Le terrificanti tigri canine del Karnataka

Questa è la storia di un singolo rappresentante della specie umana su questa Terra, il suo alleato geneticamente assai diverso nell’aspetto e provenienza, un barattolo di tinta per capelli ed il confronto quotidiano col pericolo di un popolo dai molti intrighi e stratagemmi. É un po’ come il poema epico fondamentale per la religione Induista del Mahābhārata da questo specifico punto vista, tranne che per una fondamentale inversione dei ruoli: il saggio e potente Hanuman, immortale re delle scimmie, potremmo infatti qui trovarlo dalla parte dei cosiddetti “cattivi” piuttosto che come fratello e compagno di mille battaglie del protagonista. Se non fosse per la presenza di ardue circostanze alla base di tutto ciò, fondamentalmente dettate da una difficile condizione di partenza: la riduzione delle risorse disponibili nella foresta, portando coloro che si adattano, per propria istintiva predisposizione, ad adattarsi… Eccessivamente. Diventando così un pericolo scimmiesco per se stessi e gli altri. Sto parlando ovviamente dello zati o macaco dal berretto (Macaca radiata) visione tanto frequente in taluni stati meridionali del subcontinente indiano da lasciar pensare, qualche volta, che possano esisterne in quantità persino maggiore dei sempre invasivi, e nonostante tutto iper-invadenti esseri umani. Sarebbe tuttavia piuttosto presuntuoso affermare, dalla comodità dei nostri reami domestici del tutto privi d’invasori voraci, famelici ed urlanti, che la colpa sia soltanto loro, ed ogni responsabilità di tale relazione conflittuale vada ragionevolmente attribuita nei confronti dell’unica parte, tra le due, che disponga del concetto di confini ragionevoli e la proprietà privata. Il che non può del tutto togliere, del resto, la prerogativa di risolvere la guerra grazie a quello stesso ingegno trasversale che in ambito antico attribuiamo a Ulisse, l’inventore Greco del cavallo di Troia.
Già, creare l’illusione immaginifica di un animale. Qualche volta non è facile, mentre in taluni casi, tutto ciò che occorre è spingere il destino lievemente verso una particolare direzione. Ed aspettare che l’innato pessimismo di ogni essere, possibilmente, si occupi del resto. Ed è proprio propedeutico per questo il ruolo che potremmo attribuire in una simile vicenda al cane di Srikanta Gowda, abitante del villaggio di Naluru nei dintorni di Thirthahalli, quello che potrebbe essere un ibrido lupesco-labrador o similare, acconciato per l’occasione a una finalità potenzialmente scritta nelle profezie degli antichi: agire come un’ottima barriera tra uomo e natura, ovvero spaventare (così sembra) quelle suddette scimmie che aggrediscono il raccolto, rubano le scorte e infastidiscono i turisti, proprio grazie all’applicazione ad arte di una serie di strisce scure convergenti e parallele sul suo manto dorato. Il che tende in effetti a richiamare, riuscite ad immaginarlo? La regina della giungla in persona, quella tigre che qualunque scimmia teme, in modo istintivo e imprescindibile, tenendosi a rispettosa distanza di sicurezza. Ora è noto che il macaco, tra i primati, non sia certamente il meno intelligente. Ma egli d’altra parte non è in grado di comprendere a che punto due dei suoi più ostili oppositori possano allearsi, così come fatto con l’effettivo minore dei mali, can che abbaia, e qualche volta morde, in mezzo ai solchi paralleli delle piantagioni di caffé, areca o cardamomo. La chiamano colorazione aposematica, come quella adottata da tante creature velenose per scoraggiare eventuali predatori o in modo ancor più pregno mimetismo batesiano, come quello adottato da specie inermi, per ricordare al nemico i propri nemici più temuti, solo che stavolta, siamo proprio noi a crearli…

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Il valore di venti cattedrali sepolte nella montagna di sale

