Oh, Grande Spirito di tutte le belve, concedimi l’abilità di abbattere il possente erbivoro. La scaltrezza di aggirarlo e tendergli una trappola. La resistenza per corrergli dietro attraverso le ondeggianti distese della savana. OPPURE, molto semplicemente, la faccia tosta e forza bruta necessaria al fine d’intromettersi tra cacciatori molto più efficienti e il loro lauto pasto, perché il furto si trasformi in un pilastro stesso della mia esistenza. Anche a discapito dell’opinione che il mondo potrà riservare alla mia prole: iena, mangiatrice di carcasse o essere rissoso che destabilizza i già difficili rapporti tra felini e cani. E se vi dicessi che nel più profondo meridione, ne persiste ad oggi una particolare specie che risulta essere, in effetti, persino peggiore? Questa è la tetra leggenda dello strandwolf, fuori dal Sudafrica chiamato “lupo della costa” o in termini latini H. brunnea, unico rappresentante, come le altre tre specie appartenenti alla sua stessa famiglia, di un genere tassonomico soltanto suo: Parahyena. E per questo praticante di un sistema di sopravvivenza estremamente distintivo, in funzione del difficile habitat occupato, sin da tempo immemore, dalla sua famelica genìa: niente meno che la rinomata Costa degli Scheletri, sul lato atlantico della Namibia settentrionale, luogo in cui il principale punto di riferimento risultavano essere un tempo i rimasugli dei cetacei catturati e poi scarnificati dagli umani cacciatori di balene. E in cui ben poca vita sulla terraferma riesce a prosperare, fatta eccezione per minuscoli mammiferi o speciali insetti il cui metabolismo si è adattato, nei secoli e millenni, a una carenza d’acqua e umidità capace di durare multiple stagioni. E da cosa potrebbe mai trarre nutrimento, dunque, un predatore con la folta criniera marrone e dal peso di fino a 60-70 Kg e 144 cm di lunghezza, bastanti a renderlo la seconda iena per dimensioni dopo la Crocuta crocuta dal manto a macchie e l’iconica risata sghignazzante? Ovvio: creature che provengono da un altro mondo. Nonché esseri, in un certo senso, simili a lei: le otarie orsine del Capo (Arctocephalus pusillus) che in funzione della propria ecologia, sono propense a radunarsi in gigantesche colonie di fino a 1.500 esemplari, essendo programmate per fare ritorno, svariate volte l’anno, presso il luogo stesso della propria nascita, per procreare. Segue dunque un difficoltoso e vulnerabile periodo, durante il quale fin troppo spesso, una sensibile percentuale di cuccioli muore inevitabilmente di stenti, per il clima inclemente e la continuativa carenza di cibo: un letterale banchetto potenziale, per divoratori opportunisti che dovessero “accidentalmente” transitare di lì. Ma le iene, si sa, non eccellono certo per la loro pazienza, ragion pere cui può capitare, spesse volte, che un rappresentante di quel popolo decida di aver atteso abbastanza. Intervenendo, per così dire, al fine di accelerare la pinnipede dipartita delle giovani speranze di quel mondo, ahimé, soltanto in parte marino. Segue, a questo punto, scena prelevata in modo pressoché diretto dal più orribile e terrificante splatter movie…
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I temibili tamburi della vespa metallica sudamericana
Nei paesi del Nuovo Mondo in cui si parla portoghese, ma anche, talvolta, nell’Argentina dalla lingua nazionale spagnola, il termine tatu viene usato normalmente per riferirsi alle appartenenti maggiormente fastidiose dell’ordine degli insetti sociali noti come imenotteri: le pungenti, aggressive e fin troppo spesso invadenti vespe. Ma basta aggiungere a questa parola il nome comune marimbondo, che significa armadillo, per scatenare nel cuore della gente un senso atavico ed istintivo di paura, per non giungere persino a un sentimento di vero e proprio terrore. Poiché non c’è un singolo altro insetto, fatta eccezione per la sempre ingiustamente sottovalutata zanzara, che abbia propensione a causare lo stesso numero di vittime o feriti sul territorio della splendida ed azzurra Synoeca cyanea, in forza della rinomata indole aggressiva, la frequenza delle punture