Le tre rocce da un milionesimo di quadrilione

Vi ricorda nulla? Non sarebbe sorprendente se in effetti, a seguito delle pregresse peregrinazioni online, questa immagine si fosse impressa indelebilmente nei luoghi più reconditi della vostra corteccia cerebrale: tre sassi in equilibrio, come quelli di Wile E. Coyote ma con qualche accenno di vegetazione attorno, tanto per far capire che non siamo più nel mezzo del deserto della California. E grandi, enormi, come gentilmente dimostrato in questa foto dal viaggiatore polacco autore del blog Africa Trip, l’unica rappresentazione che mi sia riuscito di trovare funzionale a dimostrare efficacemente la scala della situazione. Ovvero della particolare formazione geomorfologica, tipica dell’Africa meridionale e sita presso Epworth, in Harare, che l’intero mondo ha conosciuto a partire dal 2006, quando iniziò a fare la sua comparsa sulle banconote stampate dall’azienda tedesca Giesecke & Devrient per Gideon Gono, direttore della Reserve Bank of Zimbabwe: cento (100) triloni di dollari. Una denominazione veramente niente male, del resto, eravamo ormai alla terza versione della valuta, ricreata per tentare di arginare una svalutazione del tutto priva di precedenti nella storia dell’economia. Il fatto è che in questo paese, nel momento della crisi delle risorse finanziarie e per un’iniziativa fortemente voluta dall’ormai eterno presidente Mugabe, era stata dichiarata illegale l’inflazione. Che è un po’ come dire che si vieta all’acqua di scorrere, o alla pioggia di cadere. Inoltre lo stato, per poter saldare i molti debiti, aveva iniziato a stampare quantità spropositate di denaro, privandolo completamente di valore. Quindi sui pezzi di carta condannati fu deciso di raffigurare uno dei monumenti naturali più famosi del paese, con un voluto riferimento all’importanza del progresso, in parallelo alla conservazione dell’ambiente. Ed uno più indiretto al simbolismo della religione, degli ancestrali culti della preistoria per cui simili edifici costituivano una prova netta della divinità. Tali banconote quindi, inevitabilmente uscite di circolazione solamente tre anni dopo a seguito del comprensibile rifiuto da parte della popolazione ad acquistarle e farne uso nuovamente, dopo le truffe già subìte con il primo e secondo dollaro nazionale, sono progressivamente diventate una sorta di souvenir, offerto ai turisti per un prezzo ragionevole e che spesso vengono poi scansionate, finendo per ricomparire online. Ora, vedere un qualcosa di simile fuori dal contesto suscita in effetti una certa comicità: il singolo pezzo di carta dal valore apparente più alto del mondo, completo di filigrana e tutto il resto (è indubbio che la penultima versione del dollaro dello Zimbabwe resti la migliore) ponendo le basi del tipico meme visuale del web. Ma la vera storia che c’è dietro tutto questo, se vogliamo usare l’occhio della scienza, risulta essere primariamente di tipo geologico. Cosa sono, esattamente, le rocce in equilibrio dello Zimbabwe? Chi è stato, se qualcuno è stato, a porle in tale posizione all’apparenza carica d’intenzionali sottintesi?
Tutto ebbe inizio, come potrete facilmente immaginare, molti milioni di anni fa. Quando al volgere delle ere, nelle profondità del continente dove ebbe origine la razza umana, un enorme conglomerato di roccia ignea intrusiva, fortemente compattata dalle incalcolabili pressioni delle viscere del mondo, iniziò a venire spinta verso l’alto, per l’effetto del magma più giovane, e caldo, che causava il rimescolamento della zuppa plutoniana. Un fenomeno che prende il nome di diapiro. Come una mensola, o un ascensore industriale, tale coperchio sotterraneo e indivisibile prese a spostarsi verso la superficie, portando con se gli strati sotterranei soprastanti. In determinati punti delle vaste pianure africane, dunque, nel giro di appena qualche millennio sorsero delle alte rocce solitarie, ovvero le verticali figure degli inselberg, o rocce solitarie, chiamate in questi luoghi koppie, dalla parola olandese che significa “piccola testa”. Ma in determinati e rari casi, il più grande mutamento non aveva ancora avuto modo di realizzarsi. Perché in svariate decine di queste strutture, la pietra costituente non era niente affatto tutta dello stesso tipo. Bensì presentava un involucro esterno maggiormente malleabile, che per l’effetto del vento e delle intemperie venne gradualmente eroso, fino a lasciare esposto il nucleo solido di vero e proprio granito. O per meglio dire, i sassi l’uno sopra l’altro, tanto peculiari a vedersi, e simili ai menhir di altri luoghi e culture, da far pensare che la loro esistenza sia in effetti dovuta alla mano dell’uomo. Quando in realtà, l’unica cosa artificiale e la seguente raffigurazione…

