Il pesce fiore con la palla sulla testa

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Signori, vi presento il flowerhorn drago rosso, uno strano animale domestico creato dalla mano dell’uomo. Selezionato a partire dai ciclidi pinnuti dei fiumi sud americani, incrociati dagli allevatori della Malesia con specie rimaste tutt’ora ignote, questo pesce è una creatura dal forte temperamento e l’ancor più resistente costituzione, che nel giro di pochi minuti, irrompe in un’acquario facendosi largo tra i più piccoli inquilini, se possibile, uccidendoli per fare colazione. Il suo elemento dominante, l’assurdo sferoide che gli decora la fronte a seguito dei molti incroci attentamente pianificati, viene definito gobba nucale o kok, e gli dona un aspetto marcatamente innaturale nonché per certi versi alieno. Che parlando molto francamente, o si ama…O si odia. I suoi creatori usavano chiamarlo Kaloi, che significa “nave da guerra”, poiché il suo profilo aveva una vaga somiglianza coi vascelli usati dai temibili pirati della storia del loro paese.  I cinesi che iniziarono ad agevolarne la circolazione sul mercato verso la fine degli anni ’90, dal canto loro, erano formalmente convinti che un simile elemento anatomico simboleggiasse la fortuna finanziaria, e che dunque tanto più grande fosse il kok, tanto più il futuro proprietario avrebbe potuto godere del favore degli dei e il destino nei suoi affari personali. Il che fece aumentare i prezzi di questo pesce a dismisura, fin quasi a rivaleggiare i leggendari koi giapponesi: un Luohan (termine mutuato dal nome cinese dei santi buddhisti) poteva costare anche l’equivalente di decine di migliaia di euro ed esiste almeno un caso, risalente al 2009, di uno di essi che venne venduto all’asta per la cifra spropositata di 600.000 dollari. Davvero niente male, per un animale lungo poco più di 40 cm e che non fa altro che starsene nell’acquario, fagocitando più o meno tutto quello che gli viene messo davanti! Del resto, molte persone non appena fanno la conoscenza dell’onnivoro in questione, iniziano a guardarlo con sospetto per la sua forma insolita e per certi versi mostruosa. Ma io vi garantisco che, approfondendo lievemente l’argomento, non potrete fare a meno anche voi giungere ad apprezzarlo per ciò che realmente è. Nessuno che abbia mai acquistato un flowerhorn, e l’abbia visto crescere fino all’età adulta, se ne è mai in ultima analisi pentito in alcun modo. In una scala che pone il cane al punto più alto della graduatoria degli animali da compagnia (posizione che OGGETTIVAMENTE merita, su questo non discuto) renderei onore al ciclide fiore con almeno 7, se non addirittura 8 chihuahuas su 10. Se impari a conoscerlo come dovrebbe fare un padrone coscienzioso, lui potrà farti molta compagnia.
Un vero amante dei Luohan, generalmente, lo riconosci all’istante al primo sguardo dell’acquario di casa sua: avete presente quelle immagini idilliache di un ambiente subacqueo ricostruito, con il boschetto d’alghe, le rocce vive, i gamberi sul fondo, e pesci grandi o piccoli di vario tipo che si aggirano sereni all’ombra dei loro fratelli più imponenti? Ecco, nulla di tutto ciò è possibile se si è scelto di seguire la propria passione per il pesce drago della Malesia. Egli spicca, naturalmente allegro e solitario, nel pieno centro di un serbatoio d’acqua totalmente vuoto, proprio in forza della sua ferocia territoriale e la voracità sopra descritta. Neppure i vegetali sono al sicuro dalla sua furia, di cui può nutrirsi occasionalmente, ma che sopratutto sradica e sposta mentre pratica il suo passatempo di scavare nel terriccio del fondale. E non pensate di mettergli a fianco un compagno o una compagna: a tal punto è incontrollabile la furia di questa genìa (o razza: formalmente non si tratta di una specie) che i due finiranno immancabilmente per attaccarsi, arrecandosi ferite se non addirittura uccidendosi a vicenda. L’unico, raro caso in cui il flowerhorn possa convivere assieme ad altri esseri viventi è quello di disporlo di un acquario estremamente grande, superiore ai 700 litri, assieme ad una pluralità di pesci più grossi di lui ma d’indole tranquilla. Soltanto in quel caso, la burbera creatura potrebbe adattarsi all’ordine vigente e darsi progressivamente una calmata, fino a diventare un rispettabile coinquilino della congrega. Ma anche in quel caso, sia chiaro che si tratta di un’azzardo. Eppure, resta difficile portare un qualsivoglia tipo di rancore a una creatura così….

