Angusto, stretto, buio. Privo di qualsiasi prospettiva di ritorno. Mentre le pareti cuoiose si stringevano attorno ai fianchi e la testa, e la pinna, e la coda, il malcapitato essere si chiese come avesse fatto per finire in questa situazione. Da dove, ed in che modo, il suo torturatore fosse scaturito all’improvviso, avviando l’iter degli eventi che a tutti gli effetti, avrebbe presto condotto alla sua irrimediabile dipartita. “Ma un pesce non ha certo alcuna cognizione della sua mortalità” pensò lo Sternoptychidae con l’alta pinna e il corpo segmentato: “Quindi perché mai dovrei preoccuparmi?” Il suo mondo, adesso, era ormai quello e ad ogni modo, presto le cose avrebbero trovato il modo di migliorare. Per un attimo, come all’apertura di una possibile via d’uscita, s’intravide innanzi un tiepido bagliore.. Proveniente dall’imbocco, se non vogliamo usare il termine specifico di “bocca” del padrone della camera pulsante, colui che aprendola e chiudendola, riusciva a controllare il fato degli sventurati nuotatori abissali. Mentre come sbarre alle finestre, gli appuntiti denti piegati all’indentro ricordavano al malcapitato l’ora esatta del suo ultimo capitolo, già cominciato. Senza luce, senza fiato, senza spazio per aprire le sue branchie, per qualche ultimo minuto di coscienza egli pensò: “Se SOLTANTO almeno una volta, avessi potuto cogliere il suo sguardo, guardare negli occhi il mio carnefice, chiedendogli il nome…”
Chiasmodon niger: se lo conosci lo eviti, se lo incontri, cambi strada e vai dall’altra parte perché dopo tutto, nel profondo dell’oceano a 700-2.500 metri, che differenza vuoi che possa fare? Sebbene come lascia presagire il nome, non sia facile riuscire a scorgerne la forma nei recessi tanto remoti dell’altissima colonna marina, ove i flutti confluiscono in un Maelstrom e le scie svaniscono, come la coda di una cometa in una sera oscurata dalle nubi. Così egli piomba, sfruttando l’agilità superiore alla media concessa dalle lunghe pinne pettorali e quella coda con tanto di spina velenosa, sulle prede inconsapevoli, iniziano efficientemente a fagocitarle. Ora se dovessimo giudicare il pesce ingoiatore sulla base di ciò che mangia, un po’ come vorrebbe lo stereotipo, penseremmo di aver parlato fino ad ora di un piccolo squalo o equivalente predatore, vista la dimensione degli esseri che gli riesce d’inserire all’interno del suo corpo relativamente allungato. Fino a 86-100 cm di bestie, consumate a fronte di un laborioso sistema di slogatura reiterata della mascella, con avanzamento di pochi centimetri alla volta lungo l’estensione di quegli scagliosi corpi o spuntini dell’ora di cena. Questo perché l’astuto e temibile anti-eroe, nella realtà dei fatti, possiede una lunghezza massima di circa 25 cm pari a quella di un sovradimensionato pesce rosso, cionondimeno sufficiente a trangugiare esseri che superano di fino a quattro volte la sua complessiva capacità di spostare l’acqua durante una placida nuotata verso arcane destinazioni. E come ciò possa succedere non è difficile giungere a capirlo, nel momento in cui osservando dal basso l’affamato dominatore riesce ancora possibile apprezzare facilmente l’intera sagoma di ciò che ha catturato attraverso la membrana semi-trasparente di ciò che potremmo paragonare, senza particolari dubbi, all’effettiva forma di un pallone da basket o volleyball di una tipologia particolarmente inquietante. Non che tale scena debba in alcun modo apparirci strana ed innaturale, essendo essa stessa una diretta risultanza del sistema evolutivo della natura…
evoluzione
Verme repellente con la bocca di serpente. Un anfibio, veramente?