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Le verità di Ordos, città fantasma sul confine della Cina

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L’energia economica del mondo scorre e si propaga, attraverso linee di confluenza che convergono verso i punti d’interesse dei poteri sovrani: zone d’importanza strategica, culturale, turistica, giacimenti di risorse naturali. Così quando camminando ti ritrovi al cospetto di una simile energia, è difficile che non lo noti. Nella parte settentrionale del grande paese degli Han, c’è la striscia di territorio che viene comunemente definita la Mongolia interna. Ed è qui, in prossimità del Fiume Giallo, che si estende una delle piazze più grandi del mondo, dopo Times Square e Tiananmen. Al suo centro, due stalloni rampanti si scontrano in un eterno duello, mentre altre statue dei guerrieri di Genghis Khan, riunite in un maestoso assembramento, sembrano lanciate in una folle cavalcata verso un invisibile nemico. E proprio di fronte all’atterrito sguardo, colossali ed insoliti monumenti: il Museo di Ordos, costruito nella foggia di un enorme roccia sfaccettata, o in altri termini origami dei titani. La biblioteca cittadina, la cui struttura è simile a quella di tre libri in fila su una mensola a gradoni. Strade larghe quaranta metri, nel frattempo, si irradiano a raggiera da un simile punto centrale. Ciascuna di esse potrebbe bastare ad ospitare una Parata Nazionale. Tutto è fuori scala, spropositato, nel distretto nuovo di Kangbashi, progetto finanziato a partire dal 2003 grazie alle ingenti finanze estratte da quello che viene tutt’ora definito “il Texas della Cina” per la sua ricchezza di carbone, petrolio e terre rare. Quando ci si rese conto che Ordos, città-prefettura fondata ai margini dell’omonimo deserto e ormai popolata da oltre 2 milioni di persone, non disponeva delle infrastrutture, degli spazi e soprattutto dell’acqua necessaria a sostenerle in un modo che potesse realmente definirsi, ideale. Almeno finché un tale nucleo di energia potenziale non fosse illuminato dalla luce degli appalti, e i lupi della speculazione edilizia lasciati a scatenarsi sul corpo di una simile…Opportunità.
Spostiamoci in avanti di 5 anni: i media internazionali, nella persona di una nota corrispondente locale del canale Al Jazeera, capitano “per caso” da queste parti, osservando con stupore l’esistenza di quella che sembra essere, a tutti gli effetti, una città pressoché vuota. Vasta quanto l’area di Pechino e costellata di grattacieli, con spazi adatti ad ospitare 5, 10, 20 volte l’effettiva popolazione di qualche migliaio appena, che sfreccia ai margini del campo visivo, percorrendo strade semi-vuote in lampo d’automobili brillanti sotto il sole. I marciapiedi, nel frattempo, sono totalmente vuoti. Le finestre nella notte, restano del tutto buie. L’interpretazione data dal pubblico di tali scene è tanto immediata, quanto pregna di significato: “La possente Cina, la facoltosa Cina, che negli ultimi anni ha modificato a sua immagine il meccanismo dell’economia globale, è ormai prossima allo scoppio della BOLLA. Per questo, costruisce cattedrali nel deserto.” È una narrativa così straordinariamente funzionale all’interpretazione tipica dei nostri tempi: tutto è motivato dal denaro, condizionato dall’assenza di esso, e/o nutrito fino all’estrema crescita bruciandone spropositate quantità. Questa infiorescenza fungo-edilizia tanto palesemente immotivata eppure fortemente voluta dal governo, non può avere naturalmente altra ragione d’esistenza, che la necessità di aumentare artificialmente il prodotto interno lordo, generando l’illusione di uno Yuan forte laddove la valuta in questione, molto presto, è destinata a sprofondare nell’inferno dell’iper-svalutazione. “Portandoci TUTTI…” Continuano i moderni giardinieri dell’apocalisse: “…Ad una fine inevitabile e ingloriosa!”
Eppure, eppure. Chi volesse approfondire maggiormente la questione, scoprirà qualcosa di apparentemente illogico: di ciascun appartamento su cui viene apposta la dicitura “in vendita” nel leggendario distretto periferico di Ordos, pressoché nessuno resta privo di un proprietario. La gente che vive nella città vecchia, in effetti, generalmente piuttosto facoltosa in forza del boom economico degli ultimi anni, non ha saputo trovare altro metodo d’investimento che acquistare proprietà nella presunta Metropoli Fantasma. Che dunque, quanto a lungo rimarrà tale? Forse la risposta non è poi così difficile da rintracciare. Almeno in linea di principio, l’avete udita in un celebre detto delle nostre parti: Roma non fu costruita in un giorno. Ma se lo fosse stata, ce ne sarebbero voluti comunque parecchi, a popolarla…

