Agente speciale Beluga, la spia venuta dal mare di Barents

“Niente foto, umano sul pontile, niente foto. Acqua in bocca e soprattutto, niente video!” sibilò in un canto acuto degno del leggendario canarino di mare Hvaldimir, la creatura con il nome composto in egual misura da hval, balena in lingua norvegese e Vladimir dall’attuale presidente della Federazione Russa, per associazione mass-mediatica d’idee. Ma a quel punto era già troppo tardi, mentre Joachim Larssen, viaggiatore bipede in visita presso il porto di Hammerfest nel Finnmark, estrema punta settentrionale del continente europeo, puntava la sua videocamera GoPro verso il grazioso muso della creatura dal peso di una tonnellata e mezzo, bianca come la neve, gli occhi neri tondi e privi di espressione facile da interpretare. Ragion per cui nessuno, essenzialmente, avrebbe mai potuto ipotizzare il suo effettivo stato d’animo, all’essere di nuovo diventata, volente o nolente, la balena più famosa dei Sette Mari. “Basta, l’hai voluto tu!” Fischiò quindi, benché tale affermazione risuonasse come una risata frutto delle buffe circostanze; poco prima d’afferrare saldamente, con la grande bocca dai denti radi (a cosa servono d’altronde, quando trangugi il pasto tutto intero?) quell’oggetto digitale, per poi trascinarlo fino al fondo della baia in mezzo a spazzatura, pezzi di plastica e detriti abbandonati. Segue qualche attimo nel buio e nel silenzio mentre noi, gli spettatori, siamo portati a chiederci in quale maniera, esattamente, queste immagini abbiano raggiunto i nostri schermi. Finché 3, 2, 1… Risaliamo per veder la luce, assieme a quella telecamera, consegnata nuovamente nelle mani del suo proprietario, direttamente dalle fauci sghignazzanti di quel mattacchione, Hvaldimir il giovane beluga.
Fastidio, allegria, divertimento? Chi può dirlo. L’attuale stato d’animo di questa vera e propria celebrità, trattata in infiniti articoli a partire dall’aprile scorso, quando venne avvistata per la prima volta da un’imbarcazione di pescatori locali a largo dell’isola di Ingøya, all’interno di un’areale normalmente non frequentato dalla sua specie. E con qualcosa addosso che potremmo definire, per usare un eufemismo, come una vera e propria eccezione degli eventi: una sorta di imbracatura/collare, evidentemente messogli addosso in circostanze pregresse come parte fondamentale di una qualche iniziativa umana. Furono quindi proprio costoro, Joar Hesten e colleghi, a notare per primi come l’animale presentasse un’indole socievole tale da lasciarsi avvicinare ed accettare il cibo dagli sconosciuti, per seguire quindi da vicino il movimento dell’imbarcazione. E decidere, sull’onda del momento, di fare il possibile per liberarlo dallo strano oggetto, dapprima sporgendosi e tentando di slacciarlo, quindi giungendo a mettersi la muta per tuffarsi nelle gelide acque provenienti dal Circolo Polare Artico. Al che finalmente, il capo d’abbigliamento venne tolto e trascinato a bordo, con apparente gratitudine del candido cetaceo, ben presto ritornato alle profondità abissali dell’oceano settentrionale. Soltanto per scoprire, qualche ora dopo, sopra il giogo per mammiferi marini, la dicitura carica di un qualche misterioso significato: equipaggiamento di San Pietroburgo. “E non trovate anche voi…” Si dissero a vicenda i primi scopritori: “Che l’attacco superiore dell’imbracatura fosse l’ideale per un’arma o telecamera di qualche tipo?”
L’essere umano, tra tutti gli utilizzatori dell’Oceano, è sempre stato quello che ama maggiormente le storie. E ancor più che agli altri, tale descrizione si applica a una ciurma di marinai. Così che non ci volle molto, perché al gruppo ritornasse in mente la questione ormai semi-leggendaria dei cosiddetti delfini da guerra, e anche beluga s’intende, famosamente addestrati sia dalla marina statunitense che quella sovietica tra gli anni ’70 e ’80, al fine di assistere con lo sminamento delle acque, infiltrarsi oltre le linee di un paese ostile o quando necessario, trasportare bombe o far direttamente fuoco contro gli intrusi. Tanto più che nel ben più recente 2017, uno strano servizio mandato in onda dalla Tv di stato russa Zvezda ha ebbe l’occasione di mostrare al pubblico la maniera in cui esperimenti simili fossero recentemente ritornati in auge, sostenendo la potenziale ipotesi che uno degli esemplari fosse potenzialmente fuggito, o per usare un termine maggiormente specifico avesse disertato verso i territori di un paese straniero…