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Le due armi segrete del gambero ninja

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Prima del moderno perfezionamento dell’intelligenza artificiale e l’introduzione della grafica tridimensionale calcolata in tempo reale, ciò che caratterizzava ciascun particolare ostacolo nei videogames era un diverso tipo di movimento predeterminato: da destra verso sinistra sullo schermo (una freccia? Un missile? Una palla di fuoco?) Dall’alto verso il basso (una stalattite? Un incudine? Un falco in picchiata?) e così via… Fra tutte le diverse possibilità, ricorreva poi alquanto spesso il tema della “cosa” che fuoriesce dal pavimento. Questo ruolo veniva generalmente occupato un mostro misterioso, del quale persino il manuale d’istruzioni si limitava a dare una descrizione piuttosto vaga. Talvolta insettile, spesso simile ad un ragno, più raramente robotica o comunque di metallo, la creatura presentava sempre un aspetto del tutto imprescindibile: piuttosto che colpire, afferrava. Il che voleva inevitabilmente dire, nel mondo delle tre vite concesse ad ogni inserimento di gettone nel bar, l’immediata (ennesima) dipartita del personaggio principale. Ora chiunque abbia mai approfondito l’argomento, dovrebbe sapere molto bene come il media digitale interattivo, fin dalle sue origini, abbia tentato d’imitare la natura. E per quanto concerne un certo tipo di giochi a scorrimento, ovvero gli sparatutto nel senso classico ambientati spesso nello spazio, l’ispirazione effettiva è sempre stata data dalle profondità azzurre dell’oceano sconfinato. Nel quale, tra i tanti organismi predatori che afferrano le cose di passaggio, c’è n’è uno che spicca per il fascino estetico e le notevoli doti innate. La sua letalità estrema, del resto, ricorda molto da vicino quella di un mostro finale della serie R-Type. Il suo nome è gambero mantide (ordine: Stomatopoda) ma potrebbe altrettanto essere chiamato gambero Ninja Gaiden o gambero Assassin’s Creed.
Per definirne in termini d’assoluta immediatezza le terribili capacità, vorrei provare a riassumerle in un singolo suono. Penetrante e ripetuto, come il battito di un martelletto da calzolaio sulla suola di un stivale privato di suola: TAP-TAP, TAP-TAP. Immaginate, da acquaristi ovvero proprietari di un recipiente per pesci con tutti i crismi, di svegliarvi la notte con questa sensazione che stia per succedere qualcosa di terrificante. Per raggiungere immediatamente il salotto buio, dove alquanto stranamente, vi riesce di scorgere un fievole scintilla; TAP-TAP, eccola di nuovo! È lui non c’è dubbio, può essere soltanto lui. Luce accesa, occhi spalancati per scorgere l’imprevista verità: tra le rocce vive che avete acquistato per dare un habitat più variopinto ai vostri amici pinnuti, dovevano esserci delle uova. Nascosto nella sabbia del fondale, quindi, il mostro è cresciuto, afferrando qualche piccolo pesce di passaggio di cui nessuno avrebbe notato l’assenza, fino a raggiungere misura tutt’altro che trascurabile di 10, 15, forse addirittura 20 cm. Ed ora… Infastidito dalla sensazione di prigionia…Sta BATTENDO sul vetro dell’acquario. TAP-TAP-CRAAK! Con un suono stridente, all’improvviso, si forma la prima crepa. Acqua copiosa inizia a spargersi sul parquet! I due occhi sferoidali in equilibrio su altrettanti peduncoli sembrano focalizzarsi su di voi. Sottolineando l’intenzione, l’animale inclina lievemente la testa di lato. Quindi batte ancora, per l’ultima volta.
Sembra una leggenda metropolitana ma fidatevi, non lo è affatto: questi artropodi possono rompere il vetro degli acquari. Proprio per questo, nonostante la bellezza degli stomatopodi che può raggiungere vette estreme, soprattutto nel caso di specie come il gambero mantide pavone (Odontodactylus scyllarus) dai molteplici colori, l’effettiva addomesticazione di simili animali risulta nei fatti piuttosto rara. Aggiungete poi il problema che tutti questi esseri sono carnivori, nonché dei voraci predatori in grado di far piazza pulita di pesci anche molto più grandi di loro, e comprenderete perché sia molto meglio non avere nulla a che fare con loro. Ci sono casi registrati di sub esperti, che muovendosi per i fatti loro in un qualsivoglia recesso degli oceani tropicali e temperati, hanno inavvertitamente disturbato la tana di un gambero, ritrovandosi tagli sanguinanti sulle mani o gli avambracci colpiti. La ragione è da ricercarsi nel temibile secondo paio di appendici toraciche del crostaceo in questione, che non a caso presentano una forma ed articolazione del tutto simile a quella delle mantidi religiose. Con la sottile differenza che invece di essere fatte di un lieve e delicato esoscheletro chitinoso, tali artigli sono rinforzati da uno speciale composto mineralizzato di carbonio e magnesio, in grado di resistere all’urto con i più solidi involucri di conchiglia. O strati rinforzati di vetro.

