La leggendaria arma in grado di vincere la seconda guerra mondiale, che sta agli Stati Uniti d’America come Excalibur all’Inghilterra Medievale. Con una singola, insignificante differenza: di questi ne furono prodotti approssimativamente 5,4 milioni. Tutto merito della catena di montaggio, derivazione pratica delle moderne soluzioni industriali. Chi non conosce un simile arnese, alla fine? L’abbiamo visto più volte al cinema, e non soltanto nei film bellici che andavano di moda 30, 40 anni fa. Le nuove generazioni lo hanno sperimentato, in effetti, grazie alla pletora di videgiochi immessi sul mercato sull’onda del successo stratosferico del primo Medal of Honor, uscito esattamente un anno dopo il successo ai botteghini di Salvate il Soldato Ryan di Spielberg. Ed è difficile dimenticarla, anche soltanto in forza del suo funzionamento così evidentemente DIVERSO da tutto quello contro cui veniva utilizzata: ecco un fucile dal fuoco completamente semi-automatico, negli anni ’40 dello scorso secolo, perfettamente solida, affidabile, pur essendo antecedente al concetto di caricatore. Per usare la quale, ci si aspettava che il soldato inserisse direttamente la clip dei proiettili facendo arretrare l’otturatore nella parte superiore, ragione per cui, una volta inseriti gli 8 proiettili calibro .30, non ci si aspettava di aggiungerne degli altri fino al caratteristico suono “DING” emesso dal meccanismo a gas rotativo al termine della raffica, durante l’espulsione automatica della graffetta che teneva assieme le munizioni. Un suono tanto riconoscibile,p che si diceva costituisse un pericolo per i soldati, poiché informava il nemico che per i prossimi due o tre secondi non sarebbero stati in grado di rispondere al fuoco. Ma la realtà è che in guerra, raramente ci si trova a combattere uno contro uno. E i tedeschi o i giapponesi, durante i conflitti a fuoco, sapevano bene che il nemico aveva sempre almeno un compagno di squadra, il quale si era ben guardato da esaurire le sue risorse in contemporanea con chi gli avrebbe protetto a sua volta le spalle. E tutti e due, così facendo, avanzavano verso l’obiettivo. No, il problema dell’M1 Garand, definito dal generale Patton “Il più grande implemento bellico mai costruito” era semmai un altro. Di natura certamente più triviale, eppure così dannatamente, sgradevolmente doloroso…
Hickok45 è uno di quei produttori di contenuti su YouTube i quali, nonostante la delicatezza degli argomenti che tratta occasionalmente in nello scenario geopolitico vigente, non vedranno mai calare sulla loro opera il temuto martello della demonetizzazione. Semplicemente troppa fiducia ispira il suo pacato modo di fare, la voce tranquilla, i continui riferimenti al fatto che lui spara soltanto per “divertimento, sport e divulgazione storica”. Più volte criticato per la maniera irregolare in cui gestisce l’otturatore girevole-scorrevole di certi fucili della seconda guerra mondiale, ha ad esempio risposto: “Altrimenti diventa faticoso. Quando saprò che sto per andare in battaglia con uno di questi, mi preoccuperò di usarli nel modo che voi definite giusto.” Chi l’avrebbe mai detto? Creatività nell’uso delle armi da fuoco. E una naturale simpatia, che traspare da molti degli approcci esplicativi, come nel qui presente nuovo segmento creato attorno ad uno dei pezzi più amati della sua collezione, l’M1 Garand di ordinanza prodotto ad ottobre del 1943 (“Forse vi ricorderete…” minimizza da sotto il gran paio di baffi “…di un qualche piccolo conflitto in quegli anni.”) Video che si preoccupa di mostrarci, forse per la prima volta, un problema con cui dovevano avere a che fare quotidianamente tutti i membri della fanteria degli Stati Uniti d’America: il cosiddetto pollice Garand. È una questione che nasce, se vogliamo, dalla stessa poca fiducia che il progettista omonimo canadese, su precise istruzioni del comando centrale, aveva avuto nel soldato di linea medio, al quale era stato deciso di non assegnare un caricatore estraibile, che egli avrebbe potuto smarrire in battaglia. Così che ci si aspettava da lui, come già accennato, che inserisse i proiettili direttamente con le dita, facendo affidamento sul blocco automatico dell’otturatore. Peccato che, soprattutto dopo un lungo utilizzo, tale meccanismo finisse per avere un’affidabilità dubbia. Così che, una volta spinte a fondo le clips, capitava che a volte la molla lo spingesse improvvisamente in avanti. Con una forza sufficiente a spezzare nettamente in due una matita!