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Il simbolo segreto che impedisce di fotocopiare le banconote

Eurion Constellation

Sotto il segno di una buona stella: così nasce un qualsivoglia tipo di valuta, nell’ottima speranza che lo Stato, e soprattutto il popolo che l’utilizza, possa renderla preziosa con la forza del buon lavoro, di un governo solido, la sua fiorente economia. Illuminata in primo luogo dalla forza di un simile splendore, se le cose vanno per il meglio, e invece in ogni caso da un’intera e differente serie di asterischi, piccoli ed opachi, ben nascosti nella filigrana. Si, consumatori: sto parlando di un disegno astrale, o in altri termini, la tipica costellazione. Cosiddetta nel presente caso, di EURione, per la somiglianza a quella del gigante cacciatore le cui scintillanti membra, nelle notti terse dalle nubi, fanno capolino per il tramite dell’atmosfera del pianeta. Ma la cui versione cartacea e monetaria restò estremamente poco nota al grande pubblico, almeno fino a quando lo scienziato informatico Markus Kuhn, alle soglie del 2002, si mise a fare esperimenti con la sua possente Xerox a colori. Scoprendo presto che qualsiasi tentativo di inserirvi delle banconote, per ottenerne una versione “fatta in casa” da impiegare a fini non del tutto chiari, portava soltanto alla fuoriuscita di un inutile foglio totalmente nero. Quando si dice, funzioni non documentate! Persiste ancora in determinati ambienti, in effetti, questa concezione del secolo scorso, per cui determinate funzioni di sicurezza incorporate nella vita di tutti i giorni dovrebbero essere ignote all’utente finale, che non deve sapere né preoccuparsi, ma soltanto trarne un beneficio sostanziale ed indiretto. Ma le banconote…Semplicemente non POSSONO essere così.
La stessa Banca Centrale Europea, negli ultimi anni, ha creato e gestisce un sito mirato a pubblicare una disanima dei suoi ultimi capolavori, tra cui l’avveniristico titolo di valuta dei 20 € della “Nuova Serie Europa” in circolo dal 2013, con stampa ad intaglio per creare effetti di rilievo, filo di sicurezza con incorporata denominazione, speciali inchiostri in grado di reagire all’infrarosso e una ricca quantità di filigrane. Mentre la stessa immagine di Europa la figura mitologica, madre del re Minosse di Creta, compare in trasparenza in una piccola finestra a lato della composizione, rigorosamente conforme allo stile Gotico del resto della scena (le nostre attuali banconote, se per caso non doveste averlo mai notato, sono ciascuna dedicata ad un specifica era dell’arte e dell’architettura). Eppure, nonostante tutto, nel portale citato non si accenna in alcun modo alla questione famosamente sollevata da Kuhn. Perché alcune macchine fotocopiatrici, per non parlare dei più famosi programmi di grafica, si rifiutano categoricamente di accettare l’immagine di tutte le principali banconote del mondo? O per meglio dire, come fanno a riconoscerle? La risposta è in un particolare pattern, che vi ricorre con costanza ineccepibile, per passare inosservato ai nostri occhi, e non invece a quello delle macchine, molto più attente. Nei nostri 20 € presi ad esempio, è una letterale serie di stelline, disseminate in corrispondenza della caratteristica curvatura sfumata che attraversa il numero più grande della banconota. Ma può presentarsi in molti altri modi: nei dollari è prefigurato negli zeri della denominazione ripetuta ad infinitum sul fondale, in prossimità del volto di questo o quel particolare padre fondatore della Nazione. Nei vecchi 10 € con la mappa, si trattava d’immaginarie e poco visibili isolette nascoste tra il Mediterraneo e il Mare del Nord. Nelle 5 sterline con la regina Elisabetta II da giovane, le stelle ricompaiono sospese come nel tuorlo di un uovo astratto a fianco del suo volto, oppure una giganteggiante impronta digitale.
Sono ovunque e noi non le notiamo, come del resto avviene con molte delle caratteristiche più avanzate della carta moneta, a meno che il nostro lavoro non ci porti a maneggiarla particolarmente spesso. Mentre di nascosto, i cinque tondini proteggono la sicurezza dei nostri SOLDI…