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La mucca grande come un rinoceronte

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L’enorme creatura sovrasta i visitatori del Sequoia Zoo di Eureka, nel nord della California. Strane suggestioni provenienti da Jurassic Park: quale artropode nell’ambra, quale proboscide di una zanzara scongelata, è responsabile di questa straordinaria clonazione? Perché non sembra, all’apparenza, sussistere alcun’altra possibilità: il pacifico bovino è la versione rediviva dell’antico bove primigenio, il celebrato uro, di cui Erodoto e Aristotele parlarono nei loro scritti e che nel mondo d’oggi, a quanto ne sappiamo, risulta estinto da almeno 400 anni. La terra cede al passo dei suoi zoccoli, che lasciano tracce profonde. Il suo muggito, una sirena che sconquassa la foresta all’orizzonte. Il suo nome: Danniel (si proprio così, con due n) e il genere maschile ci dimostra un chiaro aspetto della situazione. Ovvero che non siamo dinnanzi ad una mucca, ma neppure a un toro, bensì tecnicamente a un bove; che poi nient’altro sarebbe che un maschio castrato, generalmente utile all’industria zootecnica per una cosa e quella solamente: diventare, prima o poi, carne. Fato al quale, per quanto ci è dato di capire, costui è stato sottratto grazie all’evidente unicità. Due metri al garrese per oltre una tonnellata di peso! Praticamente, più alto di un rinoceronte nero africano, ed ampiamente tra le specifiche di un esemplare maschio come peso. Al servizio, tuttavia, di un’indole amichevole del tutto paragonabile a quella di un cane domestico, grazie all’educazione ricevuta fin dalla giovane età.
“Iniziammo a capire che c’era qualcosa di strano…” Racconta Ken Farley di Ferndale, proprietario dell’insolito animale “…Verso i cinque mesi di età. Danniel era un drop calf (vitello tolto alla madre) che non sarebbe dovuto sopravvivere a lungo. Io e mia zia lo avevamo acquistato sei anni fa per una nostra femmina ancora giovane, il cui piccolo era morto al momento del parto. Tuttavia, lei lo rifiutò. Così siamo stati noi a nutrirlo amorevolmente, allattandolo ogni giorno con la bottiglia. Finché all’improvviso, non era diventato così grosso e forte da strapparcela di mano.” Nel campo del bestiame, per ogni mucca che produce copiose quantità di latte da immettere sul mercato alimentare c’è, naturalmente, un figlio che non potrà raggiungere l’età adulta. Sarebbe in effetti del tutto impossibile assicurare il benessere della prole così privata del nutrimento, mantenendosi allo stesso tempo economicamente produttivi, un aspetto al quale non molti amano pensare spesso, a meno che non siano dichiaratamente ed apertamente vegani. Questi vitelli, generalmente, vengono venduti per la loro carne entro il primo anno di vita, dandogli una fine misericordiosa ed indolore. Può accadere talvolta, tuttavia, che si verifichi qualcosa d’inaspettato ed è proprio questo ciò di cui stiamo parlando. E non è impossibile, a quel punto, che il destino ricompensi coloro che si sono dimostrati generosi.
Danniel è una mucca di razza Holstein, che poi sarebbe il nome più tipologicamente corretto, ed usato ancora oggi nella lingua discorsiva degli Stati Uniti, per le nostre frisone, tra i capi di bestiame di maggior successo e più amati al mondo. Creature già normalmente grosse e pesanti, originarie della regione al confine tra l’Olanda e la Germania, che secondo l’opinione degli studiosi giunsero a crearsi per una casualità imprevista attorno al 100 a.C, quando i popoli della regione di Hesse migrarono verso il mare del Nord, venendo ad incontrarsi con le tribù dei Frigi tra i fiumi del Reno, del Mosa e del Waal. Mescolando il proprio codice genetico e di pari passo quello dei propri armenti, rispettivamente del tutto bianchi e del tutto neri, il che sarebbe poi all’origine della particolare colorazione a macchie della mucca frisona.

