati della bocca risulta ai più elevati vertici della propria nicchia ecologica di appartenenza. Al punto che sarebbe alquanto spaventoso, doverne incontrare degli esemplari sovradimensionati a proporzioni serpentine come conseguenza della rule of cool di opere letterarie sulla falsariga del verniano Viaggio al Centro della Terra…
caverne
Serpeggia il drago pallido del Carso, antica stirpe cavernicola di Olm
L’entità pacifica spostò la posizione della propria coda parzialmente attorcigliata, mentre la quarantatreesima stagione si avvicinava al termine. Una cascata rapida di gocce, dalla terza stalattite avanti a destra (prendendo come riferimento l’imboccatura della Sala Grande) produsse l’increspatura rilevata adesso dai suoi fianchi sensibili, i morbidi polpastrelli delle zampe anteriori. L’entità in quel fugace attimo, risvegliata dal suo sonno di seicentoventisette giorni, usò le letargiche sinapsi per determinare l’elaborazione di una scelta: prima della prossima stagione, si sarebbe Nutrita. Aggrappandosi alla pietra della pozza, assunse dunque la riconoscibile forma del vento, sinuosa e al tempo stesso libera, ma anche determinata. Così fluendo tra gli ostacoli, le branchie esterne simili a piccole pinne agitate nella corrente come quella effettuata situata al termine della lunga coda, voltò l’organo olfattivo all’indirizzo di una traccia lieve. Il chiaro segno dell’immobile presenza sulla riva, di quella che poteva essere soltanto una larva di moscardino della volta oscura e frastagliata, oppure un piccolo di millepiedi cieco di quell’ecosistema nascosto al mondo, nel qual caso difficilmente sarebbe riuscito a ghermirlo. Rapidamente, adesso, il serpentino quadrupede cominciò la sua spedizione di caccia. Tra due, tre o quattro settimane nella peggiore delle ipotesi, le sue fauci si sarebbero serrate sulla forma inconsapevole di quella preda immota.
“Il drago immaturo abita…” scriveva Johann W. von Valvasor nel suo trattato enciclopedico sulla fauna del Ducato di Carniola, “dentro le caverne prossime alla superficie. Simile all’incrocio tra una lucertola ed un verme, esso non possiede l’indole aggressiva degli esemplari adulti, che si nascondono in profondità. Né le loro dimensioni tanto spesso spropositate. Il suo avvistamento può indicare la presenza di una fonte sotterranea a ricorrenza periodica, come quella della grotta di Vrhnika.” Scrivendo nel 1689, un’epoca che aveva visto orma da tempo l’introduzione del metodo scientifico in quella che veniva anticamente detta Filosofia Naturale, il polimata di Lubiana scelse tuttavia di fare riferimento nel suo testo alla sapienza popolare e folkloristica, senza entrare particolarmente nei dettagli di molte delle creature da lui elencate. Quest’ultimo un peccato ancora commesso, almeno in parte, due secoli e mezzo dopo da Charles Darwin in persona, nel tentativo di caratterizzare all’interno del suo testo catartico L’origine delle specie le creature troglobitiche, che prosperavano e si riproducevano esclusivamente in isolate caverne. Da lui definite dei “relitti dell’evoluzione” nella misura in cui erano state rese inefficienti, per l’assenza di competizione predatoria, nello sfruttamento delle risorse ambientali, la capacità di rilevare i pericoli e reagire di conseguenza. Il che potrà anche essere nominalmente vero per taluni abitanti dei recessi ctoni del nostro complesso e stratificato pianeta. Ma non può certamente applicarsi, se non da un punto di vita molto superficiale, per l’unica specie appartenente al genere Proteus, la P. anguinus, più comunemente nota come salamandra di Olm. Un vero e proprio gigante, nonostante gli appena 20-30 cm di lunghezza, per quanto concerne l’ottimizzazione dei lunghissimi giorni…
L’oblunga crepa che divide il territorio arido nel parco nazionale delle Canyonlands
Chiaramente nota tra i pochi cervi del distretto, in mezzo a lievi dislivelli e rocce che compongono un paesaggio brullo e caratterizzante, la linea divisoria ha molto lungamente costituito il “bordo della mappa” per innumerevoli abitanti, forme di vita, creature non fornite della pratica capacità di sollevarsi per andare oltre. Un luogo noto per il modo in cui la luce non riesce a penetrare, tanto da essere chiamato sulle guide o i materiali di supporto: the Black Crack, la Spaccatura Nera. Insolita persino nel territorio dall’orogenesi complessa di un luogo come il parco delle Canyonlands, nella parte meridionale dello Utah non troppo lontano da Moab. Lungo l’arduo tragitto stradale della White Rim Road, per cui si richiedono veicoli speciali ed ancor più rari permessi ottenuti dalla contea. Il che non sembrerebbe aver precluso, a generazioni successive d’escursionisti, l’opportunità di scorgere coi propri occhi l’incredibile caratteristica del paesaggio, diventata celebre negli ultimi tempi per il meme internettiano che tenta d’identificarla come niente meno che la faglia di Sant’Andrea. Accompagnata da didascalie evidentemente fasulle, che parlerebbero di 132 Km di lunghezza e 32 di profondità. Laddove l’effettiva crepa, benché significativa in termini universali, non supera in profondità i 20-30 metri ed ha un’estensione di circa un centinaio nonostante la larghezza sia talvolta inferiore al metro. In molti modi più che sufficiente a creare nell’escursionista tipico quel senso di surreale straniamento, per cui siamo ricorsivamente indotti a confrontarci con le anomalie dei luoghi più quotati o fraintesi al mondo.