Il pilota momentaneamente privo di peso guardò grazie all’immaginazione attentamente verso il basso mentre il cielo marmorizzato gli scorreva attorno, nel timore di trovarsi intrappolato all’apice della sua stessa manovra; ma l’estrema manovrabilità posseduta dal suo Supermarine Spitfire, persino in condizioni tanto fuori dal normale, sembrò garantirgli il tempo necessario a completare la picchiata nel momento esatto in cui il Bf-109 stava per aprire il fuoco. La luce dei proiettili traccianti, a quel punto, rischiarì la scena, soltanto in parte illuminata dalle stelle fisse del sottosuolo: un territorio candido drammaticamente vicino al fondo stesso delle sue ali, che sembrava estendersi fino all’estremo, per poi sollevarsi ai lati e quindi, incredibilmente, ricongiungersi verso l’oscura ed invisibile volta dei “cieli”. Enormi figure statiche, dal basso, osservavano il duello, senza dimostrare nessun tipo di timore. Mentre due di esse, particolarmente concentrate, puntavano i radiocomandi all’indirizzo del rispettivo contendente, costruito con le proprie stesse mani. Perché tutto ciò che deve scendere, talvolta finisce invece per salire. Ed è difficile distrarsi, mentre sale, sale, sale…. Già, perché, cosa credete di vedere? Questo non è certo un duello risalente a un’episodio misterioso della guerra per l’inesistente Terra cava, né un incontro tra gli spettri fantasmagorici di un qualche fantasioso manga giapponese; bensì l’annuale torneo d’aeromodellismo, piuttosto semplice nei suoi elementi di base, che si tiene presso la città di Slănic, Romania centro meridionale. Dico “piuttosto” e non del tutto, più che altro in funzione del luogo in cui si svolge, in grado di rappresentare semplicemente una delle singole caverne artificiali più ampie di tutta Europa e probabilmente del mondo, con i suoi 196 metri di lunghezza per 96 d’altezza, disposti in un’insolita configurazione trapezoidale. Scavati originariamente per una ragione estremamente importante, come esemplificato dal nome stesso della città soprastante: nient’altro che la parola nell’idioma romanzo di quel paese, usato per riferirsi al letterale oro bianco del mondo Medievale ed Antico. Quella sostanza capace di conservare ed insaporire i cibi, guarire le ferite, favorire la concia delle pelli e la forgiatura dei metalli, per cui un regno poteva finire in vendita, e pressoché chiunque diventarne il sovrano. Pressoché chiunque, nello specifico, fosse in grado di vederci abbastanza lungo ed acquistare i diritti minerari rilevanti, come fatto dal postelnic (rango di una certa rilevanza tra i nobili boeri) Mihail Cantacuzino nel 1686, quando volendo investire nell’estrazione mineraria, egli acquistò una tenuta situata 5 Km ad est di Teisani, dove alcuni timidi tentativi d’estrazione erano stati tentati mediante l’implementazione di pozzi verticali. Ma niente a che vedere con il tipo d’impresa che egli, grazie alle copiose risorse finanziarie della sua famiglia, si dimostrò fermamente intenzionato a creare: in buona sostanza, lo scavo di enormi gallerie in prossimità dei tre specchi d’acqua termale, anch’essi salati, delle cosiddette Baia Verde, Rossa e “del Pastore”. Una verticale, direttamente verso le viscere della Terra ed un’altra obliqua verso i pendii idonei all’estrazione del prezioso contenuto della montagna, tanto prezioso da potergli permettere, a qualche anno di distanza, di costruire il rinomato monastero di Coltea presso Bucarest, con l’importante ospedale annesso, uno dei primi della regione. L’approccio utilizzato in tale miniera, tuttavia, era ancora di un tipo arcaico con configurazione ogivale che limitava in parte l’efficienza raggiungibile dai minatori. Il che lasciava, ai suoi fortunati eredi, ancora sensibili margini di miglioramento…

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Finalmente dimostrato l’ottimo connubio tra kabuki e Star Wars

