Caldi, freddi, climi diurni ragionevolmente temperati. Poco importa, se è di notte che si formano le idee delle persone. Sotto l’influsso gravitazionale di quell’astro che t’illumina la fronte, quando il sonno tarda ad arrivare. Alcune ottime, altre buone (più o meno). E poi ci sono quelle scellerate, frutto del consiglio di quel piccolo demonio antropomorfo, che con il forcone in mano tende a cavalcare la tua spalla, sussurrando nell’orecchio il modo più “diretto” per risolvere i problemi. Questioni niente affatto prive di precedenti, nel contesto quotidiano in cui tendono a verificarsi. Come quella qui descritta di una famigliola di castori americani (Castor canadensis) che sconfinano nel territorio di un agricoltore e bloccano il corso del fiume. Al che l’uomo, stanco di vedere le sue mucche aride e assetate, pensa bene di chiamare a corte un gruppo di sapienti rednecks, quelli che compaiono nel canale YouTube di follie motoristiche intestato al motociclista sponsorizzato canadese Mark Freeman, guidati dal suo fan e potenziale amico nella vita reale Tim Cimmer, alias Audaciouscowboy. Ed a questo punto sarebbe lecito interrogarsi sul perché io abbia usato un tale termine dal’accezione tipicamente statunitense (significato privo di connotazioni negative: “campagnolo scavezzacollo”) per un evento che potrebbe, a quanto ne sappiamo, svolgersi nel territorio di entrambi i principali paesi dell’America settentrionale. Dubbio destinato ad essere chiarito, quanto prima, nell’osservazione della metodologia posta al centro dell’inquadratura: poiché esiste solamente un luogo, a questo mondo, in cui è possibile entrare in un grande magazzino verso l’orario di apertura ed acquistare 18 Kg (40 libbre) di esplosivo, da aggiungere ai precedenti 13 in proprio possesso, per creare la più assurda approssimazione di un grosso esplosivo ad uso minerario/ingegneristico. Esiste d’altra parte almeno un presunto impiego lecito presunto per la tannerite, miscuglio venduto nelle sue due componenti naturalmente inerti e il cui possesso veniva sancito in maniera preventiva dall’amata Costituzione dei padri fondatori: fungere da bersaglio pirotecnico per le armi da fuoco (esigenza…uhm, primaria?). Una volta messi assieme in un secchio i due elementi chimici della polvere di alluminio e un ossidante, generalmente idruro di zirconio (ZrH) tutto ciò che manca è dunque una rapida sollecitazione, come l’impatto di un proiettile, per scatenare tutto il potenziale di un’esplosione ragionevolmente paragonabile a quella di un blando cocktail dinamitardo. Semplicemente perfetta, dal punto di vista di costoro, per liberarsi del problematico ostacolo al corso del fiume prodotto dall’insistente mammifero privo di concetto della proprietà privata. Ora sarebbe assolutamente comprensibile elaborare un vasto numero d’obiezioni nei confronti di una tale pratica, evidentemente poco attenta alle necessità ambientali ed ecologiche del proprio sito d’appartenenza, benché occorra notare come la legge statunitense sancisca in effetti un ampio ventaglio di metodi per la demolizione delle dighe dei castori (purché siano come in questo caso, almeno in apparenza abbandonate) tra cui figura anche l’impiego dell’esplosivo maneggiato da mani esperte. Ma il diavolo, questo è particolarmente noto, possiede la capacità di rendere operose anche quelle appendici abituate ad agire prima che il cervello possa esprimere una voce in capitolo, smorzando le possibili conseguenze nefaste…
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Kiribati, la nazione che rischia di sparire con l’alta marea