pericolo
Come salvarsi dalla resina dell’edera velenosa
Arrossamento; vesciche; copioso sanguinamento. Nell’odierno scenario delle comunicazioni internazionali, alla base della diffusione involontaria delle piante ed animali più diversi, non è mai superfluo documentarsi sulle specie per noi aliene. Poiché non è detto che in un giorno particolarmente (s)fortunato, durante una scampagnata fuori i confini cittadini, non ci capiti di essere proprio noi, i primi a scoprirne la presenza sul territorio italiano. Esperienza che nel caso delle Toxicodendron radicans, diversilobum o vernix, potrebbe rivelarsi decisamente dolorosa. È un tipo questo, alquanto insolito di sofferenza. Sopratutto nell’ambito vegetale, dove saremmo indotti a pensare all’effetto dell’ortica coi suoi peli urticanti, il cui prurito è generalmente percepito nel giro di pochi minuti e dura qualche ora. Mentre nel caso dell’urushiol, l’olio malefico contenuto nella resina di queste piante dai caratteristici raggruppamenti tripli o multipli di foglioline, stiamo parlando di una sofferenza che può palesarsi anche a giorni di distanza, per poi durare settimane o mesi. Ma si potrebbe anche dire, visto l’effetto incrementato di un eventuale secondo contatto anche a distanza di molti anni, che l’organismo umano non guarisca mai più. Urushiol naturalmente deriva dalla parola giapponese urushi (漆) che indica la particolare vernice lucida ricavata dalla linfa dell’alto arbusto Toxicodendron vernicifluum, anche detto albero della lacca. Il quale, per generazioni senza tempo, è stato alla base del più fantastico ventaglio di manufatti decorativi, oggetti religiosi e persino l’armamentario dei guerrieri samurai. Altre piante che appartengono allo stesso genus includono l’anacardio, il mango ed il sumac, che veniva impiegato durante lo shogunato Tokugawa per produrre un tipo di candele alternativo a quello della cera d’api, per molti versi preferito dagli abbienti consumatori. Potrebbe dunque sembrare strano, che piante dotate di una sostanza potenzialmente nociva (come esemplificato dal prefisso latino nel nome scientifico, toxico-) possano essere ingerite o bruciate all’interno di ambienti chiusi, con l’assoluta certezza di ritrovarsi la loro essenza a ricoprire le pareti interne dei nostri organi più vitali. Ma il punto è che questo particolare veleno, se davvero così può essere chiamato, agisce soltanto in maniera indiretta attraverso una reazione allergica della vittima malcapitata. E tale reazione, in effetti, è MOLTO più frequente a partire dalle tre succitate specie, prevalentemente diffuse nella parte settentrionale del continente americano. Per ora?
