La leggenda dell’orribile balena carnivora che infestava le montagne del Colorado

Era una mattina di lavoro intenso sulle pendici dell’ombrosa montagna di Evans, tra pini e abeti di un’antichità imponente, destinati a diventare materiali per la costruzione di edifici nei quartieri più pregevoli dell’entroterra statunitense. Il nutrito gruppo di due dozzine di boscaioli, sotto la supervisione del professionista veterano John Stephens, si spostava con un ritmo collaudato da una radura a quella successiva, seguendo la precisa procedura frutto di una logica efficiente. Taglia, rimuovi i rami, carica sopra la slitta di trasporto trainata dai cavalli. Taglia, rimuovi e carica. Sudore, fatica, impegno quotidiano. Cosa si può chiedere di più in campo professionale, della soddisfazione di un lavoro ben fatto? Questo pensavano la maggior parte dei partecipanti alla spedizione, durante l’ora di sosta al volgere del mezzogiorno, radunati attorno alle vivande di un rapido ma energizzante pasto a base d’insaccati e formaggio. Non senza dimenticarsi, ovviamente, di posizionare un paio di vedette ai margini dell’accampamento, al fine di controllare i sentieri d’accesso per movimenti sospetti da parte di membri delle tribù degli Ute, ultimamente inclini a gesti vendicativi ed occasionali dispetti nei confronti dei visitatori pacifici all’interno delle loro terre. “Qualche tronco? E cosa sarà mai?” Subvocalizzò Stephens, pensando tra se e se all’assurdità di un mondo in cui le necessità della natura dovessero venire prima di quelle del progresso e della modernità civilizzatrice. E fu proprio quello il momento, grosso modo, in cui un grido di allerta risuonò a monte della congrega, a causa dell’improvviso sollevarsi di un gruppo di poiane più in alto sulle pendici del massiccio montano. “All’erta, signori, armatevi e restiamo in attesa…” Fece appena in tempo a gridare il vice-capo della spedizione, tirando già fuori il suo fucile dallo zaino, quando un rombo di tuono a ciel sereno sembrò spaccare a metà la quiete della foresta. Come per l’inizio di una frana dalla portata imponente, tale da spezzare alberi, spostare grandi masse di terra e disintegrare ogni residuo presupposto di presenza umana in questi luoghi distanti. “Non si tratterà… Non avranno osato…” Tentò di gridare Stephens al suo secondo, ma almeno in apparenza era già troppo tardi. Una massiccia forma scura iniziò a sollevarsi oltre la frondosa linea della canopia. Come un sacco di patate oblungo, delle dimensioni di quattro locomotive affiancate e poste una di sopra all’altra. Incredibilmente caratterizzato da un vasto buco nero nel suo punto frontale, che soltanto ad un’analisi più approfondita si sarebbe rivelato essere una bocca spalancata con piccoli denti aguzzi simili a quelli di uno squalo, sopra cui due occhietti piccoli osservavano voraci le invitanti forme paralizzate da una sorta di panico inusitato. Fu allora che Stephens, reagendo con riflessi che non sapeva di avere, si gettò in maniera fulminea da una parte, mentre il mostro procedeva a un ritmo estremamente rapido verso il centro esatto del suo gruppo di sottoposti. Con un nitrito spezzato a metà, i primi a sparire furono i cavalli. Ben presto seguìti da circa il 75% dei taglialegna umani, trangugiati come fossero spaurite aringhe sulla strada di un barracuda. Mentre gli passava accanto, senza fermarsi, senza voltarsi dalla sua parte, l’uomo vide quella pelle ruvida e coperta di bitorzoli, mentre sassi e pietre smosse dal gigante minacciavano di trascinarlo dietro la sua scia umida ed appiccicosa. Prima di perdere i sensi, gli riuscì di pronunciare solamente un paio di parole: “S…Slide-Rock Bolter, Dio mi è testimone…”

Leggi tutto

L’improbabile campana da immersione che anticipò di quattro secoli lo studio delle Navi Romane

