Candida è la luce che risplende, all’alba ed al tramonto, riflettendosi contro le cupole del vasto palazzo marmoreo che domina la piazza di Janakpur, una delle principali città della provincia di Madhesh nel paese più alto del mondo nonché capitale dell’antico stato nepalese di Mithila. Un’entità culturale distinta, persino oggi, la cui importanza in Nepal è stata lungamente collegata a una particolare storia narrata nel poema epico del Ramayana; poiché proprio questo sarebbe stato, in base alla narrazione, il luogo di nascita di Sita Mata, figlia della Madre Terra e consorte di Rama, manifestazione in forma umana del Dio Vishnu. Ritrovata in un campo nei solchi dell’aratro (proprio a questo fa riferimento il suo nome) da niente meno che il sovrano Janaka contemporaneo del sovrano Dasharatha di Ayodhya, la cui saggezza e probità erano note in lungo e in largo nel subcontinente indiano. E fu proprio qui, dove oggi sorge l’imponente Mandir Janaki, che la giovane donna dimostrò la propria eccezionale forza, tendendo come nulla fosse il pesantissimo divino arco di Shiva, custodito nell’armeria reale. Al che il suo proprietario terreno, colpito da tale impresa, decretò che solo chi avrebbe potuto fare lo stesso, sarebbe stato degno di sposare colei che da quel giorno adottò come fosse del suo stesso sangue. Ma Rama seppe fare anche di più, spezzando in tre parti l’arma e il resto, come si usa dire, è storia. O per meglio dire, leggenda?
Molti anni dopo questi eventi, nel 1657, il sant’uomo Shurkishordas giunse in questo luogo guidato da una premonizione. Il che lo avrebbe portato a scovare, sotto un sottile strato di terra, una statua d’oro della divina Sita, il che avrebbe ricordato ai suoi contemporanei il collegamento della città di Janakpur con la protettrice dell’umanità intera. Il che diede inizio ad un fervente culto, ed ulteriori due secoli a venire, alla costruzione di uno dei più spettacolari templi del Nepal, opera di una regina straniera. Sto parlando di Vrisha Bhanu dello stato di Tikamgarh, in India, e del suo Janaki Mandir, ultimato nel 1910 dopo 14 anni di lavoro, nella speranza che la Dea l’avrebbe ricompensata con la nascita di un figlio. Il che non sarebbe giunto a verificarsi dopo il suo decesso, in seguito la quale il consorte sposò sua sorella, mentre lo spettacolare luogo di culto avrebbe potuto costituire un punto di riferimento religioso d’importanza crescente nell’intero secolo successivo. Architettonicamente insolito, con la sua commistione di elementi del barocco Moghul e accorgimenti tradizionali di matrice Koiri Hindu, il palazzo si presenta come infuso di un fascino vagamente arabesco, connotato dai molteplici colori ed elementi statuari tipici della tradizione Rajput. Ma ciò che colpisce maggiormente è il modo in cui le sue mura, lungi dall’essere la mera meta di un pellegrinaggio o punto di riferimento cittadino, risultano profondamente incorporate nel tessuto culturale locale, supportando un’ampia quantità di stimate tradizioni pubbliche…
palazzi
Parole scritte appese agli scaffali nell’arioso bastimento della conoscenza messicana
Quando si considera la grandiosità di un ambiente urbano, i suoi meriti esteriori e l’accoglienza delle istituzioni nei confronti della gente che vi abita all’interno, pochi maestosi palazzi possono acquisire un’importanza maggiormente significativa della biblioteca pubblica. Un luogo per l’accumulo di conoscenza che è inerentemente aperto e visitabile da chiunque, previo il rispetto di una ragionevole serie di regole e la capacità di attribuire meriti alle pagine che in essa vengono custodite. Questa l’idea, il legittimo principio. Eppure quanti, nelle