É del 3 luglio l’articolo pubblicato sulla rivista scientifica iScience recante orgogliosamente il titolo: “Prova morfologica di un sistema velenoso orale negli anfibi àpodi” o per lasciare il termine usato in lingua inglese usato dai ricercatori delle università di San Paolo (Brasile) e dello Utah (Salt Lake City), i caecilians dalla parola latina caecus, non-vedente. Esseri talmente difficili da osservare ed assenti da un qualsiasi contesto geografico in qualche modo riconducibile all’Europa, da possedere soltanto il nome scientifico nella maggior parte delle lingue del pianeta Terra. Ma tutt’altro che rari, nei loro ambienti d’appartenenza; questo per l’adattamento pressoché perfetto ad occupare una nicchia tra le più continuative dell’intero sistema ecologico mondiale, quella situata nel sottosuolo di gallerie auto-prodotte dall’animale stesso, grazie all’impiego del teschio affusolato dalla forte mandibola scavatrice. E cosa importa poter distinguere con lo sguardo, a quel punto, null’altro che la tenebra dalla luce? Per queste creature dotate di numerose prerogative composite tra cui l’aspetto generalmente riconducibile a quello di serpenti dagli occhi piccoli e sottocutanei, ma dotati di pelle segmentata ad anelli come i lombrichi e una dentatura da serpente usata secondo i ricercatori per nutrirsi di artropodi, anellidi, nematodi ed altri simili abitanti del territorio di caccia scelto, per lo più nel corso di orari notturni. Ciò che unicamente tradisce la loro vera appartenenza allo stesso gruppo tassonomico di salamandre, rane e rospi tuttavia, è la pelle ricoperta da una secrezione scivolosa finalizzata, nel caso specifico, a facilitare lo scorrimento all’interno dei tunnel da pochi centimetri di diametro. Nonché dotata, nel caso di molte delle specie suddivise tra Sud America, Africa mediana e Sud-Est Asiatico, di una certa quantità di componenti velenosi e tossici, sufficienti a scoraggiare la fame di un qualsivoglia eventuale predatore.
Ciò che Mailho-Fontana, Antoniazzi, Jared e il loro collega statunitense “Butch” Brodie Jr. hanno per la prima volta trattato nel loro lavoro collaborativo tuttavia, è la significativa scoperta della presenza di ghiandole in corrispondenza dei denti di queste creature, usate con tutta probabilità per secernere un qualche tipo di saliva velenosa valida a paralizzare, o persino uccidere la preda di turno. Il che risulterebbe, una volta dimostrato al di là di ogni possibile dubbio, straordinariamente significativo proprio perché nell’intero corso dell’evoluzione a noi nota, nessun tipo di anfibio ha mai posseduto questo particolare approccio alla caccia ed al sostentamento della sua specie. Oltre ad avere molto senso in un’ottica di evoluzione convergente, soprattutto quando messo in relazione con un altro animale morfologicamente simile, il serpente, per cui l’assenza di arti o armi oltre alla semplice bocca ha motivato questo adattamento strettamente associabile alla necessità di colpire con essa in maniera il più possibile letale. Mentre le implicazioni, da un punto di vista della storia biologica, non possono che risultare ancor più significative…
La storia delle rocce che sviluppano la fotosintesi clorofilliana
É il ritorno di un qualcosa che, in un certo senso, non se n’era mai andato: tra le acque di laghi dell’Australia Occidentale, poco popolati di pesci, molluschi o altre creature, hanno dato forma al proprio profilo attraverso gli ultimi millenni alcuni strani ed irregolari oggetti. Fossili viventi in più di un senso, poiché non solo assomigliano nei fatti ad un qualcosa di mineralizzato ed oramai immutabile, ma continuano ostinatamente a respirare. Agglomerati di materia calcarea, quindi assai chiaramente non vivente, al cui interno si nasconde tuttavia una scintilla senza occhi, bocca o un qualsivoglia tipo di cervello. Il cui fondamentale desiderio, imperturbabile, viene perseguito con entusiasmo: dar seguito alla propria genìa, dall’interno d’inespugnabili e antichissimi castelli che crescono 5 cm ogni 100 anni, definiti scientificamente stromatoliti (dal greco “rocce a strati”).
Un corpo astrale ruota attorno alla sua stella ricevendo in alternanza luce, radiazioni, energia. Ma non è solo ciò a determinare, nel ripetersi di questa fase ininterrotta, il tipo di trasformazioni che caratterizzano la sua esistenza. Mentre letterali miliardi di cellule, sfruttando l’opportunità proficua, si combinano e producono esseri complessi. Le creature che, da un punto di vista cosmico, esistono soltanto per creare dei problemi: riscaldamento terrestre, effetto serra, polveri sottili. Ciò che ha prodotto un possibile punto d’arrivo per l’insieme complessivo degli esseri eucarioti, questa perennemente insoddisfatta razza umana, non ha pari nella storia (recente) della natura. Le cose cambiano, di contro, qualora si diriga la nostra lente verso i territori degli albori, l’esistenza prima del concetto stesso di secoli o millenni: 4.000 milioni di anni fa, periodo Archeano. Il suolo instabile dei continenti, ormai raffreddato, è una vera e propria giungla primordiale di microrganismi, ricoperta dei batteri procarioti che, un giorno, avrebbero imboccato la strada senza ritorno dell’evoluzione. Almeno quelli che, tra loro, si sarebbero dimostrati capaci di un certo livello di adattamento. Poiché una classe, su tutte, domina il sistema ecologico di pianeta ancora totalmente anaerobico, ovvero privo di ossigeno. Sto parlando dei bluastri, immobili e cionondimeno operosi cianobatteri, la cui stessa presenza non avrebbe continuato a permettere una simile contingenza di fattori. Gradualmente, progressivamente, la luce penetra lo spesso strato di quel gas metano che, all’epoca, dominava la nostra atmosfera. Mentre questi letterali antenati del concetto contemporaneo di alga, dando seguito al processo che costituisce per loro il sinonimo stesso della respirazione, iniziarono a produrre ciò di cui oggi noi, lontani discendenti di un ramo parallelo, abbiamo un assoluto bisogno per continuare il percorso della nostra lunga e travagliata civiltà. Così l’ossigeno, come la fissione atomica dell’era nucleare, fece la sua comparsa all’interno di un sofisticato laboratorio, in questo replicato letterali milioni di volte all’interno dell’oceano senza pesci. Finché non si raggiunse, nel corso di una svolta imprescindibile, l’evento di trasformazione atmosferica noto come Grande Evento Ossidativo, databile a circa 2.450 milioni di anni fa, quando tutto il ferro contenuto negli oceani iniziò, istantaneamente, ad arrugginire.