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Strade nella polvere: lo scheletro della città disabitata

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I locali la chiamano la second community, ovvero in altri termini, una città oltre gli spazi abitativi ma totalmente conforme alla loro invisibile presenza. Fatta di tragitti attentamente designati, che conducono a perdersi in mezzo alle sabbie del Mojave. Se visualizzati grazie all’occhio della mente, interi quartieri paiono configurati sullo schema del tipico sobborgo americano, con villette a schiera, strade ordinate e una gremita zona per gli acquisti, connotata dalle voci di famiglie in festa poco prima il giorno di Natale. Ma dal punto di vista propriamente detto, in questi luoghi ci sono soltanto polvere, qualche casa rovinata, occulti nidi di scorpioni. Oltre il concetto della proverbiale cattedrale nel deserto: un’intera città, sperduta, lì.
L’aspetto maggiormente trascurato nella concezione Europea degli Stati Uniti è la quantità di spazi vuoti che compongono quel vasto territorio, fatto indubbiamente, delle grandi metropoli più celebrate, come New York, San Francisco, Los Angeles… Ma anche di chilometri e chilometri di un assoluto ed assolato nulla. Per chi vive in quegli ambienti, ciò è un assunto pressoché essenziale della vita stessa: trasferirsi per lavoro non significa il più delle volte, cambiare quartiere, o prendere in affitto una casa a qualche centinaio di chilometri dalla propria dimora nascitura; bensì imbarcarsi su un aereo, per raggiungere un luogo che si trova alla distanza equivalente da Parigi-Mosca, o Berlino e Madrid. Soltanto così può trarre l’origine quel fenomeno tipicamente americano, ma che in questi ultimi tempi sta prendendo piede pure in Cina, di definire uno spazio arbitrario come pietra angolare di un’intera metropoli, poi chiamarla tale, almeno sulla carta, ed aspettare che la gente giunga a costruire case, pompe di benzina, centri commerciali…Una vera e propria trasformazione del territorio, in cui l’investimento di partenza agisce come una scintilla, finalizzata a scatenare l’incendio del mercato immobiliare. Il che descrive per sommi capi, incidentalmente, l’opera compiuta a partire dagli anni ’60 dall’imprenditore cecoslovacco naturalizzato americano Nathan (Nat) K. Mendelsohn, originariamente un sociologo e professore all’università newyorkese di Columbia, poi trasformatosi nel profeta economico di quella che doveva diventare, nella sua visione, ovvero una nuova singola città più grande dello stato.
Si, ma come? Non è esattamente chiara alle cronache, per lo meno quelle internettiane, dove l’uomo avesse trovato i 500.000 dollari necessari per acquistare nel 1958 dal governo 82.000 acri di deserto siti a 100 miglia a nord di Los Angeles, poco più del doppio a sud ovest di Las Vegas, dopo aver notato durante un viaggio d’intrattenimento come il ranch locale di M&R disponesse di nove pozzi artesiani, i quali miracolosamente non esaurivano mai l’acqua. Mentre sappiamo molto bene, ciò che venne immediatamente dopo: una campagna pubblicitaria spietata, a