generazioni successive all’anno 2000, possono dire di aver messo piede all’interno di tali edifici? In un’epoca in cui tutto è digitalizzato, inclusa la parola scritta, ed ogni forma di comunicazione, inclusa la parola scritta, può venire veicolata nel possente fiume delle informazioni, non può che essere portato in secondo piano il valore di simili mura tende ad essere spostato in un secondo, terzo e quarto piano nel piano regolatore di molti centri abitati contemporanei. Ma non la colossale CDMX, città capitale del Messico indiviso, dove a partire dall’inizio degli anni 2000 iniziò a circolare una parola composita dal ricco bagaglio di sottintesi, la… Megabiblioteca. Un progetto per il quale ingenti risorse sarebbero state stanziate, molti esperti chiamati dall’estero, ed il presidente in carica Vicente Fox avrebbe acquisito sempiterna memoria nel cuore e la memoria del suo popolo capace di apprezzare grandi opere costruite nella scala di un antico monumento. Questa, almeno, era l’idea. E non ci sono dubbi che a distanza di quasi vent’anni dalla sua inaugurazione, avvenuta finalmente nel 2006, l’edificio dedicato al filosofo e letterato della Rivoluzione, José Vasconcelos, costituisca una delle attrazioni maggiormente distintive dei dintorni ed un letterale polo turistico per molti, in aggiunta alla propria funzione dichiarata che assolve con stolida efficienza, nonostante l’implicito disinteresse coévo. Un traguardo per cui merita riconoscenza l’architetto messicano e celebre urbanista Alberto Kalach, campione dello stile contemporaneo che in questo suo capolavoro ha concentrato molti dei temi caratteristici della sua produzione: sostenibilità, integrazione con la natura, adattamento dei canoni al contesto specifico e quella che potremmo definire come l’ineffabile capacità di catturare un’estetica eccezionalmente futuribile. Nel presentarsi, una volta che si scelga di esplorare lo stretto edificio di 38.000 metri quadri il cui esterno è stato paragonato ad un parcheggio, piuttosto che un poco ispirato centro commerciale, come un incredibile reame sospeso tra terra e cielo, in cui la luce inonda una struttura metallica fatta di lucide travi e camminamenti semi-trasparenti color verde acqua a sbalzo. Ove chi cercasse un libro in particolare è incoraggiato a camminare, dominando le vertigini, fino all’altezza corrispondente ad un edificio di cinque piani. Un’esperienza precaria della quale, senz’altro, taluni apprezzerebbero poter fare a meno. Eppure…
Il cerchio druidico nella città geometrica dove ogni casa è parte di un disegno ideale
In un’epoca remota collocata presumibilmente attorno al nono secolo a.C, un uomo di nome Bladud si recò in viaggio dall’Inghilterra per studiare filosofia ad Atene. Personaggio di un livello di saggezza largamente superiore alla media, egli andò tuttavia incontro ad un significativo contrattempo: l’aver contratto durante il viaggio di ritorno il Mycobacterium leprae, bacillo più comunemente noto come la malattia al incurabile della lebbra. Applicando tuttavia le tecniche sovrannaturali che aveva riportato dalla Grecia antica, egli accese un fuoco sacro nella regione del Somerset, dedicato ad Atena, ed in cambio ricevette dalla Dea il dono di fonti sorgive terapeutiche, dove sarebbe sorta successivamente la città di Kaerbadum. Molti anni dopo il suo regno come principale sovrano delle terre celtiche, destinato a durare vent’anni grazie alla sua capacità di sconfiggere la malattia, l’insediamento sarebbe dunque stato trasformato in una base operativa dagli Antichi Romani, che lo chiamarono Aquae Sulis. Ma in tempi ancora più recenti, il suo toponimo diventò semplicemente Bath.
