La cupola che condensa l’aria umida della Provenza

Un Colosseo alieno. I comignoli della ridente cittadina di Trans-en-Provence, sita a 30 Km nell’entroterra dalle celebri spiagge della Costa Azzurra, si susseguivano nella composizione del panorama, costruendo la prospettiva di un intrigante dipinto. Dalla cima della collina Hermitage Clos, l’ingegnere civile Achille Knapen scrutava l’alto muro della sua più desiderata creatura, alta 13 metri, perforata da oltre 100 piccole finestre rettangolari. Il capo del cantiere, suo amico di vecchia data, attendeva istruzioni in merito a una comprensibile incertezza sul prossimo passo da compiere, verso la realizzazione dell’imperscrutabile obiettivo. “Si, la malta e il cemento per la cupola vanno bene. Ma secondo i miei calcoli, simili materiali non riusciranno a dissipare una quantità sufficiente di calore. Dovremmo ricoprire anche la parte superiore con dei mattoni d’ardesia. Ne ordinerò un’altra tonnellata.” Certo, niente sembrava scoraggiare quest’uomo dalla doppia laurea, apparentemente dotato di risorse monetarie infinite. Il suo successo sulla scena francese e belga, del resto, era stato sancito dall’invenzione di un particolare sistema per preservare dall’umidità i palazzi e gli antichi monumenti, il sifone Knapen, concepito come un tubo d’argilla verticale in grado di estrarre l’aria attraverso le pareti. Ma questo grande successo, impiegato nell’anno del nostro Signore 1930 presso rinomati siti come l’Abbazia di Chaise-Dieu, il Grand Trianon e la stessa reggia di Versailles, era ormai rimasto addietro nella sua mente di fervido inventore. Che ricercando nuovi metodi per migliorare il mondo, si era riorientata su un’altra domanda: “E se…Fosse possibile invertire il processo?” Una fonte inesauribile, come un bricco sovrannaturale fuoriuscito dal corpus leggendario dell’antica Grecia. Acqua per tutti, in qualsiasi momento, utile a irrigare i campi nelle regioni aride, fornire sostentamento agli assetati, abbeverare le bestie, gli uccelli e le piante… Un qualcosa che in determinati luoghi, avrebbe potuto cambiare le prospettive stesse e l’aspettativa di vita per molte migliaia di persone. Il “pozzo” aereo, cosa c’è di meglio!
Annuendo in maniera enfatica, il manovale esperto del vicino paese di Puget-sur-Argent fece un cenno al ragazzo che stava trasportando i mattoni verso il cilindro traforato, non ancora dotato di un tetto. A quanto pare, la giornata di oggi si sarebbe conclusa senza fare ulteriori progressi. Era chiaro che Mr. Knapen, come suo solito, aveva un’idea precisa nella costruzione dell’edificio, benché fosse difficile intuirla. Di strutture simili, attraverso la sua lunga carriera, lui ne aveva costruite almeno altre tre, sopra e sotto la Provençale, principale arteria stradale che unisce la grande città di Marsiglia a Nizza, importante porto del Mediterraneo. Si trattava, secondo la classificazione professionale del suo mestiere, di nient’altro che follies, sul modello delle antiche decorazioni dei giardini barocchi francesi e inglesi, spropositate curiosità mirate ad intrattenere gli ospiti con il loro aspetto improbabile che alludeva alle fiabe. La torre avrebbe costituito una vista decisamente insolita dagli ampi spazi della villa, con oltre 200 mq di terrazzi colpiti di traverso dal sole. Lui di certo, c’era da ammetterlo, non ne aveva mai vista una così: larga e tarchiata, ben diversa da qualsivoglia castello o fortezza fatata, risultando piuttosto simile a un torreggiante alveare. E poi, c’era l’interno… Secondo il preciso progetto del rinomato ingegnere, i suoi operai avevano dovuto edificare un’alta colonna con un tubo metallico al centro, integralmente ricoperta di protrusioni di cemento, resa intenzionalmente ruvida da una vasta serie di solchi. Tutto sembrava mirare a una funzione, uno scopo per lui misterioso… Ma ben presto, l’oggetto sarebbe avrebbe ricevuto la sua copertura finale. Ed allora, non sarebbe più stato un SUO problema!