Trattasi dunque dell’equivalenza in termini di proporzioni, come ben pochi sono attenti a far notare, del crepaccio glaciale di una zona soggetta a strati di permafrost, il che può risulta senza dubbio rilevante alla questione, considerate le origini sostanzialmente non troppo lontane dovute ad escursioni termiche potenti e reiterate. Sebbene in questo caso, verificatosi lungo l’arco di possibili migliaia di anni sul terreno duro d’arenaria, tanto caratteristico delle regioni del parco. E coadiuvate da forze d’erosione come l’infiltrazione idrica ed il soffio instancabile del vento. Egualmente responsabili, di loro conto, per sculture svettanti come l’iconica Isola del Cielo, il Labirinto e gli Aghi. Benché sia difficile negare il fascino di un tale buco, tanto umile nelle caratteristiche quanto funzionale a generare un ricco repertorio di fantasie. Sulla falsariga di: quanti cadaveri si troveranno là sotto? Quanta spazzatura? Quali creature striscianti ed infinitesimali, come bachi fatti prosperare sui confini di uno squarcio sanguinante, intenti a rimuovere i batteri dalla ferita della Terra stessa…
L’ultimo castello colonnare che troneggia sotto l’isola scozzese dei giganti
Prima degli articoli sulle riviste, i documentari televisivi, gli influencer di TikTok, le destinazioni turistiche nascevano e guadagnavano la loro fama tramite gli strumenti propriamente interconnessi al mondo della cultura. Così che la citazione da parte dello scrittore James Macpherson di un’isola remota nell’arcipelago delle Ebridi un tempo denominata Staffa (“colonna”) lunga appena 1,2 Km e larga 400 metri, come luogo di nascita di Ossian, il leggendario poeta da lui citato come ispiratore del suo corpus di opere narrative sulla mitologia dei popoli del Nord, avrebbe suscitato a partire dal 1761 l’interesse collettivo dei romantici, incapaci di resistere al sito caratteristico ove sorgeva un antico castello. Personaggi come il compositore Felix Mendelssohn, che ancora nel 1829, durante un’escursione presso l’arcipelago d’isole scozzesi noto come le Ebridi, fu famosamente sorpreso di non trovare sopra le alte coste nessun tipo di rovina, ma al di sotto di queste, lo spazio vuoto di una grande sala simile alla volta di una cattedrale, la cui altezza dalle acque lambenti dell’Atlantico sembrava superare i 22 metri d’altitudine dallo scafo della sua minuta imbarcazione. Dovete considerare a tal proposito come a quell’epoca, persino dopo l’introduzione del metodo scientifico e la nascita dell’archeologia, l’origine naturale di una simile struttura non sarebbe stata particolarmente evidente, questione già all’origine di una disputa mezzo secolo prima tra il geografo del regno Joseph Banks ed F. Cope Whitehouse, egittologo, nonché studioso delle cosiddette civiltà perdute. Ciò detto il musicista Mendelssohn, che aveva differenti sensibilità, senza soffermarsi troppo sulla questione si lasciò trasportare da un diverso scorcio sensoriale, quello garantito dal particolare suono che le onde producevano all’interno di una simile struttura basaltica, costituito da un’innumerevole susseguirsi di formazioni di basalto verticale geometricamente ripetute, simili a quelle dell’ancor più famoso Selciato del Gigante (“Clochán an Aifir“) situato all’altro lato del braccio di mare che separa Scozia ed Irlanda. Un rimbalzare riecheggiante di tonalità melodiose, che egli avrebbe trasformato e riproposto l’anno successivo come tema principale di quello che potrebbe essere chiamato il suo capolavoro, l’ouverture privo di un’opera Die Hebriden, dedicato al sublime senso di solitudine e la natura selvaggia dell’eponimo gruppo d’isole inglesi. Entro cui lo spazio cavo sotto Staffa era stato detto in lingua gaelica, prima del passaggio e della trattazione ad opera di J. Banks, Uamh Bhin ovvero Grotta Melodiosa, finché le associazioni letterarie di cui sopra non l’avrebbero vista ribattezzare con l’attuale qualifica di Fingal’s Cave, dal nome del personaggio ossianico, più o meno basato sulla figura mitologica di Finn/Fionn mac Cumhaill, il condottiero dell’eroica banda di avventurieri noti come Fianna, possibilmente collegato alla creazione stessa di questo luogo senza pari nel mondo…