In un apocalittico istante sullo stretto istmo di terra che separa Parigi e Londra, il complicato incastro acquatico che separa arbitrariamente il Pacifico Meridionale da quello Settentrionale sembrò contrarsi, quindi espandersi ricoprendo l’unica strada asfaltata di un’intera comunità di 120.000 persone. Non pensiate neanche per un attimo, tuttavia, che tali nomi abbiano lo scopo d’indicare spazi affini a quelli delle omonime grandi capitali europee. Bensì piccole penisole, unite da uno stretto ponte di terra, ai margini di quella che l’esploratore spagnolo Hernando de Grijalva scelse di chiamare nel 1537 Acea. Ma che col tempo, avrebbe visto il proprio appellativo sugli atlanti trasformato in Christmas Island (Isola di Natale) quindi successivamente, secondo le regole fonetiche locali, in Kirimati. La risacca avanza un po’ alla volta, per poi trasformarsi in una vera e propria onda, sufficientemente alta da ignorare la banchina alta appena mezzo metro, attraversando letteralmente la linea tratteggiata che divide trasversalmente il tragitto per le poche automobili locali. Ciò che avviene dopo, quindi, è una vista al tempo stesso surreale e ben collaudata: l’Oceano si apre per accogliere se stesso. Indisturbata dall’aver attraversato una terra emersa dai confini sempre più sfumati, l’onda procede per il suo tragitto verso l’infinito. Assieme ad essa, qualcosa d’insostituibile procede: il corpo in sabbia e terra di un’intero micro-universo, che potrebbe sopravvivere a un simile trattamento per i prossimi… 20, 30, 40 anni? Lapidi silenti a immota testimonianza, come pietre miliari circondate dalle correnti, qui restano le tombe dei soldati caduti in una delle più sanguinose battaglie nel conflitto tra le forze americane e giapponesi. Quando tutto il resto sarà sparito sotto i flutti, chi potrà riuscire a conservarne la memoria?
Il fatto che occorre specificare quando si prende in considerazione il progressivo declino Atlantideo di svariate nazioni-arcipelago sperdute nel più vasto spazio azzurro dei nostri mappamondi, tra cui quella più spesso discussa è anche la più prossima all’annientamento, è che non si tratta di un potenziale disastro nel remoto futuro di un’epoca impossibile da definire; ma un preciso evento, purtroppo non databile, concettualmente già iscritto nell’annuario dell’oltre 85% di giovani sotto i 25 anni che vivono in questo luogo, molti dei quali sono pienamente coscienti di poter arrivare a costituire, un giorno, i primi esuli di un nazione affondata nella storia del pianeta Terra. Ed è particolarmente chiara, nella mente di molti di loro, l’associazione ed ingiustizia fondamentale dell’intera questione: poiché se esiste un centro nero responsabile dell’attuale situazione del mutamento climatico, con conseguente aumento del livello degli oceani, Kiribati è forse il luogo più distante da esso che si possa immaginare. Pur costituendo quello che, a conti fatti, risente maggiormente degli effetti maggiormente problematici della questione. Di documentari per approfondire la questione ne sono stati girati parecchi, molti dei quali liberamente disponibili online (si tratta, dopo tutto, di una “causa giusta”) e parecchie parole sono state spese dai più celebri ed insigni portavoce del movimento ambientalista internazionale. Quest’isola, assieme all’arcipelago che gli fa da corollario, ha più volte accolto ad esempio Leonardo di Caprio, accorato portavoce del suo dramma dinnanzi al vasto pubblico disposto a prestargli orecchio. Ma la più cupa e orribile verità dell’intera questione, come eloquentemente esposto a più riprese dall’ex-presidente di questo paese Anote Tong, è che “…Abbiamo sorpassato l’epoca in cui era possibile fare qualcosa. La sparizione di Kiribati, ormai, è certa. Per tentare di ritardare l’inevitabile, la gente può contare unicamente sulle sue forze.” E proprio questo è diventato una realtà del quotidiano al di là di queste spiagge, perché come è noto, la speranza è l’ultima ad annegare. E qualche volta sopravvive addirittura, gorgogliando, a una così difficile prova…
Ulan Bator, città sospesa nella bolla del suo stesso inquinamento