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La cavalcata robotica dei ragni rotolanti

In associazione al concetto stesso di un ragno che debba vivere nel vero deserto, non può semplicemente trovare posto una ragnatela. Poiché dove potrebbe mai assicurare i suoi fili, il piccolo cacciatore, in assenza di alberi, strutture o pietre di alcun tipo… In luoghi come gli erg marocchini, dove le dune raggiungono i 150 metri di altezza, e si estendono ininterrotte per oltre 50 Km, di calore battente, pioggia pressoché nulla e nonostante questo, popolati da una pluralità di piccole forme di vita. Primariamente rettili ed insetti, qualche mammifero, nonché naturalmente, l’aracnide occasionale. Non mancano mai! Che per quanto sopra delineato, non può che appartenere a una specifica famiglia: gli Sparassidae, o ragni cacciatori. Che come loro prerogativa, giammai costruiscono casa sopra il livello del suolo, ma piuttosto scavano in profondità, fino a 50 cm nella terra friabile che costituisce il terreno bruciante, per rifugiarsi dal sole infuocato e i loro molteplici nemici naturali. Un valido approccio, per sfuggire a cose volanti, striscianti o dotate di zampe artigliate, ma non al più temibile di tutti i nemici, ovvero la vespa pompilide, che una volta fiutata la presenza della sua vittima ad otto zampe, inizia a scavare, la sorprende nel buco e la punge, per deporvi all’interno le uova. Una morte terribile, quindi, aspetterà il ragno, che qualche settimana dopo sarà divorato da tali fameliche larve, in una ragionevole approssimazione della più celebre scena del film Alien. Ma l’evoluzione può mancare svariati bersagli, tranne quello fondamentale dell’imparzialità: e così mentre dotava il ronzante assassino delle sue armi, faceva dono a determinate specie di una valida speranza di salvezza: la capacità di balzare fuori e trasformarsi in una valanga.
Quando Ingo Rechenberg bio-robotista di Berlino nato nel 1934, si recò nel 2006 per l’annuale viaggio in Nord Africa, con l’obiettivo di testare le sue ultime invenzioni sulla sabbia friabile di tali luoghi, grande ostacolo di qualsiasi metodo di locomozione artificiale, non si aspettava certo di trovare la sua ispirazione durante una passeggiata notturna nell’Erg Chebbi, quando la sua potente torcia si ritrovò ad illuminare qualcosa sul bordo della duna. Un piccolo ragno che raccolse con le sue stesse mani e trasportò fino al campo base, dove ebbe modo di identificarlo in un primo momento come appartenente alla specie già nota del Cebrennus villosus. Se non che la mattina, mentre faceva colazione, l’aracnide riuscì ad eludere il recipiente in cui era stato intrappolato, appoggiò le sue zampe anteriori sul terreno e sollevò il deretano. Per poi completare la prima capriola, ed iniziare a prendere velocità. La vista era semplicemente incredibile, al punto che il New York Times riporta l’aneddoto secondo cui il professore si sarebbe commosso fino alle lacrime nel prendere atto dell’ingegno della natura, mentre gli ingranaggi della sua mente iniziavano a roteare a ritmo con l’ospite ormai lanciato a 2 metri al secondo verso le distanti radici dell’alba. Passano mesi, tra le insuperabili pareti della civiltà mondana, mentre l’inesauribile inventiva di quest’uomo non trova nuove improbabili applicazioni. Tra cui il robot Tabbot, vagamente simile all’essere mitologico del triskelion, una testa centrale con tre gambe disposte attorno alla sua circonferenza, secondo quanto raffigurato convenzionalmente, tra gli altri luoghi, sulla bandiera della Sicilia. Che in questa versione, d’altra parte, mostrava l’elemento dominante di una doppia ruota in plexiglass, con all’interno l’elettronica e i motori necessari a far roteare i tre arti pieghevoli, in grado di garantirgli un’ottima mobilità sul suolo dell’erg. Una creazione molto evidentemente ispirata dall’aspetto ed il modus del ragno. A cosa potrebbe servire, dunque? Rechenberg cita l’impiego in agricoltura, idraulica ma soprattutto, la futura esplorazione di pianeti lontani, dove un movimento affidabile su terreni accidentati potrebbe determinare la buona riuscita della missione. Ciò che costui non si aspettava, tuttavia, e probabilmente neppure noi, era che il suo nome sarebbe stato immortalato non tanto per l’opera continuativa di una vita intera, nella costruzione di ammirevoli dispositivi autonomi, quanto la scoperta accidentale di una singola sera. Così nel 2008, dopo molto cercare, lo scienziato veterano riuscì ad accaparrarsi un secondo ragno salterino e decise di trasportarlo, questa volta mediante l’impiego di un vaso ermetico, fino allo studio dell’aracnologo Peter Jäger, presso l’Istituto di Ricerca e il Museo di Storia Naturale di Senckenberg. Dove un’osservazione più approfondita della creatura, ed in particolare la conformazione dei suoi genitali, permisero di classificarla come l’olotipo di una specie del tutto nuova, che venne proprio in onore del suo scopritore ricevette l’appellativo scientifico di Cebrennus rechenbergi. E quello pensato per l’uso comune di “ragno flic-flac” per rendere onore al suo singolare, ed occasionale metodo di locomozione, tanto simile a quello dei ginnasti olimpionici durante le loro esibizioni. Che per la cronaca, non fu mai brevettato…