Nel momento in cui dovessimo trovarci a gestire un’infestazione di tali diaboliche forme di vita vegetali, ad ogni modo, avremmo per lo meno un vantaggio: la possibilità di scorrere su Internet attraverso i lunghi secoli di sapienza popolare accumulati da coloro che ci hanno dovuto convivere da sempre, sperimentando a più riprese la terribile esperienza del suo tocco difficile da dimenticare. Persone come lo specialista di habitat per cervi Jim Brauker, titolare del canale di YouTube Extreme Deer Habitat, che facendo un lavoro che si svolge necessariamente in alcune delle zone più selvatiche del sottobosco statunitense, si è trovato più volte a dover gestire l’incontro indesiderato con queste piante. Il che è particolarmente problematico, proprio perché sviluppa e potenzia ulteriormente la reazione del nostro sistema immunitario all’urushiol. Eventualità sconveniente: poiché la natura di questa sostanza non è quella di attaccare direttamente le cellule, bensì di indurle ad assumerne serenamente i princìpi attivi, pochi istanti dopo che i linfociti T, tra i più strenui protettori dell’organismo, riescano ad individuarli come elementi pericolosi per l’ordine costituito. Con la risultanza che, a quel punto, attaccheranno le loro stesse unità biologiche consorelle, causando le spiacevoli lesioni elencate in apertura. Ora se voi leggete tra le righe, comprenderete che cosa significhi tutto questo: ad ogni successivo evento d’invasione, i linfociti reagiranno con una maggiore prontezza e violenza. Causando sofferenze indicibili ai loro incolpevoli proprietari. Cosa fare dunque, come salvarsi da una simile punizione Divina? Brauker consiglia un approccio apparentemente semplice, pur essendo fin troppo spesso trascurato….
Nell’arida California, rosso è il colore che ti salva dal fuoco
Sedevo in veranda leggendo nervosamente un buon libro, mentre all’improvviso mi resi conto del problema: “Se il vento cambia, sarà la fine.” Non perché abito in una di quelle case fatte di carta, sulla strada lungo cui transita un uragano. Ma perché tutto quel verde che sorge oltre la siepe, a dire il vero, è un bosco del peggior tipo: un bosco californiano. Straordinariamente rigoglioso, per l’effetto di una stagione delle piogge ogni anno lunga e intensa, eppure eccezionalmente secco, proprio per la totale assenza di precipitazioni a partire dall’inizio del vero e proprio periodo invernale. Quest’anno, poi, la situazione è semplicemente la peggiore a memoria d’uomo. Ciò causa l’inversione dei venti, che normalmente soffiano da ovest, portando l’aria umida dell’Oceano Pacifico. Mentre oggi, causa il palesarsi di una perturbazione nota col nome seriamente programmatico di (El) Diablo, provengono dritti dal nord-ovest dell’arido Mojave, dove i coyotes inseguono il Geococcyx californianus, comunemente col nome di “uccello Beep Beep”. Descrizione conduttiva di un noto paesaggio, ed un particolare grado di umidità, che potremmo semplicemente descrivere come uno zero spaccato, per di più ricoperto di crepe. Venti come questo non spengono gli incendi sul nascere. Simili flussi d’aria, quando incontrano il fiore che tutto arde e consuma, lo sollevano in un caldo abbraccio, e lo portano innanzi per fargli conoscere il mondo intero. “Eh, si.” Sospiro. Per lo meno, c’è un lato positivo: rispetto al mare di lingue di fiamma che ricopre intere contee della dimensione di una piccola nazione europea, come l’incendio di Nuns, quello di Atlas e Partrick, la mia fortunata abitazione si trova sopravvento. Così che, l’intera località dei miei soggiorni non ha ancora ricevuto l’ordine di evacuare. È in quel momento che alzo lo sguardo, casualmente, verso il gallo segnavento sul tetto del mio salotto. E noto, con momentaneo orrore, che si è voltato di lato. Chissà da quanto! Eppure prima che io possa prendere atto di cosa significhi tutto questo, odo un rombo possente nell’aria: “Possibile che…Che…” Ehi, aspetta un attimo. Il fuoco non fa rumore. Voglio dire, non produce rombi paragonabili a quelli di un bimotore da trasporto che vola a bassa quota, con apertura completa della manetta per far fronte al peso del carico che si trova, ancora per poco, a bordo. Poiché nessun californiano tarderebbe nel riconoscere la caratteristica livrea rossa e bianca, né la forma stilizzata del logo a banana sul lato della carlinga sospesa in aria: Cal-Fire. Cal Fire. Calfire: la California tracciata in maniera sommaria. Che brucia. Di nuovo…. Con occhi spalancati per lo stupore, guardo la forma straordinariamente aerodinamica del DC-10 ancora per un secondo, giusto il tempo necessario a scorgere l’emersione della polvere che fa seguito, immancabilmente, alle sue sortite. L’ombrello che emerge dal retro si allarga come la corona di un fiore. Quindi inizia a discendere verso di… Me! Chiudo il libro, balzo dalla sedia, corro verso la porta che da sulla veranda. Ho esattamente 10 secondi, al calcolo intuitivo, prima di essere trasformato nell’equivalente di un demone insanguinato sulla scena cardine di un film dell’orrore.