Nel 1926 una commissione costituita dal governo italiano, al comando dell’ingegner Corrado Ricci, affronta finalmente col criterio necessario la complessa faccenda. Al cospetto della quale per molti secoli, attraverso una serie di diversi approcci più o meno scientifici, generazioni successive di tecnici e archeologi avevano fallito miseramente: come riportare in superficie, finalmente, le due chiatte di epoca romana attribuite all’imperatore Caligola, da lungo tempo inabissate nelle acque del lago vulcanico di Nemi? Così vicine all’affollata capitale, che nei secoli tanto discusse e celebrate, che a più riprese erano state saccheggiate, danneggiate e parzialmente distrutte da maldestri tentativi di recupero, tra cui il sollevamento tramite galleggianti, gru portuali, semplice energia muscolare di persone ed animali. Finché non venne piuttosto deciso, in maniera molto semplice e diretta, di far defluire l’acqua dagli antichi canali d’irrigazione, lasciando che fosse la possanza gravitazionale del pianeta stesso ad occuparsi del resto. Ma se ci spostiamo con la mente lungo un tragitto ideale conduttivo fino a quel fatidico momento, attraverso i tanti cercatori che tentarono le auspicabili vette di gloria, sarà facile individuare come un punto di svolta quello in cui divenne finalmente chiara l’effettiva dimensione dei suddetti vascelli, misuranti esattamente 71×20 e 75×29 metri. Grazie all’impresa certamente coraggiosa, nonché stranamente avveniristica, di un celebre alpinista, militare e avventuriero italiano.
Francesco De Marchi, nato a Bologna nel 1504, aveva partecipato in prima persona alla battaglia di Pavia del 1525 e l’assedio di Firenze del 1529-30. Erudito autore di trattati, elaborò estensive di tecniche di fortificazione oltre che di filosofia e scienze naturali, approfondendo il concetto d’eruzione vulcanica e visitando direttamente svariate grotte e molte vette montuose d’Italia. Molto prima di raggiungere per primo la cima del Gran Sasso per la cosiddetta Via Normale nel 1573, il suo interesse sembrò dirigersi per breve tempo nei confronti del grande mistero laziale, portandolo ad avventurarsi negli abissi tramite l’applicazione di un’innovativa, quanto rischiosa tecnologia. L’impresa costituisce uno di quei corollari a un fatto storico di rilievo, normalmente menzionati in poche righe senza significativi spunti d’approfondimento negli articoli e le trattazioni di rito. Eppure se vogliamo prendere alla lettera il suo resoconto, descritto estensivamente nell’opera “Dieci libri sull’architettura civile”, l’effettiva metodologia impiegata sarebbe risultata in significativo anticipo sul progresso largamente noto di quel genere di tecnologia, che vede la prima campana d’immersione in senso moderno come un prodotto dell’astronomo Edmund Halley (quello della cometa) nel 1714. Questione da trattare rigorosamente col condizionale, s’intende, poiché il De Marchi racconta espressamente di aver giurato all’inventore del dispositivo in questione, un certo Guglielmo di Lorena che partecipò anch’egli all’impresa, l’assoluta segretezza nei confronti dei contemporanei e posteri futuri. Benché dal contesto e dalla situazione in essere, oltre ad un curioso aneddoto collaterale, sia possibile intuire almeno in parte l’effettiva natura della verità…