Fu per molti versi, il momento culmine della nostra trasferta d’affari lunga 10 ore dalle mille luci riflesse nella baia della nostra affollatissima Shanghai verso il remoto distretto minerario di Krasnojark, nella parte estremo orientale della Russia, oltre le acque parzialmente ghiacciate del lago Baikal. Ma prima di varcare quella meta e con essa il confine del paese più vasto al mondo, il compagno di viaggio m’invitò a scrutare fuori dal finestrino, che secondo la metrica da noi acquisita in tante simili avventure finanziarie, questa volta era toccato a me: “In questo momento ci troviamo proprio sopra il distretto di Darhan” disse, scrutando attentamente Google Maps sul fido phablet aziendale. Tra poco, potrai scorgere la sommità della loro antica capitale, dove un tempo i khan dovevano prostrarsi innanzi a Zanabazar, il più potente sacerdote della Terra. Guarda, e vedrai.” Incorniciato nel grosso finestrino del 737NG della China Airlines, a quel punto, si profilò quello che poteva essere soltanto il monte Bogd Han uul, ricoperto da uno spesso manto d’alberi, così diverso dallo stereotipo dell’erbosa e pianeggiante Mongolia. “Eccola laggiù!” indicai d’un tratto, preso da un entusiasmo quasi fanciullesco. Ma c’era qualcosa che non andava, capii immediatamente. Nonostante il cielo terso e limpido, infatti, non vidi alcuna traccia di palazzi, strade o i famosi quartieri composti da file interminabili di ger, le tende nomadiche trasformate dalle famiglie in residenze di città. Il che sarebbe certamente apparso impossibile, per un centro abitato di oltre 1,3 milioni di persone, se non fosse stato per quello che figurava al suo posto: una cappa densa e pesante di fumo grigiastro, all’apparenza denso come orribile panna montata. “Tu credi?” Fece allora il mio collega. “Allora prova ad indicarmi il giardino del monastero. E sappi che a d’inverno, praticamente nessuno è mai riuscito a trovarlo.” Aggrottando le sopracciglia e stringendo ancor di più gli occhi, concentrai la mia attenzione al massimo consentito dalla stanchezza trattenuta con la cravatta…
Ulan Bator, o Ulaanbaatar (traslitterazione anglofona) che dir si voglia, si presenta come portatrice di numerosi pregi nella storia contemporanea mongola, come polo di concentrazione per tutte quelle famiglie che, in funzione della crisi economica globale e i mutamenti del clima, hanno finito per perdere gli antichi armenti del loro articolato percorso culturale. Per trasformarsi, da allevatori, in artigiani, accademici, amministratori, minatori… Ma questo luogo dagli elevati meriti caratteristici, e notoriamente un’industria musicale in grado di catturare l’attenzione dell’intero paese, presenta anche un problema fondamentale: il più alto tasso di malattie respiratorie nei bambini sotto i dieci anni d’età al mondo. Questo per una serie di contingenze sfortunate che derivano, in egual misura, dalle caratteristiche topografiche del suo luogo d’appartenenza e uno stile di vita condizionato dalle rigide temperature invernali latenti, capaci di raggiungere fin troppo spesso il punto in cui i gradi Fahreneit convergono con quelli Celsius (40 sotto zero). Ora, come potrete facilmente immaginare, è assai raro che una tenda per quanto accessoriata possa vantare un collegamento alla rete urbana per il trasferimento del gas, ragione per cui la gente tende a scaldarsi per così dire, alla vecchia maniera. Il che comporta, immancabilmente, l’impiego di quel tipo di stufa collocata al centro esatto dell’ambiente che può trasformare in calore pressoché qualunque cosa: legna quando disponibile, scorie di vario tipo, vecchi pneumatici ma soprattutto quando disponibile, quella sostanza amica di Prometeo che prende il nome familiare di carbone. E a scanso di equivoci, qui a Ulan Bator è particolarmente facile procurarsela, considerato come ci troviamo presso uno dei principali poli asiatici per la produzione di un tale materiale. Ovviamente, ad ogni singola stufa corrisponde una canna fumaria che fuoriesce al culmine del tetto lievemente spiovente della ger. Moltiplicate, adesso, quel visibile pennacchio per qualche centinaio di migliaia, se non addirittura un milione di volte…
