La prima semi-automatica della storia

Lorenzoni Pistol

Dannate chu-ko-nu! Da quando un ingegnoso cinese aveva preso un piccolo arco d’acciaio, l’aveva posto in orizzontale e montato sopra un affusto con leva, bastava l’intenzione e un po’ di mira… Per bucare dieci fieri condottieri, tutti assieme. Appena iniziata una guerra dei vessili, questa già finiva in una salva di quadrelli. Ma una balestra a ripetizione era pur sempre complicata. Caricarla richiedeva addestramento, quanto meno. Non soltanto un corno pieno di polvere, la bisaccia di sferette di metallo; che chiunque poteva proiettare, dopo un attimo, contro la carica dei cavalieri. Con l’immediata pressione di un grilletto ed un singolo, sonoro BAM?! A dire il vero, molti. Almeno nel caso di chi avesse a disposizione il revolver di Lorenzoni, la pistola a polvere nera qui messa in mostra, non senza cospicuo orgoglio, dal rappresentante dell’ottimo canale di YouTube Forgotten Weapons. Che rappresenta l’apice massimo di questa categoria di armi a lunga gittata, realizzatasi, dopo molti falsi tentativi, solamente nel XVII secolo. Benché, come spesso avviene, osservare un tale manufatto ci riporti molto indietro.
La forza di sette uomini, ovvero la tecnologia. Così era stato l’alto Medioevo: quando chi aveva un maggior numero di generali, capitani e validi sergenti, spesso prevaleva presso i campi di battaglia insanguinati. Non soltanto per la strategia. Guardate tanti splendidi cavalieri, con armatura variopinta e insegne trascinate al vento! Un lampo di luce sulla punta della lancia, il rombo del tuono sotto gli zoccoli dell’animale. Uno splendido apparire, indubbiamente. Di una guerra nella quale un solo capitano, dinnanzi ai fanti di un manipolo, valeva quanto multipli avversari: il primo per il rigido cimiero, impervio alle percosse dei giganti armati di bastone. Uno per la maglia di metallo, resistente al taglio degli stocchi o delle sciabole da lato. Due, per lo scudo impenetrabile alle punte dei forconi o di altre lunghe aste acuminate. E altrettanti, soprattutto per l’addestramento, frutto di una vita intera spesa sopra i campi di battaglia, invece che a zappare, seminare e raccogliere i fondamentali frutti della terra. Essere nobili, a quell’epoca, voleva dire mettersi al servizio delle proprie stesse mire combattive, con la dura lama, con la mazza e per la forza delle proprie convinzioni. Una, due, quattro volte. Il popolo seguiva, suo malgrado.  La prima e la seconda volta? E dopo…Giunse anche in Europa, trascinata dalla forza stessa dei conquistatori, una diabolica invenzione. La usavano i seguaci del temuto Genghis Khan, in feroci soluzioni belliche provenienti dal remoto Oriente e per il tramite di una tortuosa Via. Era polvere nera, quella! Mica Seta, colorata. Bombe a mano, esplosivi. E piccoli cannoni primitivi, tra cui alcuni, appoggiati su di un caratteristico sostegno ad Y, venivano puntati e detonati da una singola persona.

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Caposcuola dello sminamento cambogiano

Aki Ra

Se si dovesse realizzare una classifica dei peggiori cinque incubi notturni, assai probabilmente includeremmo questo: noi che avvistiamo tra la terra smossa un’invitante noce di cocco. Noi che la strappiamo dal groviglio di radici del selvaggio sottobosco, a colpi di feroce zappa, poi la solleviamo sulla punta di una lama di coltello. Per percuoterla, squarciare la sua scorza e farla a pezzi, prima di renderci conto… Che quello non è un frutto. Ma una bomba, il presupposto della fine! C’è un paladino che tale precisa sequenza di gesti la ripete giorno dopo giorno, dal 1991. Non per obbligo costituito, bensì per scelta e senso di profonda responsabilità.
Aki Ra, il suo nome di battaglia. Quello vero, non ci è noto. Tale appellativo andrebbe detto almeno per due volte, come le contrapposte vite che ha vissuto l’uomo. Se Aki Ra avesse del semplice ghiaccio nelle vene, probabilmente proverebbe molto caldo. Il suo sangue, infatti, dimostra poco meno della temperatura di Plutone, moltiplicata per l’inverso della radice cubica di una cometa. Eppure la sua mano, lungi da tremare per il freddo, è precisa come il tocco del chirurgo volontario, che rimetta in sesto l’innocente vittima di un esplosione. Il suo operato personale, del resto, è assolutamente comparabile nella difficoltà. Dal punto di vista dell’utilità. Nonché della funzione. E molto superiore per il rischio! Visto come si realizza sotto il fuoco potenziale di un nemico subdolo, ormai defunto eppure ancora pronto a far del male incalcolabile, per decreto delle tristi leggi di un conflitto universale. Quello che ci porta spesso e volentieri, come bipedi territoriali, a bersagliarci vicendevolmente con pallottole perforanti, usando razzi esplosivi, con missili a ricerca e bombe distruttive. Nel tentativo di raggiungere il terribile Nirvana della morte, un sistema finale per decidere chi ha meno torto. Ah, l’adempimento dell’eterna sofferenza! Aki Ra conosce bene questa problematica. Lui, che nacque, già quasi lavorando tra le risaie della sua terra, in un periodo veramente sfortunato: tra il 1970 e 1973, all’incirca. Non lo ricorda, né potrà mai saperlo. La sua biografia imprecisa, per il modo in cui appare su diversi siti web, assume il formato singolare di una serie d’episodi, come varie immagini di una vicenda travagliata, brevemente illuminate dal bagliore d’esplosioni rivelatorie. Primo lampo: la sua gioventù, quando entrambi i genitori, per motivi poco chiari, furono uccisi dagli Khmer Rouge. Secondo lampo e scoppio del minuto: lo ritroviamo a 10 anni, con un fucile di provenienza russo tra le mani, che viene addestrato, suo malgrado, in qualità di bambino del regime. Suo, del resto, fu il destino di un’intera generazione nazionale, coinvolta dai conflitti che servirono a ridefinire, più e più volte, il bordo impenetrabile tra le sfere d’influenza. Un concetto tanto pericoloso quanto deleterio, così inutile da non manifestarsi neanche nelle mappe del futuro. Ma che richiedeva, nonostante questo, sangue, piombo e terra di nessuno. La quale, generalmente o preferibilmente, impraticabile. Terzo scoppio… Aki Ra, preso prigioniero dall’esercito vietnamita, viene messo a lavorare. Piazzerà, negli anni dell’adolescenza, un imprecisato numero di mine. Chissà quante sono ripassate, ad anni di distanza, tra le stesse ferme mani!

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