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L’enorme stella marina costruita per il 70° anniversario della Repubblica Popolare Cinese

Quale ondata di marea, quale tempesta, quale vento di bonaccia ha trasportato il frutto di un’Oceano fuori scala fino alle propaggini meridionali della Megalopoli, con sei tentacoli a raggiera che si allargano nelle altrettante direzioni? Grossi organi per catturare la sua preda, con la bocca trasparente al centro, spalancata nell’attesa dell’ora di cena. Mentre piccoli animali alati, ciascuno con la coda riflettente in posizione verticale verso il cielo, sembrano intenti a cercare protezione tra le ciglia di quegli arti. Traendo nutrimento dai microrganismi che quest’essere lascia transitare, l’uno dopo l’altro, verso il cielo della limpida (o nebbiosa) Libertà. Ma le apparenze, come a volte capita, possono trarre in inganno. E dove un wormhole verso luoghi oceanici distanti può sembrare averci messo lo zampino, in ultima analisi, potremmo ritrovare il segno di una mano asiatica, artificiale ed attentamente “motivata” sin dall’anno 2011, quando fu decretato che attorno alla gargantuesca creatura spiaggiata scorressero otto piste di decollo civili, oltre ad una militare (dài a Cesare..)
Osservando il progredire di un’impresa pubblica verso l’avvicinarsi di un significativo evento, è possibile comprendere le numerose maniere in cui un simile lavoro può essere accelerato, senza per questo perdere la necessaria attenzione nei dettagli. Mentre il tempo necessario a scaricare, collocare e implementare i materiali si trasforma in quello che originariamente sarebbe servito solo per la prima di queste tre operazioni, e la struttura necessaria inizia a prendere forma, sorgendo gradualmente innanzi ai nostri occhi non del tutto preparati. Dieci, cento, mille pali delle fondamenta. E molti metri di soffitto dall’andamento stranamente sinuoseggiante: costituisce tutto questo, se vogliamo, la prova maggiormente significativa per la rinomata efficienza “a discapito di ogni possibile ritardo” che il mondo tende ad associare alla nazione e alla cultura cinesi. Eppure non è solo una questione d’orgoglio, questa di arrivare a completare il nuovo aeroporto di Pechino-Daxing giusto in tempo per le attese celebrazioni del settantesimo anniversario da quando Mao Zedong, investito dell’autorità derivante da aver sconfitto in battaglia le truppe del partito nazionalista Kuomintang, dichiarò conclusa la sofferta liberazione del suo grande paese, dando inizio a una nuova lunga marcia mentre l’eco dei cannoni si perdeva in lontananza, esattamente alle 15:00 del primo ottobre 1949. Bensì l’essenziale necessità di poter disporre di un hub di collegamento realmente efficiente per la prima volta dopo molte decine di anni, al fine di accogliere gli ufficiali di governo, le personalità celebri e i numerosi turisti in visita desiderosi di partecipare alla festa, dopo le cinque decadi attraverso cui il precedente aeroporto di Pechino-Capitale ha infranto tutti i record d’inefficienza burocratica e lentezza procedurale. Senza che a nessun particolare individuo, nei fatti, fosse possibile attribuirne la colpa: dopo tutto stavamo parlando, fino all’inizio della settimana scorsa, del secondo maggior scalo al mondo per numero di passeggeri, situato in un’area d’importanza strategica e governativa decisamente superiore a quella dell’Atlanta-Hartsfield-Jackson negli Stati Uniti, e frequentato in questo da oltre 100 milioni di persone interessate alla capitale della Cina nel solo anno 2018.
Verso un primato che ora non sarà più ragionevole pensare di perseguire, visto il completamento della nuova appariscente struttura, che si è comunque già guadagnata un posto di pari prestigio nel grande albo dei record dell’aviazione: quello di maggior aeroporto con un singolo terminal al mondo. Il che, considerati i circa 72 milioni di passeggeri annui previsti entro il concludersi del prossimo ciclo di stagioni, dovrà necessariamente aver comportato soluzioni tecniche decisamente fuori dal comune…

