“Arruolati nell’esercito” avevano detto, “girerai il mondo”. Per ora tutto quello che James aveva girato era stato il Queensland, nella più completa collezione di valli aride, foreste pedemontane e deserti dal clima tropicale. Con la sua solita fortuna di aver indossato l’uniforme, per la prima volta, all’inizio della più piena stagione di esercitazioni sul campo sulla sopravvivenza e navigazione che fossero mai toccate alla Royal Infantry Corps. Perciò dopo l’ennesima lunga giornata di marce, tra le diatribe con gli altri membri della squadra su quale fosse il percorso ideale da seguire, James si trovò a montare un accampamento all’interno di una vasta radura sulla costa di Cassowary, a una probabile distanza di circa 300 Km dalla città di Innisfail. Quando iniziò, improvvisamente, a soffiare un vento premonitore, subito seguito da una pioggia intensa. “Che cosa stai facendo, soldato?” Gridò il sergente mentre continuava a scrutare intensamente all’orizzonte. Possibile che… Qualcosa, tra gli alberi. “C’è una luce, signore. Una luce verde bottiglia laggiù, all’altezza mediana dei tronchi.” Udendo la voce del caposquadra che rispondeva eloquentemente qualcosa, James sentì le sue gambe che s’irrigidivano, quindi si alzò in maniera del tutto automatica ed iniziò a camminare. La luce adesso si era spostata in alto, ed aveva cambiato colore verso una tonalità rossa intensa. “Devo capire di che si tratta, farò subito ritorno al campo base” Disse tra se e se con un tono di voce di gran lunga troppo sommesso, mentre facendo il suo ingresso al di sotto della canopia, sentì l’acqua che scorreva in rigagnoli copiosi al di sotto dei suoi stivali. La densità della vegetazione era intensa, eppure stranamente, l’emblematico faro nella notte era sempre perfettamente visibile, mentre continuava ad allontanarsi a una velocità apparentemente pari a quella della sua avanzata. Finché non vide, incredibilmente, quella forma sfocata dividersi in due luci distinte, che assunsero una colorazione bianca come quella del sole di mezzogiorno. Ora James si rese conto di stare correndo, anche se non sapeva quando aveva iniziato a farlo. Le foglie gli percuotevano dolorosamente il viso ed udì il suono di piccoli animali, che scappavano precipitosamente nel sottobosco. Poco importa. Le luci lo chiamavano insistentemente. Lo chiamavano all’indirizzo del torrente impetuoso, trasformato in un fiume dal verificarsi di una catastrofica inondazione lampo, situato strategicamente tra lui e la fonte. La fonte di quella Luce…
Un po’ come l’inganno delle sirenidi del mar Mediterraneo, catturatrici di marinai assetati sul ponte di navi del tutto prive di compagnia femminile, le cosiddette luci di Min Min hanno saputo movimentare il viaggio compiuto da un certo numero di frequentatori del bush e gli altri biomi limitrofi, principalmente in una vasta area situata lungo la zona costiera orientale del continente australiano. Così chiamate per via della stretta associazione con il villaggio omonimo nella contea di Boulia, oggi del tutto abbandonato, dove si dice che fossero avvistate più frequentemente dai coloni di etnia europea, la loro strana fenomenologia ha da tempo lasciato perplessi gli studiosi, per non parlare degli approfonditi conoscitori della storia. Sembra infatti che il tenuo lucore, solito presentarsi esclusivamente dopo l’ora del tramonto, fosse già largamente noto alle tribù aborigene della zona di Brewarrina, che erano solite considerarle una manifestazione terrena occasionale delle anime dei defunti, o di altri spiriti incaricati di proteggere o personificare la natura. Fino alla prima narrazione scritta di un avvistamento, redatta nel libro autobiografico del 1838 dell’esploratore T. Horton James, “Sei mesi in Australia”…
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L’impressionante terrore prospettico del Globemaster che sfiora i grattacieli di Brisbane
“Scegliete di vivere l’adrenalina, scegliete una carriera da piloti della Royal Australian Air Force” ai comandi…. Di un mastodonte da 128 tonnellate di peso e fino ad ulteriori 74 di carico, sufficienti a sollevare in cielo un moderno carro armato M1 Abrams, completo di equipaggio, munizionamento ed accessori vari. Il tipo di velivolo, in altri termini, che difficilmente dovrà trovarsi a schivare missili nei cieli durante il corso di un serrato duello aereo. Ma potrebbe alquanto sorprendentemente, conoscere i più estremi limiti del suo contesto operativo in epoca di pace, ed in particolare nel corso della ricorrenza del Rivefire Festival, annuale celebrazione settembrina della stima del popolo di Brisbane nei confronti della propria storia cittadina