Narrazioni in prima persona a parte, sarà chiaro di cosa stiamo parlando, ormai. Il video mostrato qui sopra è in realtà l’ultima pubblicazione della YouTuber Jenny Crane, registrata mentre si trovava presso la casa del padre nella contea di Murrieta, non troppo distante dal confine messicano. La quale ha avuto, lo scorso 8 dicembre, la fortuna (?) di trovarsi al di sotto del passaggio di uno di questi aeromobili, deputati dal servizio antincendio dello stato ad assistere le forze di terra durante lo strenuo sforzo per contenere l’annuale, inevitabile disastro dello stato che brucia ogni anno, in maniera che tende costantemente a peggiorare. Dispositivi questi, talvolta a noleggio, ma nella maggior parte dei casi acquistati ed in uso ormai da decadi intere grazie al programma denominato CDF Aviation  Management, che invece che colpire direttamente le fiamme con un rilascio diretto mirato a spegnerle, utile soltanto nei casi meno avanzati, gettano qualcosa di totalmente diverso sulle possibili strade della sua diffusione. E il nome commerciale di questo prodotto, venduto in polvere ma poi mescolato ad acqua e pigmenti colorati, è Phos Chek. Nient’altro che una miscela di sali di diammonio, monoammonio, nitrogeno e fosforo con gomma degli alberi di Attapulgo e di Guar. Questo affinché, una volta rilasciata sulla foresta o le abitazioni, non scivoli immediatamente a terra, ma aderisca saldamente a ogni tipo di superficie. Ed operi, efficacemente, la sua magia…
L’insetto che tiene in scacco la penisola italiana
Ci sono animali la cui semplice vista, attraverso il corso della Storia, ha lasciato presagire il grave destino di coloro che li stavano incontrando per la prima volta. Sono creature generalmente impressionanti, come i leggendari elefanti di Annibale, condotti oltre le Alpi assieme a un esercito nella speranza di condannare l’Impero Romano. Ma forse gli invasori più pericolosi risultano essere, piuttosto, quelli che non riconosci da subito. Esseri piccoli, persino invisibili, alla maniera dei germi del raffreddore comune, che distrussero in maniera molto più certa e rapida alcune delle maggiori civiltà pre-colombiane. Mentre a volte, caso vuole che si verifichi l’eventualità intermedia. L’assalto di un qualcosa di piccolo ma non piccolissimo. Rischio palese ma non evidente. Momento in cui diventa niente meno che fondamentale, fidarsi della capacità di osservazione e la conoscenza pregressa di chi riesce, per primo, a presentare al mondo l’idea.