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Il vecchio imbroglio del sughero nella mazza da baseball e la sua storia

Tutti ricordano Christopher Andrew Sabo, classe 1962 e battitore della terza base dei Cincinnati Reds, per un modo particolarmente gramo di concludere la sua carriera. Il triste movimento, l’infelice scelta, l’usura in campo di un astruso marchingegno. Soluzione (forse inutile) a un problema (percepito) che anche prima di un così fatidico 29 luglio del 1996, tanto era costata ad alcuni dei suoi più insigni e celebri predecessori. Giocatori di baseball, gente superstiziosa… Forse per gli antichi manierismi di uno sport composto in egual misura da gesta frenetiche e noiose attese, durante cui saper interpretare presagi, fare gesti scaramantici, masticar tabacco o chewing gum diventano strumenti utili a tenere vivida la concentrazione. Fino alla discesa di quel singolo granello della clessidra, in bilico tra infamia e gloria, durante cui la sorte dovrà scegliere se assisterci o gettarci nel fossato. La sorte, assieme a… Forza? Rapidità? Esperienza? Allenamento? E forse qualche volta, il piccolo “aiuto” fuori dallo spettro del possibile, inteso come accorgimento totalmente al di fuori del regolamento di gioco.
Fu al culmine di una partita contro gli Astros di Houston nello stadio di casa della sua squadra, quando il veterano con centinaia di partite all’attivo si mise in posizione per rispondere al lancio della sfera da parte dell’avversario impugnando il familiare strumento di difesa. Fino a quell’impatto fragoroso tra filo, cuoio e legno ricoperto dalla resina di pino, a seguito del quale fu quest’ultimo ad avere la peggio. Ora, non è particolarmente noto in questi lidi ma può capitare: le mazze da baseball si rompono di continuo durante partite professionistiche, nel corso delle quali non è consentito l’uso delle più resistenti versioni in alluminio dello stesso attrezzo. Ragion per cui nessuno riservò più di una scrollata di spalle, quando l’inserviente della squadra portò al giocatore un altro implemento dal ricco corredo trasportato in sede. Se non che alla battuta successiva, stupore, raccapriccio: un altro suono simile ad un CRACK, tale da far sospettare la probabile rottura incipiente del lungo arnese. Ma ecco che Sota, forse per non attirare eccessivamente l’attenzione, decide di usarla per un ulteriore colpo. Ed è allora, che succede il pata-TRACK: poiché la mazza questa volta si divide in senso longitudinale, ottenendo nella metafora dei stessi commentatori, la perfetta imitazione “di una pala da pizza”. Ma ciò che è peggio, caratterizzata da una scanalatura nella parte larga, all’interno della quale era stato inserito QUALCOSA. Un commissario della squadra rivale chiama l’arbitro, che a sua volta chiede un timeout. Dentro l’oggetto c’è del sughero, materiale estratto da sotto la corteccia d’albero particolarmente poroso e leggero. Lo stesso replay evidenzia, nel momento della rottura, piccoli pezzetti legnosi che volano in tutte le direzioni. Durante i successivi sette giorni di squalifica, oltre alla multa di 25.000 dollari pagata dalla sua squadra, Sabo avrebbe sempre ripetuto di non sapere nulla di quella mazza, che gli era stata prestata da un collega dopo l’imprevista rottura della sua. Ma il danno, oramai, era fatto: ecco un giocatore, per così dire CORKED, ovvero uno che “sughera” le proprie mazze. Col disonesto obiettivo di…