Leggi tutto

Il nido del cuculo che protegge dalle vipere i giardini dell’Asia Meridionale

Il sergente Cuff, famoso detective al servizio di Scotland Yard, fece un passo all’interno della stanza di Rachel Verinder, la giovane nobildonna che aveva appena terminato di festeggiare il suo ventesimo compleanno. Con un’espressione accigliata guardò prima la finestra al terzo piano dotata di sbarre, quindi la pesante porta d’ingresso che ogni persona coinvolta gli aveva garantito, era rimasta chiusa fin dal termine del ricevimento. “Signore, deve credermi: la preziosa pietra indiana che indossavo la sera scorsa era stata posta al sicuro sopra il mio comodino. Nessuno avrebbe potuto entrare in questa stanza senza scassinare la porta e come ha avuto modo di vedere, la serratura era intatta.” Terminato il giro, raccolte attentamente le idee, l’investigatore passò quindi in rassegna i servi della magione appartenente alla madre della ragazza, vedova dalle risorse finanziarie niente affatto indifferenti. L’oggetto in questione tuttavia, incorporato in un gioiello proveniente dalla remota città di Seringapatam, era una proprietà del colonnello Herncastle, fratello di Rachel con cui Cuff si era già confrontato all’inizio del suo sopralluogo. Persona alquanto sgradevole e superba, il cui orgoglio appariva pari soltanto alla soddisfazione di aver sottratto un oggetto sacro dal tempio locale dedicato a Chandra, Dea della Luna. “Non c’è ragione di credere che alcuno dei presenti abbia compiuto il gesto.” Spiegò quindi l’uomo, dopo aver escluso i suoi principali sospetti in merito al maggiordomo e la seconda cameriera, tra le velate proteste dei padroni di casa. Quindi, dopo una breve pausa ad effetto, indicò verso la porta che conduceva in giardino. “Fossi in voi, piuttosto, manderei qualcuno a controllare in mezzo agli alberi in giardino. Credo che il colpevole abbia nascosto la gemma all’interno della sua casetta di rami e sterpaglie simile a una cesta intrecciata…” Stupore, perplessità tra i presenti, quindi un’improvvisa esclamazione di sorpresa. Quando il baldanzoso uccello nero e marrone, con la forma approssimativa di un grosso corvo e gli occhi rossi come la fiamma di un camino, varcò la soglia socchiusa del salone d’ingresso, per emettere una serie di suoni dal profondo carico d’evidente rimprovero: “Coo, coo; coo, coo” espresse con fare disinvolto, ovvero [questa storia è durata abbastanza] “Coo; coo, coo, coo” [La mia Signora esige soddisfazione] “Coo!” [Il suo simbolo, o sibilanti esseri, dovrà tornare da dove era venuto.] Quindi il messaggero provenuto da possibili narrazioni parallele sollevò il grosso e appuntito becco, del tutto indifferente alle ragioni dell’intreccio di quello che all’insaputa di tutti, sarebbe diventato il primo romanzo giallo della storia. E spalancando le sue ali, si voltò e sollevò in volo, non senza una certa pesantezza di movenze mentre già sbiadiva pallido nella diffusa luce notturna. Ne aveva avuto abbastanza, dopo tutto, di questi “Inglesi”.
Agili, d’altra parte, non sono. Né particolarmente eleganti, sebbene dotati di una certa grazia innata donatogli dai propri inconoscibili trascorsi evolutivi. I cosiddetti cuculi fagiano, il cui esponente prototipico è il Centropus sinensis o cucal maggiore, vista tutt’altro che comune, per non dire del tutto improbabile, negli immediati dintorni della grande città di Londra. Ma piuttosto frequente in tutta l’India, il Sud-Est Asiatico e il vasto arcipelago dell’Indonesia, vantando un areale impressionante di oltre 6 milioni di chilometri quadrati pari a circa un quinto dell’intero Vecchio Mondo, sebbene siano pochi a poter dire di saperlo riconoscere da questo lato della penisola d’Arabia. Una creatura giudicata fin da tempo immemore portatrice di presagi, col suo richiamo gutturale vagamente simile a quello di un gufo, e il contegno predatorio che la porta a proteggere ferocemente i territori scelti come proprio terreno di caccia. Entro cui razzolare, per non dire pattugliare con la più assoluta inflessibilità, ogni recesso potenzialmente occupato da vermi, insetti, piccoli mammiferi e rettili non altrettanto piccoli. Essendo largamente comprovata, e talvolta anche sfruttata dall’uomo, la ben nota predilezione del volatile per la carne di serpente…