Si tratta di una di quelle notizie in grado di suscitare un immediato senso del dubbio, subito seguito dallo scetticismo inerente nel venire a patti con tali balzane idee. Almeno fino a quando, come avvenuto solamente poche settimane fa, la Disney stessa non fa il nome di colui che dopo tutto, avrà il compito di sostenere sul palcoscenico la pièce: niente meno che il solo ed unico Ichikawa Ebizō (in effetti l’undicesimo, ma comunque l’unico al momento) forse il più celebre attore vivente dell’altra forma tradizionale di drammaturgia giapponese, dopo i rigidi formalismi dell’ancor più antico teatro Nō. Nome degno di essere ereditato, attraverso i quattro secoli di una simile forma d’arte, di volta in volta dal secondo più importante e rappresentativo volto in qualità di yagō (屋号 – nome della casa o nome ereditario) come voleva l’usanza di tante arti e mestieri di questo paese. Destinato questa volta ad interpretare niente meno che il samurai Kairennosuke (魁連之助 ) sostanziale reinterpretazione del “cattivo” della più recente trilogia, attraverso i tre momenti più drammatici della sua esistenza d’individuo e guerriero: l’uccisione spietata del padre Hanzo (半蔵 – Han Solo) la ribellione contro il malefico maestro Sunonaku (敷能 – Snoke) ed infine la battaglia col fantasma di Ruku (琉空 – Luke) sul pianeta di sale, Crait. Un annuncio ai margini del quale, in aggiunta alla curiosa traslitterazione dei nomi, in realtà finalizzata a poterli rendere attraverso l’impiego d’ideogrammi piuttosto che l’usuale alfabeto sillabico katakana, colpiva la scelta di dividere la trama in atti cronologicamente così distanti, così lontano dal linguaggio cinematografico ma totalmente in linea col formato di tanti celebri drammi del teatro kabuki. Così dopo il completamento di una lotteria segreta, così come misterioso sarebbe rimasto fino all’ultimo momento il luogo dello spettacolo, destinato ad essere inscenato soltanto una volta e per un gruppo di fortunati spettatori a poche settimane dall’uscita nelle sale del prossimo film, la rappresentazione sarebbe stata successivamente proposta in streaming per un pubblico globale, affinché tutti potessero stupirsi, o in qualche modo rimanere colpiti, dalla strana ma efficace commistione d’influenze tanto (apparentemente) distanti.
Ichikawa Ebizō XI stesso, quarantunenne al secolo Takatoshi Horikoshi e figlio di un altro gigante del kabuki contemporaneo, Ichikawa Danjūrō XII, è il centro assoluto di ciascuna delle tre scene, con l’impressionante kimono nero dai risvolti rossi che allude all’armatura di Kylo e un’interessante katana, dotata dell’essenziale elemento cruciforme allusivo all’arma del personaggio da lui interpretato. Mentre al posto della maschera indossata da costui, egli stringe nell’altra mano la tesa di un ampio cappello nero, dal riconoscibile mon (emblema) geometrico, usato a più riprese come ausilio drammatico, scudo o schermo che accentua, piuttosto che nascondere le sue espressioni. Ma è l’effettivo pathos dei momenti, accompagnato da quel senso di un corposo melodramma che da sempre è una parte inscindibile della saga di Star Wars, esattamente come della trama di tanti drammi kabuki, a portare fino alle più estreme, nonché desiderabili conseguenze una tale espressione della rinomata creatività nazionale, così trasformata in mezzo che apparentemente riesce a completare il ponte tra due culture tanto diverse, ma simili nei sentimenti e talune idee di partenza. Nonostante nel procedere della vicenda, alcuni cambiamenti di storia dovessero necessariamente essere introdotti…

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L’antica invenzione del carro meccanico che punta sempre verso Sud