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Perché il picchio pileato può sconfiggere un serpente

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La visione dei cartoni animati ma anche le naturali associazioni delle cose piccole alle idee, ci hanno portato alla cognizione che il suono del picchio all’opera nella foresta corrisponda grosso modo a quello di una lieve ballerina sulle punte, intenta a ad occupare uno dei ruoli secondari nella danza del lago dei cigni. Il che da luogo al dubbio reiterato, spesso vissuto dagli escursionisti nelle foreste boreali del Canada e dei Grandi Laghi, che può essere riassunto in breve nella frase: “Cosa diamine è questo frastuono… Infernale?” E già, che sarà mai? Sembra quasi che un cantiere edilizio, trasferito tra le fronde e resosi invisibile, giunga per manifestarsi come il fantasma di un castello vittoriano. Pare che un falegname alto due metri, preso dal raptus del lupo mannaro, si nasconda in mezzo ai tronchi e si diverta nel prenderli a martellate, a martellate. Bam, bam, BAM, BAM: foglie cadono dai rami, scoiattoli si lanciano verso la salvezza. Un piccolo pioppo americano, perforato da parte a parte, con l’aiuto del vento inizia gradualmente a piegarsi, quindi con lo schianto e un vortice di schegge si spezza in due. Dalla scena del delitto, un paio d’ali nere, con striature bianche e un ciuffo rosso sulla testa, grande grosso modo come un corvo, se ne vola via. Il suo aspetto è grazia ed innocenza. Il suo nome, puro terrore per le piante.
Dryocopus pileatus è fra tutti i picchi americani, quello che si è saputo adattare meglio alle necessità di un ambiente mutevole, continuamente condizionato dalle necessità d’espansione e conseguente disboscamento umano. Territoriale come i suoi fratelli, anch’egli soggetto alla necessità di aggredire una pluralità di tronchi alla ricerca di nuove larve o formiche sempre nuove da fagocitare, si tratta ad ogni modo di un uccello sufficientemente prolifico ed opportunista nel suo nutrimento, da riuscire a sopravvivere in praticamente ogni situazione. Capacità che gli ha permesso di fregiarsi all’attivo dello stato di diffusione graduato dalla IUCN di Least Concern (rischio d’estinzione minimo) ovvero tutto l’opposto di almeno due altre specie simili ma più specializzate, che per quanto ne sappiamo, ad oggi potrebbero anche essersi estinte. Il che sarebbe un vero dramma, nel caso del picchio pileato: perché è proprio questa creatura associata nella fantasia all’indole dispettosa e distruttiva di Woody, il picchio antropomorfo che folleggiò nei cartoons americani degli anni ’50, a consentire nei fatti la sopravvivenza di un alto numero di specie di uccelli e mammiferi, tra cui gufi, anatre dei boschi, scoiattoli e persino procioni, che arrampicandosi occasionalmente sugli alberi non mancano mai di apprezzare il foro tondeggiante, perfetto ed accogliente, ricavato in origine dal piccolo pennuto per custodire le sue uova.
Allo scoccare della stagione riproduttiva infatti, il pileatus cessa il suo vagabondare scriteriato, ed inizia a picchiettare un solo, specifico albero. Con insistenza estrema e all’apparenza crudele, tanto da perforare la corteccia, disintegrare letteralmente il legno all’interno e accumulare un letterale cumulo di segatura e frammenti, lasciati a depositarsi sulla base del tronco come una sorta di macabra paccianatura. Ciò viene fatto, tuttavia, con uno scopo assai specifico. E quello scopo è attirare la femmina, così come avviene per la danza combattiva del gallo cedrone, oppure l’apertura rituale della coda del pavone. Inizierà, quindi, quel riconoscibile richiamo quasi degno di un uccello tropicale, nei fatti simile alla risata stridula del succitato personaggio, finché una lei di passaggio non ceda all’evidenza, e non venga ad accoppiarsi e qui deporre le sue preziose uova. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Non proprio. Perché può capitare che il cumulo di legno sminuzzato, nei fatti, finisca per attrarre l’attenzione di un qualcosa di pericoloso e spiacevolemnte famelico. Un sinistro mangiatore delle cose bianche, tonde e ssucculente…

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