Luogo più volte ammodernato sulla base dei crismi urbanistici vigenti, durante i primi anni della dinastia di Hannover (periodo Georgiano) questo luogo venne diventò il centro pratico di un tipo d’architettura razionalista, basata sui crismi architettonici palladiani. Eppure non perse mai le proprie connotazioni mistiche e sacrali, come chiaramente esemplificato dal suo quartiere storico, ove campeggia tra le molte meraviglie un sito costruito tra il 1754 e ’68 in grado di evocare al tempo stesso Stonehenge, ed il Colosseo di Roma. Il Circus, come volle definirlo il suo creatore teorico John Wood il Vecchio, che a causa del decesso a cinquant’anni lasciò al figlio quasi omonimo il compito di completarlo, come strabiliante espressione pratica del concetto di un complesso d’imponenti townhouse. Ovvero il tipo di dimore multipiano usate dalla nobiltà rurale, durante i mesi in cui l’attività sociale raggiungeva il punto d’ebollizione dando luogo al maggior numero di balli ed eventi mondani. Pensate per esempio al popolare telefilm Bridgerton, che non a caso è stato in parte girato a Bath… Ma non qui, forse poiché sarebbe stato troppo riconoscibile per i connazionali e non solo. Dove, altrimenti, è possibile trovare simili palazzi dalla pianta curva che circondano il mozzo di una ruota perfetta? Dal diametro di 97 metri (contro i 99 dell’osservatorio megalitico a 53 Km di distanza) finemente ornati usando in ciascun piano gli ordini Dorico, Composito e Corinzio, costituendo in questo modo il più significativo e quanto mai diretto riferimento all’arena gladiatoria di Roma. Una versione in cui la facciata principale, tuttavia, è rivolta verso l’interno e non più il resto della città destinata a usarlo come simbolo del potere Imperiale. E strani simboli massonici campeggiano oltre i finali dei tetti mansardati, impreziosendo il sito di un alone di latente mistero…
L’incantato torrione che si apre verso le montagne dell’Olimpo cinese
Soltanto una montagna, un’altra montagna tra i centomila picchi del Parco Naturale di Wulingyuan, patrimonio naturale dell’UNESCO dal 1992. Potreste conoscerli: protagonisti d’innumerevoli dipinti, paraventi ed opere figurative d’Asia, vedono la loro partecipazione più importante in epoca recente nel popolare film di fantascienza Avatar ed il suo seguito. Ciò che venne inaugurato, tuttavia, proprio in corrispondenza cronologica del secondo film della serie (2022) non avrebbe mai potuto comparire in esso; troppo forte, in parole povere, il carattere profondamente tipico delle sue aspirazioni e il risultato finale. Profondamente cinese, come trasposizione ultra-moderna ed ipertrofica di un’abitazione tradizionale diaojiaolou, costruita sulle palafitte dagli esponenti dell’etnia Tujia per proteggersi dagli animali selvatici e gli insetti mordaci del sopraelevato entroterra d’Asia. Per lo meno nominalmente, laddove il risultato finale appare spropositato ed incombente come il quartier generale di un’azienda cyberpunk, a tal punto antico e moderno si fondono nel dare animo a queste imponenti mura costellate di ordinate finestre rettangolari. Con due pletore di tetti sovrapposti, al tempo stesso spazi abitabili e pilastri che sorreggono, incredibilmente, un singolo edificio cuboidale sulla sommità. A sua volta fornito della mistica silhouette di una pagoda, come si trattasse di un luogo di culto dedicato alla venerazione dell’invisibile sapienza divina. Se non che siamo di fronte all’edificio principale del Qishi’er qi Lou (七十二奇楼) ovvero le Settantadue Torri Meravigliose, un complesso avveniristico fortemente voluto a partire dal 2019 dall’ente turistico della fiorente città-prefettura di Zhangjiajie (oltre un milione e mezzo di abitanti) al fine di “energizzare la vita notturna”, una terminologia scelta per sottolineare la maniera in cui i tipici turisti giunti nello Hunan, sia nazionali che stranieri, stanchi dopo le traversate dei ponti trasparenti, le arrampicate sulle scale parzialmente erose, le esplorazioni all’interno di ascensori su pendici montani, fossero semplicemente abituati ad andare a letto in albergo la sera. Senza spendere l’opportuno tempo, e risorse, nell’assaporare la cultura gastronomica ed il colore dell’artigianato locale! Una letterale perdita di potenziale per entrambe le parti dell’implicito accordo tra viaggiatore e popolazione locale. Allorché un rapporto di ecologia ambientale, prodotto sul finire della scorsa decade, avrebbe dato il via libera a questo imponente progetto da 392 milioni di yuan (50 mln. di euro) per 53.000 mq, contenenti tra le altre cose un hotel, due gruppi di appartamenti affittati come B&B, svariati ristoranti ed uno spazio di esposizione per mostre ed eventi culturali di vario tipo. Come resistere, a conti fatti, all’espressione implicita di un siffatto richiamo…