Pescando per caso il secondo pagliaccio più colorato dei mari
Che il mondo sotto l’oceano sia un territorio inesplorato d’innumerevoli meraviglie è stato più volte provato non soltanto dall’esplorazione diretta ma da opere creative come Finding Nemo della Pixar, in cui un vasto ventaglio di specie ittiche e non solo è stato utilizzato come base per il design di personaggi al tempo stesso fantasiosi, variopinti e scientificamente corretti nel rappresentare le proprie famiglie d’appartenenza. Un discorso facilmente espandibile, questo, mediante l’ampliamento di tale processo creativo ad ambienti ulteriori oltre al centro luminoso di quella diva letteralmente visitabile negli abissi, l’ammirata, popolosa, sempre minacciata barriera corallina. Come ad esempio le pietrose coste dell’isola di Zamami, prefettura giapponese di Okinawa, dove il titolare del celebre canale di pesca Fishing Gang Azusa si è trovato compiere un’escursione armato dell’inseparabile canna (ma niente cappello di paglia come l’iconico Sanpei) che l’avrebbe condotto, senza particolari indugi, verso uno dei suoi video virali di maggior successo online. Il tutto a partire da un post di Twitter in cui figura, il volto coperto con bandana anti-Covid e occhiali da sole, mentre tiene in mano il pescato più fantastico di una buona parte della sua intera carriera online. Al culmine di una giornata ragionevolmente prevedibile, in cui il precedente successo di maggior conto era stato uno snapper imperatore (Lutjanus sebae) dalla lunghezza di circa 40 cm, subito diligentemente ributtato in acqua. Per estrarre dal mare quindi, dopo alcuni minuti di suspense, la creatura in grado di far esclamare ai suoi due compagni di avventura: “Ma è vero o soltanto un giocattolo?” E un ancor più sintetico e meta-referenziale: “Nintendo Splatoon”. L’essere esposto al digitale ludibrio si presenta in effetti come un pesce di dimensioni comparabili al collega ma caratterizzato da una colorazione cangiante azzurra, celeste, verde ed a strisce rosa, capace di sviluppare un disegno che non sfigurerebbe in alcun modo sopra l’ala di una farfalla. La luce del sole diretta dall’alto contribuisce a enfatizzare, inoltre, tale armonia priva di precedenti, dimostrando senza ombra di dubbi che il bello rimane tale senza limiti di contesto, accrescendo piuttosto se stesso nel momento in cui viene trasferito in situazioni fuori dal suo quotidiano. “Si tratta di un kinubella/kinubera” esclama quindi il più esperto Azusa, mentre già si appresta, secondo il comportamento del più etico pescatore sportivo, a restituire anche questo magnifico abitante al suo luogo di provenienza originario. Utilizzando il nome comune giapponese di quello che gli anglofoni definiscono Surge wrasse da un antico termine gaelico che significa “vecchia signora” e gli scienziati con l’espressione latina Thalassoma purpureum, un riferimento alla livrea sgargiante che nella maggior parte delle situazioni non sembrerebbe, in effetti, dotarlo di grandi presupposti mimetici validi a incrementare le sue possibilità di sopravvivenza. Ma piuttosto la capacità di spaventare i (molti) nemici attraverso un’eccessiva visibilità, teorico sinonimo di un contenuto tossico o velenoso. Nessuno di tali preconcetti, tuttavia, risulta effettivamente riconducibile nei confronti di questo pesce per molti versi sorprendente…