Nella tradizionale serie di liste che corrispondono, su diversi livelli sociologici e culturali, ai più caratteristici aspetti della cultura cinese, una di quelle più frequentemente citate contiene le celebri Sì dà fāmíng (四大发明) ovvero “quattro invenzioni” considerate nient’altro che fondamentali per l’avanzata inarrestabile del progresso umano. E queste sono, alquanto appropriatamente, la carta, la stampa, la polvere da sparo e la bussola, che in modo così profondo seppe rivoluzionare i processi di navigazione attraverso territori precedentemente inesplorati. Benché le prove archeologiche dimostrino come le specifiche caratteristiche della magnetite fossero ben note alla cultura cinese sin dal II secolo d.C, venendo questa utilizzata in un particolare tipo di rituale religioso e conseguente divinazione degli eventi futuri, mancano tutt’ora prove del suo effettivo impiego per la costruzione di bussole, sia pure rudimentali, almeno fino all’epoca corrispondente all’anno 1.000 del nostro calendario. Come sia possibile un simile distacco di natura cronologica, nell’adozione di un sistema tecnologico tanto essenziale, dunque, potrebbe apparire largamente misterioso. Se non fosse per l’esistenza in quello stesso contesto di un diverso metodo capace di tenere conto degli spostamenti attraverso notevoli distanze, universalmente noto come lo Zhǐnán chē (指南车) o “Dito [che punta] automaticamente verso Sud”. Ora per capire esattamente ciò di cui stiamo parlando, sarà opportuno specificare come lo specifico dito fosse in effetti attaccato alla mano ed il corrispondente braccio, di una statua presumibilmente a dimensione naturale raffigurante un Immortale Taoista (nessuna preferenza in materia) montata sopra un carro. La quale, non importa quante volte il proprio piedistallo fosse stato voltato attraverso un travagliato tragitto, avrebbe sempre indicato esattamente nella stessa, fondamentale direzione.
L’oggetto che oggi siamo soliti chiamare carro che punta verso Sud viene quindi generalmente attribuito alla vicenda personale di un particolare personaggio, benché lo stesso aneddoto che ne giustifica l’invenzione, nei fatti, faccia chiaramente riferimento ad episodi della storia pregressa, che a seconda delle diverse versioni potrebbero averne visto il principio in uso sin dall’epoca antichissima della dinastia degli Zhou Occidentali (1050-771 a.C.) ed il suddetto ri-scopritore averlo costruito per rispondere alla sfida, scettica e beffarda, dei suoi colleghi e contemporanei. Il grande tecnico e ingegnere, nonché membro della burocrazia imperiale della tarda epoca dei Tre Regni Ma Jun (200 – 265 d.C.) era in effetti un personaggio capace di attirare l’invidia di molti, date le origini umili che non gli avevano impedito di accedere alle grazie del nuovo imperatore Cao Wei, nipote del famoso signore della guerra che soltanto poche decadi a quella parte, aveva unificato la Cina attraverso un’infinita serie di stratagemmi, battaglie e tradimenti. Ma la gloria accumulata da suo nonno Cao Cao il grande (155 – 220) già iniziava ad essere un ricordo lontano, mentre lo stile di vita dei suoi successori si dimostrava troppo auto-indulgente, costoso e distaccato dalle effettive necessità dei propri sottoposti. Così che, mentre già l’Impero si preparava a passare in mano all’ennesima dinastia, quella iniziata dal “fedele” stratega e sottoposto Sima Yi, che nel giro di un ventennio avrebbe messo un proprio discendente sul trono di giada. Ed era precisamente questo il contesto storico, in bilico tra ulteriori difficili battaglie, che la capacità creativa di Ma Jun ebbe maniera di risplendere, attraverso una serie di creazioni come un diverso sistema d’irrigazione, un teatrino meccanico animato da diverse dozzine di automi per l’intrattenimento dei potenti e tra le due cose, il suddetto miracolo della navigazione stimata. Sapete, a tal proposito, che cosa sia il dead reckoning? Un processo attraverso il quale, una volta determinato il proprio punto di partenza, si tiene conto degli spostamenti effettuati a partire da quest’ultimo. Ottenendo, un momento dopo l’altro, la stima ragionevolmente precisa di dove ci si trova e dove, effettivamente, siamo diretti…

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