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L’incredibile trasformazione di uno stadio nel giro di sole 67 ore

Un timelapse come questo, orgogliosamente pubblicato sul canale dello stadio più importante d’Olanda, sono pronto a scommettere che non l’avevate mai visto. Pubblicato l’estate scorsa ma riferita ad un evento ancora precedente, durante il quale un tale ambiente venne utilizzato, nello spazio di soli tre giorni, per una tappa del tour-revival degli U2 Joshua Tree e un’importante partita della Champions League, finita in un pareggio 2-2 tra le più celebri squadre di Nizza e la città locale. Può in effetti sussistere la più perfetta comunione d’intenti, l’obiettivo di trovarsi assieme un pomeriggio, piuttosto che a tarda sera, con lo scopo di ridare vita ad amicizie ormai dimenticate o rivivere i bei tempi della scuola o i campi di calcetto pre-adolescenziali… Eppure non è facile, secondo le precise regole del calendario, riuscire a mettere tutti d’accordo sulle condizioni di un simile incontro. Come, quando e soprattutto in quale luogo: tutti assieme al ristorante? Magari al cinema? Presso un parco pubblico del centro cittadino? Impegni di lavoro o familiari, problemi di viabilità, disponibilità di mezzi e circostanze, contribuiscono ad allontanare un simile raduno. E immaginate adesso di dover fare lo stesso per un gruppo di 68.000 anime distinte, ciascuna con le proprie preferenze, desideri e priorità. Per lungo tempo gli organizzatori per definizione, quel tipo di figure in grado di fornire grosse prospettive di guadagno, hanno cercato di pianificare negli stadi la tipologia d’eventi in grado di mettere tutti d’accordo, o quasi. Ma non c’è stato verso: c’è chi di sport, proprio non s’interessa. Ed altri che aborriscono i concerti, in quanto espressione cacofonica di un aurale susseguirsi d’emozioni, ascoltabile senza fatica dagli altoparlanti del proprio sistema Hi-Fi. Gretti gli uni, privi di ambizione i secondi, potrebbero chiamarsi vicendevolmente! Se non fosse che le due visioni possono coesistere, dietro un’adeguato impegno di tangenti metodi risolutivi.
O almeno, possono in un luogo come il Johan Cruyff col suo tetto apribile a comando, al secolo Amsterdam ArenA, principale e più moderno impianto sportivo della città nonché residenza dell’AFC Ajax, squadra dalla lunga storia e ancor più estesa lista di rivalità sportive. Terminato di costruire nell’ormai remoto 1996 a un conveniente costo equivalente a 140 milioni di euro e rinominato giusto lo scorso anno in onore del leggendario calciatore e coach Johan Cruyff (1947-2016) tra i principali fautori della corrente nota come Total Football, secondo cui un giocatore dovrebbe essere in grado di ricoprire qualsiasi ruolo nel proprio team. Stadio concepito sin da principio sulla base di un concetto sopra ogni altro, anacronistico a quei tempi: l’assoluta versatilità. Il che voleva dire, a partire dall’inaugurazione condotta il 14 agosto di quell’anno con la partecipazione della regina Beatrice in persona, che potesse transitare dallo stato di un poetico balletto con navi bidimensionali trascinate sul colossale dipinto orizzontale De Zee (Il Mare: 80 x 126 metri, tutt’ora un record senza pari) all’ordinata e semi-perfetta erba per il match inaugurale tra la squadra di casa e il Milan…Che fu vinto 3-0 da quest’ultimo, ma questa è tutta un’altra storia. Ciò mediante una serie di particolari accorgimenti, tra cui l’impiego di uno speciale sistema di pavimentazione rimovibile d’alluminio nota per l’appunto come ArenA panels, semplici e accessibili vie di fuga laterali per i materiali di supporto e soprattutto, l’impiego di organizzazioni e fornitori sempre pronti a intervenire, con il minimo preavviso, per assecondare i desideri dell’azienda di gestione Stadion Amsterdam N.V…

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