I virtuosi della pala da neve sui tetti dei samurai
Col progredire dello stato di torpore che comunemente segue al tramonto, l’oscurità della notte iniziò a farsi gradualmente più silenziosa. Eppure il vento, che soffiava intensamente dal profilo distante del monte Zubakuro, non sembrava essere calato d’intensità. Al lento muoversi di una luce in cielo, affermazione esistenziale di un aeroplano solitario, si aggiunse improvvisamente il serpeggiare di un milione di particelle. Le quali, muovendosi in alternanza, sembravano accompagnate da un senso incrollabile di nostalgia. “Rendi quella donna / senza cuore, o vento di montagna (yama-oroshi 山颪) / del tempio di Hatsuse, / ancor più crudele! – Questo non è / lo scopo della mia preghiera, eppure…” Sussurrai. In breve tempo, il colore dominante del paesaggio iniziò a farsi pallido e uniforme, mentre il bagliore della luna veniva riflesso da ogni possibile angolazione. A quel punto apparve chiaro che la strada asfaltata per il Ryokan di Yamada era ormai del tutto scomparsa, sotto uno strato compatto e candido, inarrestabile quanto l’erba di primavera. L’inverno, come previsto, era arrivato nella parte centrale dell’isola di Honshu. Ben presto, le finestre del primo piano avrebbero sostituito le porte, mentre il familiare scintillìo della doppia impugnatura di metallo sarebbe tornato attuale, come sui campi di battaglia di molte generazioni fà. E il nome poetico di questo luogo, “paese della neve” (yukiguni – 雪国) avrebbe trovato la sua attesa quanto imprescindibile riconferma stagionale.
Esiste un concetto largamente diffuso per cui i paesi più freddi, ovviamente, debbano essere i più nevosi. Il che trova una logica riconferma in molti luoghi segnati sugli atlanti benché, ce lo insegna l’esperienza, non debba essere necessariamente né sempre vero. Vedi, ad esempio, alcune regioni centro-settentrionali del grande Giappone, dove una particolare confluenza di fattori cospira nel generare un particolare macro-clima, definito per antonomasia nordamericana il cosiddetto effetto lago. I cui effetti risultano estremamente noti a tutti coloro che vivono nella regione del Superiore, il Michigan, lo Huron, l’Erie e l’Ontario, enormi masse d’acqua sopra cui si generano flussi ventosi e carichi di neve, tali da ricoprire completamente persino il più popoloso contesto urbano. Perciò immaginate adesso, soltanto per un attimo, l’effetto di un flusso d’aria che tragga l’origine dall’area di Vladivostok in Siberia, per attraversare con pressante inerzia la vasta distesa del Mare antistante. Il quale, essendo costituito da acqua salata e relativamente calda, non riesce a gelarsi, ma genera condensa, portata immancabilmente a salire per l’effetto della bassa pressione. Quindi questa massa gelida e carica di precipitazioni potenziali raggiunge il cosiddetto paese degli Dei, dove gli stessi rilievi sopra cui trovavano posto gli antichi spiriti fungono da barriera. In attesa che giunga il momento propizio, per scendere a valle e far conoscere alla gente del posto il significato ultimo della parola “bianco”.
Esiste un’espressione in giapponese che, come capita spesso per questo idioma, implica un doppio senso nella sua omofonia: spalare la neve (yuki-oroshi 雪おろし) richiamando il già citato yama-oroshi o vento invernale, con una parte verbale sillabica che riesce a implicare di nuovo il concetto di “buttare giù” qualcosa. Stavolta, tuttavia, da molto meno alto rispetto agli svettanti picchi delle montagne distanti. È l’eterno problema dei tetti delle case, purtroppo incapaci di sostenere pesi al di sopra delle 20, 25 tonnellate di panna montata…