Leggi tutto

Crolla tra le fiamme in Russia il gran castello apotropaico del Covid

A fronte dell’introspezione retroattiva ed approfondite analisi oggettive, non sussistono particolari dubbi: per chi lavora tutti i giorni da un progetto, sia di tipo artistico che funzionale ad uno scopo logico e risolutivo, la figura crudele ed imponente del demonio trova posto nelle più incrollabili minuzie, tutti quei dettagli che costituiscono gli ostacoli, attraverso vie tortuose, per il raggiungimento dell’obiettivo finale. Ma secondo Nikolay Polissky, l’artista russo che nasce come pittore a Mosca e si realizza a partire dal 1989 costruendo il Villaggio di Babele presso la comunità di Nikola-Lenivets nella regione di Kaluga, il Diavolo alberga anche nel quadro generale delle cose. Quella condizione, prolungata e opprimente, che ha portato le nazioni a chiudersi come le foglie di una felce, posta sotto assedio dall’assalto reiterato di un qualcosa di minuscolo e insistente. Sanguinario; sferoidale; bitorzoluto; capace di proteggere se stesso oltre ogni limite apprezzabile dagli apprezzabili confini del raziocinio. “Come un re cannibale sopra il suo trono” afferma nelle sue interviste, girate dalle agenzie internazionali, riferendosi forse alla figura folkloristica di Koschei, l’antagonista d’innumerevoli fiabe pre-cristiane, che nascondeva la sua anima in un ago, contenuto all’interno di un uovo, trasportato in cielo da un’anatra capace di sfuggire ai cacciatori. Horcrux dall’alto del quale, come altri stregoni oscuri dei nostri tempi, era solito opprimere la popolazione, rapirne i figli e le figlie, ampliando i confini del suo terribile dominio. Almeno finché un eroico bogatyr, il “guerriero itinerante” della tradizione slava, non giungesse fino all’ingresso della sua torreggiante residenza; armato di una torcia magica, per arderla fin quasi dalle fondamenta nascoste nelle profondità del mondo.
Una visione apocalittica, e catartica, quella offerta da una simile visione, che si vive nuovamente ogni anno in occasione della quaresima ortodossa, tramite la festa popolare della nostra signora Maslenitsa o “settimana del burro”. L’ultimo momento di svago senza la precisa disciplina imposta dalla tradizione, quando il popolo s’incontra celebrando ciò che è stato un tempo, fino all’evento culminante della costruzione, e successiva distruzione, di un’effige in rami e sterpaglia secca rappresentante i molti tentacolari mali della nostra Era. Ma c’è un qualcosa di diverso, e proporzioni decisamente maggiori, nell’annuale interpretazione offerta di tale pratica presso il regno dell’artista Polissky, come esemplificato dalle riprese in campo lungo dello spaventapasseri in questione, in realtà configurato nello specifico come un vero e proprio edificio alto 25 metri. Con tre torrioni disposti attorno ad uno spazio centrale, appuntiti come lame di altrettante spade, lungo cui risalgono le fiamme tramite l’espletamento di un copione ben preciso. E di certo, qualcuno potrebbe intravedere in tale prassi l’ispirazione diretta sulla base del festival statunitense del Burning Man, le cui installazioni effimere secondo il metodo espressivo della land art ritrovano del resto corrispondenza nelle molte meraviglie costruite presso il parco di Nikola-Lenivets. Ma c’è qualcosa di molto più personale, ed a suo modo pregno, nella precisa interpretazione offerta di quei modelli presso l’innevato spazio del momento corrente, ricolmo per l’occasione di uno sguardo carico d’ottimismo verso il futuro ancora oberato d’incertezze. L’alba di un nuovo giorno, in cui il calore dell’astro solare si accompagni a quello della forza naturale sottomessa al volere dell’uomo, quel fuoco per sua massima eccellenza, che è trasformativo ed a suo modo altrettanto fecondo. Perché carico di un profondissimo significato ulteriore…

Leggi tutto

1 3 4 5 6 7 9