e il potere lesionante di quel terribile veleno. Classificata nel sempre rilevante indice del masochista entomologo J. Orvel Schmidt a un abbondante livello 3.0+, caratterizzato con la dicitura descrittiva di “Tortura. Come essere incatenati per lungo tempo nella lava incandescente di un vulcano.” Sostanza, questa, consegnata al destinatario mediante l’impiego di uno speciale pungiglione ricurvo fatto per piantarsi nella pelle e non uscire tanto facilmente, il che inerentemente causa, successivamente all’inoculazione veicolata con perizia senza pari, l’inevitabile morte dell’insetto, anche troppo felice di sacrificarsi per il bene collettivo dei suoi fratelli e sorelle all’interno del favo. Struttura costruita, quest’ultima, secondo modalità ed accorgimenti particolari, tra cui quello di venire posto con le celle direttamente a contatto con la parte superiore di un tronco, con l’unico involucro protettivo di un involucro esterno fatto in polpa di legno dalla superficie vistosamente ruvida e zigrinata un po’ come, per l’appunto, la corazza del piccolo mammifero corazzato capace di chiudersi formando l’approssimazione di una sfera. Proprio per una specifica ricerca aposematica auditiva (“finalizzata ad avvisare i predatori”) che consiste, nel momento in cui ci si trova sotto assedio, nell’iniziare a produrre un suono battente e ripetitivo, mediante la percussione all’unisono di tali increspature con tutta la forza delle proprie piccole ali, moltiplicate per le centinaia, persino migliaia di abitanti. Dal che deriva un altro nome comune di questo piccolo genere composto da sei specie appena con un comportamento ecologico piuttosto uniforme, identificato talvolta come quello delle “vespe guerriere” proprio per la loro personale interpretazione del concetto di un tamburo da battaglia, usato per intimorire il nemico poco prima dell’autodistruttiva carica finale. Alternative queste, tuttavia, che non paiono possedere lo stesso fascino innato della marimbondo, con la sua riconoscibile colorazione nera a macchie blu metallizzate ed il clipeo (scudo facciale) di un rosso intenso, benché nel momento in cui si riesce finalmente a vederlo, risulti essere nella maggior parte dei casi già troppo tardi per salvarsi. Un’esperienza, purtroppo, fin troppo nota agli abitanti delle sopracitate regioni all’altro capo del mondo…
L’artiglio del gatto che ha distrutto un’intera colonia di uccelli rari
Una grande verità della guerra è che il fattore psicologico, molto spesso, può ampiamente superare l’effetto puramente materialistico delle armi. E che un singolo agente, schierato in circostanze particolarmente opportune, possa arrecare danni pari o superiori a quelle di un’intera squadra, compagnia, battaglione… Soprattutto qualora il “nemico”, se realmente vogliamo definirlo tale, risulti essere del tutto impreparato agli eventi, ovvero vulnerabile a strategie capaci di disgregarne la coesione e conseguentemente il morale, inficiando qualsiasi possibile strategia reattiva… “Eccolo, eccolo, sta arrivando di nuovo!” Fece riecheggiare verso le prime ore dell’alba dell’Australia Occidentale la voce di Claire Greenwell, naturalista e biologa dell’Università di Murdoch, reclutata temporaneamente tra i ranghi della ronda notturna di Mandurah, cittadina con un particolare problema dotato di quattro zampe, vibrisse e una saettante coda. “Il… Fantasma.” Bianco come la neve, spietato come la Triste Mietitrice. Una leggenda, soprattutto tra le incolpevoli vittime della sua insaziabile fame, le delicate e preziose sterne delle fate (Sternula nereis) del locale santuario, orgoglio imprescindibile dell’intera comunità locale proprio perché classificate come “vulnerabili” nella lista rossa della IUCN. Al punto da vietare severamente di far uscire i gatti domestici per tutti i mesi da ottobre a febbraio, periodo primaverile ed estivo da queste parti durante il quale tali creature erano solite terminare la propria migrazione per nidificare e deporre le uova contenenti la successiva generazione. E sottolineo “erano” visto che adesso, per quanto sappiamo, potrebbero anche non tornare mai più.
