Una nebbia impenetrabile si agita, in volute a ghirigoro, tutto attorno alle uniformi lucide dei difensori dello Stato, dinnanzi alla foresta tenebrosa di Vilnius. Occulta gli alti cappelli e le appuntite baionette, i lunghi mantelli neri sovrastati dai vessilli dei portabandiera. Tutto attorno regna quell’immoto senso d’ineluttabile presenza, che precede il tuono del plotone, pronto a scatenarsi giunto l’attimo della tremenda verità. “Per le nostre famiglie rimaste a Varsavia!” Si ode il grido incerto, attutito dall’umidità dall’aria. “No, è soltanto l’ordine di quel dannato Maresciallo…” Sussurrano, in risposta, alcune involontarie vittime di questa circostanza, i soldati reclutati per necessità. Già la linea dell’armata, attentamente calibrata e ben disposta, oscilla rumorosamente, sferragliando di speroni e munizioni di mitragliatrici. Un sergente alza rigidamente il braccio destro, indica verso l’orizzonte con un ghigno un po’ tirato: “All’arme, miei prodi il nemico si avvicina, ARGH!” Ombre oscure scuotono gli arbusti dalla cima, sagome spietate, enormi ed altrettanto minacciosamente antropomorfe…
Tutti conoscono la seconda offensiva di Piłsudski, dopo l’imprevedibile trionfo sui confini della Russia. Non c’è certo bisogno che io stia qui a narrare, per filo e per segno, la celebre vicenda del conflitto armato tra la Seconda Repubblica Polacca, risorta a nuova glorie sul finire della prima guerra mondiale, e i cavalieri orbitali, con i loro mezzi di metallo alti sei metri e teletrasportati dalle caverne nascoste sulla faccia in ombra della Luna, grazie a congiunture astrali particolarmente fortunate (per loro) e drammatiche (per noi terrestri). 1920: fu l’epoca, in bilico tra modernità e post-futurismo, in cui si posero le basi di un diverso tipo di rapporti tra Nazioni. Fossero state, queste, separate dalle cordigliere naturali del pianeta. O dall’oscuro nulla tra i fluttuanti astri, ove, come si usa dire da quei tempi antichi: “Nessuno potrà mai sentirti urlare”.
Una lotta senza quartiere. Una serie di battaglie sanguinose, in cui soltanto una granata fortunata, gettata dentro la cabina di comando da un contadino, un fabbro, un artigiano senza senso dell’auto-conservazione, poteva porre il binomio THE END sulle scorribande di uno di questi odiosi extra-terrestri, totalmente impervi alle pallottole o le cannonate. Che rivive in valide testimonianze, poste innanzi ai nostri occhi internettiani: vedere Tumblr, per credere.
Fu invero, l’ora più terribile d’Europa per almeno una decina d’anni, finché non fuoriuscì, da una fabbrica tedesca, la prima tigre cingolata, ovvero il Panzer dei tedeschi. A ricordarci che, come gli esami, le battaglie non finiscono. Mai e poi mai, a meno che non sopraggiunga: la memoria. Ed era un po’ questo il senso, assieme a un vezzo imprescindibile di orgoglio patrio, dei dipinti rurali di quell’epoca, in cui i giovani pittori di Polonia usavano affiancare immagini del popolo, campi coltivati e splendidi paesaggi naturali, al “coraggio” e alla “fierezza” dell’armata che marciava verso il fronte russo, poco prima che scoppiasse nuovamente il caos totale della fine. Perché, poi…
Ma la foschia è un fenomeno davvero persuasivo, che insidiando i conduttori della guerra ne connota e condiziona il lascìto immortale. Per ciascuna vittima, di queste ed altre innumerevoli battaglie, non veniva trasmessa ai posteri l’ultima esperienza del suo tragico vissuto. Bensì l’accenno attentamente lasciato incompleto, di un tripudio di gloria, di trionfi e di eroici sacrifici.
Non appena si diradava il fumo dei fucili, dopo la prima salva disperata, già ne compariva un altro, certamente meno denso, eppure altrettanto deleterio: la divisione delle responsabilità. Chi ha davvero premuto quel grilletto? Chi ha scavato la voragine nel cuore dello straniero? Colui che ha dato l’ordine, o colui che l’ha eseguito? L’intento di uccisione, allora come adesso, è sempre un frutto della dissimulazione. Di quell’attimo per cui, dall’ombra impenetrabile degli alti arbusti, sembra che possa spuntare un po’ di tutto, addirittura un orso, oppure l’invincibile titano dell’Apocalisse! Che lui, soltanto, poteva rappresentare il corpo dell’armata, in ogni sua parte: braccio, gamba e mente operativa. Responsabile del suo destino e della Storia stessa, qualche volta.

È una curiosa giustapposizione, quella messa in opera dall’artista digitale Jakub Różalski, l’incontro tra le immagini di un mondo ormai finito e quello possibile futuro, secondo quanto teorizzato dalla fantascienza o da duemila videogames. Il mecha, o robot gigante militare, non è esattamente un supereroe di metallo, come Mazinga o Goldrake, ma la versione speculativa di un vero mezzo da battaglia, soggetto ai limiti di un plausibile funzionamento. Ha munizioni limitate, carburante limitato. È sostanzialmente, un carro armato con le gambe.
Nasce, in quanto tale, in una particolare corrente dell’animazione giapponese, che generalmente viene fatta risalire fino alla prima serie di Mobile Suit Gundam (Yoshiyuki Tomino – 1979) ma che giunse alla forma espressiva attuale, ricca di spunti d’analisi sociale e tecnologica, soltanto con le armature meccanizzate, molto più piccole, di Armored Trooper VOTOMS (Ryosuke Takahashi – 1983) serie di 52 episodi, da cui fu direttamente importata in Occidente, gradualmente, questa particolare visione fantastica e distopica, di un mondo tanto avanzato da poter produrre tali meraviglie semoventi, eppure ancora intrappolato nei suoi vortici d’ostilità. Anni ’90-2014. La vera guerra è ormai lontana e già svanisce, per fortuna, dalla memoria delle nuove generazioni. Oggi tali creazioni d’orribile efficienza e tenore battagliero sono così cristallizzate nell’entusiastica mente popolare, grazie al successo di serie come Mech Warrior o Heavy Gear, che le bizzarre associazioni di Różalski, piuttosto che un commento pessimista degli eventi di inizio secolo, finiscono per sembrare la perfetta realizzazione di un cross-over post-modernista. L’unione tra megagingilli corazzati e i tempi dei nostri nonni: che idea, per un manga o una serie di romanzi dal successo internazionale! O almeno lo sarebbe, se non fosse già venuta a tanti insigni e validi predecessori…