mezzo stampa e radiotelevisivo, mirata a presentare la nascente California City come il segno e il passo del futuro. “Approfonditi studi demografici hanno dimostrato che la popolazione della California è destinata a raddoppiare (quadruplicare, triplicare…) nel corso di un paio di generazioni. Acquistare un terreno qui, adesso, significa mettersi sulla strada del futuro!” Verso il mese di marzo di quello stesso anno, il progetto iniziò a prendere forma. Procuratosi l’aiuto dell’esperto pianificatore urbanistico Wayne R. Williams, Mendelsohn fece tracciare il disegno di una vera e propria città modello, con scuole, biblioteche, musei e ogni altro possibile servizio a vantaggio di un luogo concepito dichiaratamente a misura d’intellettuali. Le strade portavano il nome di scienziati e filosofi, oppure grandi industriali, mentre ampi spazi erano già stati designati per parchi e zone verdi, che sarebbero stati irrigati grazie alle corpose falde acquifere con origine sotto i monti della vicina Sierra Nevada. I primi 876 lotti furono quindi messi in vendita, durante il mese di maggio, venendo esauriti nel giro di pochi giorni. Ma questa non era che una parte minima, del totale territorio acquisito dal sognatore cecoslovacco. Considerando come il valore medio per un appezzamento abitativo si fosse riconfermato sul mercato come pari a circa 1.000 dollari cadauno, potrete facilmente comprendere l’enorme potenziale commerciale della cosa.
A quel punto, il limitatore del marketing fu delicatamente rimosso, per non dire scardinato con furia dal possente desiderio di veder crescere dal nulla il fiore metropolitano: tra giugno e dicembre, con l’apertura alle offerte per altri 427 lotti, seguiti dalla rapida approvazione della contea di Kern per altri 900, interi pullman di potenziali acquirenti furono guidati fino al sito di California City, con tutte le spese coperte dalla compagnia di Mendelsohn, mentre addirittura un grosso aereo DC-3, ospitante al suo interno alcuni tra gli investitori maggiormente fortunati, venne fatto atterrare in mezzo al deserto, presso il sito stesso del futuro centro cittadino. Venne quindi donato un terreno a quella che sarebbe diventata la prima scuola elementare, mentre si stendevano i cavi della luce e sotterravano i tubi dell’acqua sotto il suolo del deserto stesso. Entro la fine dell’estate, prevedibilmente, alcune case iniziarono timidamente ad essere costruite. Pensate a quel momento topico, nella costruzione virtuale di un insediamento all’interno di videogiochi alla Sim City, quando avete già disposto le strade del vostro primo vicinato, collegato i servizi fondamentali e designato zone verdi (residenziali) azzurre (commerciali) e gialle (industriali). Quando, se tutto è stato fatto correttamente, gli edifici inizieranno a sorgere in modo spontaneo, spinti da quell’inarrestabile forza generatrice che è l’edilizia a conduzione privata. Oppure, non succede assolutamente nulla e voi finite in bancarotta per le spese, nel giro di 10 minuti trascorsi a velocità iper-accelerata.

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