Una norma comportamentale, questa, prevedibilmente non sempre rispettata; il che in effetti era previsto ed in ultima analisi, privo di gravi conseguenze. Poiché non c’è molto danno che un singolo felino abituato agli agi casalinghi possa arrecare, quando un’intera squadra di ranger e volontari è stata riservata per rispondere alle sue scorribande, prenderlo in trappola e previa analisi dell’obbligatorio microchip, restituirlo con meritata ramanzina al distratto proprietario. Ma per quanto riguarda un vero e proprio gatto ferale, ovvero ritornato allo stato selvatico, ecco, lasciatemi dire che le cose possono assumere tinte decisamente più fosche. Come cominciarono a notare i suddetti operativi man mano che ritrovavano, una notte dopo l’altra del passato periodo pre e post-natalizio, svariati esemplari adulti decapitati o fatti a pezzi (ne sono stati stimati 8) per non parlare delle letterali dozzine dei graziosissimi pulcini recentemente usciti dalle loro uova (oltre 40 innocenti). Fu ben presto chiaro, dunque, che un letterale Diavolo era all’opera, e che niente, tranne una ferma disciplina e l’implementazione di tutte le più avanzate tecniche, avrebbe potuto esorcizzare il suo effetto sulla più amata riserva di uccelli della ridente cittadina di Mandurah.
Il casale situato all’apice della spirale gasteropode viennese
La chiocciola corre mentre le sue dita battono sulla tastiera. Possibile che tale cosa, diversamente dal resto, debba rimanere totalmente immaginaria? Quando si è seduti in un ufficio, col freddo bagliore di uno schermo per computer che si riflette nelle iridi dei nostri occhi, non è facile guardarsi a lato, per capire esattamente chi abbiamo come collega. Quale tipo d’esperienza, storia familiare o in certi casi dote segreta, ciascuno di costoro possa custodire, ben nascosta in fondo ad una patina d’ordinaria dedizione al compito che ci si attribuisce in tale luogo. Soltanto in speciali casi, conversando amabilmente, può succedere che il nostro punto di vista risulti improvvisamente ampliato, acquisendo cognizioni che potrebbero lasciarci basìti. Un qualcosa che scommetto, dovrà essere accaduto più volte nel corso dell’articolata storia professionale di Andreas Gugumuck, laureato in scienze ed economia che a partire dal 2000 aveva iniziato una brillante carriera nella sede austriaca del colosso informatico IBM, raggiungendo in pochi anni la qualifica manageriale. E tutto ciò nonostante quello che doveva essere, da un punto di vista meramente ereditario, il suo destino: ricevere in eredità l’antica fattoria di famiglia nei dintorni di Vienna, risalente almeno al 1720, per fare qualsiasi cosa che non fosse star seduto su una sedia per un minimo di 7-8 ore al giorno. Pensiero ricorrente, nato dal bisogno e il senso umano del contesto: potrei riuscire nonostante tutto a provvedere alla mia famiglia facendo ciò per cui sono nato? Domanda al centro delle circostanze: sarei maggiormente felice, in un simile luogo? Per cui gradualmente, nel cubicolo della sua diurna appartenenza, cominciava nel forgiare il segno e il senso di una nuova idea. Il suo passaporto, se vogliamo, per uscir di lì. E quale lasciapassare straordinario, sarebbe stato…
Ricreare, senza alcun tipo di soluzione di continuità, un’usanza medievale ormai perduta da tempo. Facendosi gli anacronistici ambasciatori di un intero mondo della gastronomia perduto, oggi associato principalmente ad altri paesi e luoghi. Per cui non a caso, siamo soliti chiamarle escargot e associarle ad una specifica serie di piatti e specialità francesi. Laddove nella realtà dei fatti medievale, è sempre esistita una ricca tradizione mitteleuropea ed in particolare appartenente al centro culturale dell’Austria per la coltivazione e preparazione di questi piccoli animali, come ampiamente documentato dalle cronache coéve. Pare infatti che sopratutto nella città di Vienna, durante la quaresima, i monaci fossero soliti andarne ghiotti, proprio perché essi non venivano considerati, letteralmente, né carne, né pesce. Fino all’istituzione successiva nel XIX secolo di un rinomato mercato dietro alla chiesa di Peterskirche sul viale Jungferngasserl, dove una simile pietanza, chiamata talvolta “ostriche dei poveri” o anche “ostriche viennesi” veniva proposta al pubblico con diversi livelli qualitativi e di prezzo. Perché mai, dunque, giunse a chiedersi Mr Gugumuck, dovremmo decidere di lasciare indietro un così ricco e redditizio passato? Un approccio alla questione frutto d’indole curiosa e propensione a sfidare le convenzioni che nei fatti, avrebbe in seguito costituito la sua fortuna…