e il fiume omonimo, fonte di cibo e sussistenza fin dall’epoca della colonia penale di Moreton Bay. Qualcosa di straordinario ed a suo modo appassionante, come largamente esemplificato dalla serie di fotografie e riprese che sul finire dell’inverno australe s’irradiano regolarmente dai canali social degli abitanti del posto, in cui uno degli otto Boeing C-17 Globemaster III al servizio della RAAF sembra insinuarsi noncurante tra le forme monolitiche degli alti grattacieli urbani, schivandone il perimetro e facendo sfoggio di quel tipo d’agilità che tenderesti ad aspettarti da un falco pellegrino. Inquadrato surrealmente dall’alto, mediante cellulare o telecamera da spettatori che si trovano, per una serie di drammatici momenti, effettivamente SOPRA quelle ali, suscitando un senso di vertigine del tutto privo di un contesto acquisito. Nonché un implicito riferimento, mai mancato dagli americani, all’epocale tragedia dell’11 settembre 2001, sebbene debba necessariamente trattarsi di una mera illusione. Non che questo abbia impedito, in epoca recente, a più di un newyorkese un certo senso spontaneo d’ansia, accompagnato dalla disistima di vedere il suo vissuto riproposto come lo spettacolo di un giorno lieto. Non che la misura della percezione statunitense debba sempre, oppure necessariamente, ritrovarsi a pervadere ogni aspetto della vita (post)moderna, benché l’aereo in questione e la sua filosofia di progettazione, manifestata per la prima volta con il prototipo del 1991, costituiscano la diretta risultanza di una richiesta d’appalti delle autorità militari di quel paese. Al fine di sostituire i precedenti ed ormai vetusti Globemaster C-74 e C-124 offrendo un particolare vantaggio di tipo operativo: la capacità d’infiltrarsi volando a bassa quota oltre i radar o lanciamissili del territorio nemico. Per depositare il proprio carico belligerante, lievi come farfalle, imperturbabili all’aspetto dei pericoli circostanti. Un tipo di operazione regolarmente testata in California mediante incursioni a pieno carico nel cosiddetto Star Wars Canyon (depressione nei pressi della Valle della Morte) ma che semplicemente nessuno si aspettava di vedere riproposta in mezzo alle case di un centro metropolitano abitato da due milioni e mezzo di persone. Il che la dice lunga, inevitabilmente, sulla preparazione pregressa e la fiducia investita dagli australiani nei confronti dei propri piloti militari, formati d’altra parte tramite l’implementazione di uno dei programmi di addestramento più avanzati al mondo. Inclusivo di prove pratiche, se vogliamo, non propriamente alla portata di chicchessia…
Un artiglio porto dal minuto formichiere per cambiare il triste fato della tigre tasmaniana
Nei diari scritti all’epoca dal celebre studioso della cultura aborigena George Fletcher Moore, tra i primi coloni d’Australia, è possibile leggere in corrispondenza del giorno 22 settembre 1831 presso la valle del fiume Avon: “E poi vedemmo un magnifico animale; ma, mentre scappava nel cavo di un albero, non fu possibile accertare se si trattasse di uno scoiattolo, una donnola o un gatto…” E il giorno successivo, nel suo racconto di una grande spedizione naturalistica sotto il comando dell’esploratore Robert Dale: “Ne abbiamo inseguito un altro esemplare fino alla sua tana, dove l’abbiamo catturato. Dalla lunghezza della lingua pensiamo possa trattarsi di un formichiere. Ha strisce bianche e nere sulla schiena; misura circa 12 pollici (30 cm)”. Ma difficilmente osservando il suo rudimentale disegno, incluso ai margini della narrazione, avrebbe potuto rendere l’idea, per chi non lo conosceva direttamente, dell’aspetto strano e strabiliante di quello che cinque anni dopo avrebbe ricevuto l’appellativo scientifico di Myrmecobius fasciatus, sebbene non mangi affatto formiche bensì termiti e tutti siano oggi soliti chiamarlo più semplicemente numbat, dal suo nome aborigeno e per una possibile analogia con il ben diverso marsupiale wombat (Vombatidae) con cui risulta d’altra parte imparentato soltanto molto alla lontana. Laddove la sua specifica collocazione all’interno della famiglia dei dasiuridi o “topi marsupiali” lo colloca nel grande albero della vita, quasi paradossalmente, come creatura vivente più vicino ad una delle più rinomate e compiante vittime dei multipli progressi d’estinzione dell’Olocene: il povero tilacino, T. cynocephalus o tigre tasmaniana. Dal che un’idea, senz’altro avveniristica, pubblicata in questi giorni dall’Università dell’Australia Occidentale grazie al laboratorio Aiden della Scuola Baylor di Medicina (BCM) capace di sfidare l’immaginazione letteraria di un romanzo sulla falsariga del celebre