Ogni catastrofe inizia con delle avvisaglie preliminari e nell’era di Internet, queste possono concretizzarsi in una singola foto postata su un forum di discussione. Di un coleottero grazioso e per nulla inquietante, all’apparenza: 10 mm di scarabeo color bronzo/rame, con dodici ciuffetti di peli bianchi che punteggiano il suo profilo. Una forma tozza e piuttosto compatta, tranne che per la testa preminente che sormonta il torace, all’interno della quale sono parzialmente ritratte le antenne durante il riposo sopra una foglia. La mostrava ai suoi colleghi appassionati di entomologia Joannes Mikaeli, utente veterano del forum Natura Mediterraneo a luglio del 2014, con la semplice notazione di aver avvistato la piccola creatura lungo il Naviglio Vecchio nei pressi di Turbigo, in provincia di Milano, al fine di non influenzare il giudizio di coloro a cui stava chiedendo consiglio. Ma la realtà è che lui sapeva ciò dinnanzi a cui si era trovato, così come lo seppero immediatamente coloro che si trovavano dall’altro lato dello schermo. Una visione esiziale, l’artropode che porta alla condanna, il più piccolo foriero di un incipiente Apocalisse vegetale. Attorno al 1912, alcune uova di questa “insignificante” creatura furono malauguratamente importate negli Stati Uniti, si ritiene con la terra di un rizoma di giaggiolo. Il cui proprietario, esposta in vaso la pianta profumata sul suo balcone, non sapeva davvero quale danno stesse arrecando all’intera parte settentrionale del suo continente: circa 456 miliardi di dollari l’anno, all’epoca attuale, perduti nel destino d’intere piantagioni ridotte in polvere da implacabili mandibole masticatorie. Di piante come la vite, il susino, il pesco, il pero, il melo, la rosa, il rovo, il mais, il mirtillo, il pisello, la fragola, il pomodoro…. E dozzine di altre ancora. Tutto è commestibile, se sei un coleottero affamato. Ma forse bloccare una simile malefatta sul nascere non avrebbe fatto altro che rimandare l’inevitabile. Il Popilia japonica, prima o poi, sarebbe arrivato. O mamekogane, come lo chiamano nel suo paese d’origine in Estremo Oriente, dove costituisce poco più che un fastidio occasionale per gli agricoltori e i proprietari di giardini. Questo perché, nel Giappone degli insetti straordinariamente feroci, esiste un vasto ventaglio di piccoli predatori, evolutosi attraverso i secoli proprio per trarre vantaggio da questa fantastica capacità di proliferazione. Tra cui due vespe del genus Tiphia, vernalis e popilliavora, che hanno l’abitudine di scavare per deporre le loro uova sulla schiena delle larve di scarabeo, lasciando che la malefica prole  le divori prima della fine dell’estate. O la crudele mosca Istocheta aldrichi, che fa lo stesso agendo in una finestra di tempo minore, bloccando le infestazioni ancor prima che raggiungano il grado critico di diffusione. Per non parlare di svariate specie di uccelli in grado di divorare gli adulti in volo. Creature inconsapevoli, la cui opera diligente ha sempre impedito che la situazione sfuggisse di mano. Come è invece successo, volta per volta, in ogni singolo altro paese vittima nell’intero territorio globale.
L’avvistamento dell’appassionato del Web, propagato fino a chi di dovere, fu subito considerato un momento drammatico per la storia ecologica e preso sul serio dall’ente della EPPO (Organizzazione Europea e Mediterranea per la Protezione delle Piante) poiché costituiva il primo caso registrato di presenza di questo terribile distruttore sul Vecchio Continente, fatta eccezione per quanto registrato precedentemente presso le isole Azzorre. Ma il problema degli insetti è che come è noto, quando ne vedi uno è già troppo tardi. È probabile che ce ne siano già milioni… Diverse spedizioni successive, da parte di appassionati e personale qualificato nell’intero parco del Ticino, ben presto confermarono la verità. Uno dei più temuti coleotteri al mondo stava banchettando, volando e accoppiandosi sul verdeggiante territorio dell’inconsapevole Lombardia. In breve tempo ed a partire dalla rivista di settore L’Informatore Agrario, la notizia comparve sui principali giornali nazionali, mentre già si agiva per tentare di arginare la diffusione della terribile e voracissima creatura. Con la più immediata delle soluzioni: la disposizione in serie di trappole dall’alto grado di specificità…
					