Jurassic Park. In senso pratico e assolutamente letterale: creare geneticamente dal nulla un essere scomparso dal pianeta Terra. Grazie al DNA imperfetto ricostruito da un esemplare preservato nel museo di Victoria, completato e perfezionato da una fonte certamente imprevista. Ed è qui che entra in gioco il piccolo formichiere incontrato da Moore, due secoli dopo anch’esso a rischio d’estinzione con appena 1.000 esemplari allo stato brado e tutti concentrati in una parte minima del suo antico areale. Perché grazie alla nuova mappa creata del suo genoma, con strumenti moderni, efficienti e precisi, si giunti alla sorprendente conclusione di un codice effettivamente identico a quello del suo defunto cugino per un buon 95% del totale. Ovvero abbastanza da poter dare in pasto ai tecnici delle sofisticate tecnologie CRISPR, basate sulle manipolazione batterica, capaci di modificare ed instradare il normale sviluppo genetico di una creatura. Il che ci porta all’incombente possibilità futura, analoga a quanto sta per accadere nell’ibridazione e conseguente ritorno del mammut con l’elefante asiatico, a una possibilità superiore allo zero di poter riuscire a “de-estinguere” un essere che avevamo dato per perduto ormai all’umanità. Qualcosa di al tempo stesso esaltante e ecologicamente utile, per il ruolo un tempo avuto dal più grande ed importante tra i carnivori dell’intero continente d’Oceania…
Osservando le acute strategie di caccia del ragno triangolare australiano
Nella vita accelerata di una mosca, la bellezza può essere pericolosa, persino letale… Voglio dire, per un dittero anche la bruttezza può esserlo, o persino l’assenza di una percezione sensoriale di alcun tipo, accompagnata dall’assenza di particolare senso critico che si accompagna stesso alla natura assai rudimentale di un cervello che capisce più che altro dei concetti vaghi come “fame”, “sazietà”, “risposare” o “FUGA!”. Poiché non importa quanto possano essere allenati i propri sensi, non si può scappare da quello che non si è capaci di vedere, e/o individuare come fonte di pericolo, o/e sviare con un rapido balzo all’indietro, seguito dal ronzante tentativo di elevarsi al di là del problema. Cose che silenti giacciono sul bordo della foglia. Esseri dormienti, ma soltanto in apparenza, il cui senso stesso della vita si realizza nell’agire rapidi, ed inaspettati, chiudendosi come una pinza creata per tagliare il flusso di un massiccio acquedotto cittadino.
Placida, tranquilla, addirittura amena può essere una forma come quella del cerchio. Solida e coerente quella del quadrato. Ma è il triangolo, tra tutte, ad essere la più dinamica e aggressiva, spigolosa, intonsa di un pesante senso di minaccia di natura primordiale; quello espresso, a suo modo, dal genere australiano e delle isole limitrofe degli Arkys, un gruppo di ragni tessitori della famiglia Araneae che in un momento non specificato della loro esistenza pregressa devono essersi detti qualche cosa sulla falsariga di “Chi ha davvero tempo per fare questo?” Abbandonando l’abitudine di creare le tipiche appiccicose trappole di forma grossomodo circolare. Scegliendo in modo alternativo di affidarsi alla rapidità fulminea delle proprie zampe anteriori, capaci di chiudersi con una forza sufficiente a mantenere intrappolata un’ampia varietà di possibili prede. Predatori dunque di quel tipo aracnide alternativo, cui appartengono anche i cacciatori salticidi, ma tutt’ora inclini ad adottare l’originale tattica dei propri antichi predecessori ancor più tradizionalisti contemporanei: passività prima del movimento. Pazienza sopra l’avidità. Ben sapendo che qualcosa o qualcuno, presto o tardi, dovrà necessariamente passare di lì.
Creature non troppo studiate dal mondo scientifico, probabilmente per il semplice rapporto tra la quantità di aracnidi esistenti e il tempo disponibile all’interno dei laboratori, i ragni triangolari sono d’altronde particolarmente amati dai fotografi del continente d’Oceania, proprio per la loro abitudine a sostare immobili rendendo molto facile l’inquadratura, anche alle loro dimensioni assai ridotto che raramente superano gli 8-10 millimetri nella femmina, circa 6 nel maschio. Per non parlare dell’aspetto sostanzialmente identico tra i sessi per ciascuna singola specie, nonché straordinariamente variegato tra queste, in un tripudio di colori, forme e approcci molto personalizzati al concetto di mimetismo. Poiché non c’è agguato maggiormente inutile, di quello che persino una mosca potrebbe anticipare. Soltanto il suo concetto di chiarezza non è sempre, oppure necessariamente, identico a quello di un imponente bipede del mondo bipede dei Sapiens…