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La scienza può spiegare una cascata di sangue?

Ormai prossimi allo sfinimento per il gelo e le difficoltà incontrate, i geologi facenti parte della spedizione Terra Nova erano partiti da Butter Point il 26 gennaio del 1911, con l’obiettivo di raggiungere la zona ad ovest del canale di McMurdo, ancora largamente inesplorata. Nella storia delle grandi esplorazioni, l’Antartide ha avuto spesso questo effetto: la capacità di richiamare, coloro che avevano già speso le loro più preziose risorse sempre più in profondità, con una voce stentorea che pare provenire dalle viscere del mondo stesso. Quattro giorni dopo, ormai sfiniti per la marcia ininterrotta, Griffith Taylor, Debenham, Wright ed Edgar Evans si trovarono dinnanzi a uno spettacolo del tutto inaspettato. Il terreno in discesa, che si trasformava in una valle. Ed all’interno di questa, la quasi totale assenza di ghiaccio. Costoro non potevano sapere, all’epoca, di essere al cospetto di un fenomeno altamente specifico di tali luoghi. I forti venti catabatici, a velocità di oltre 320 Km/h, che nel discendere si scaldano in maniera significativa. Garantendo temperature non più basse di 0 -5 gradi in estate, contro i -25 medi del più meridionale dei continenti. E un’umidità quasi del tutto assente. Ovunque, tranne che in prossimità dei laghi: Vida, Vanda, Brownworth… Bonney. Nomi semplici e apparentemente familiari, per alcuni dei luoghi più salini della Terra, con concentrazioni molto superiori addirittura a quelle del Mar Morto. Nonché uno spettacolo ancor più macabro, in apparenza, di quel nome in grado di annientare la speranza di un domani. La cascata rosso sangue, alta quanto un palazzo di cinque piani, che soltanto periodicamente si palesa dalla roccia del ghiacciaio sopra il lago Bonney, mischiando il proprio flusso con le acque di quest’ultimo, in un lento turbinìo. L’impressione che si ha, di fronte a un simile titano, è di aver trovato l’evidenza di un’ecatombe. Se non fosse che quell’acqua scorre da millenni, eoni interi, e per quanto ne sappiamo, neppure siamo giunti alla metà della sua storia.
Ne parlò l’autore H.P. Lovecraft, nei suoi romanzi sugli dei venuti dalle stelle all’epoca della preistoria umana: ciò che dorme, risparmiando le sue forze, può restare vivo per l’eternità. In attesa che qualcuno, incautamente, giunga a disturbarlo con la sua presenza largamente indesiderata. Durante l’Era Proterozoica (2500-541 milioni di anni fa) la vita sulla Terra subì un significativo contrattempo: tutti quei batteri ed animali rudimentali, che ormai brulicavano su ogni superficie orizzontale, stavano generando quantità impressionanti di anidride carbonica. Ma le piante in grado di riciclarla, per produrre ossigeno, non erano ancora presenti in quantità adeguata. Così finì quel delicato esperimento. O quasi. Perché la vita, tenace come è sempre stata, trovò il modo di salvare se stessa, permettendo lo sviluppo di alcune forme totalmente nuove, in grado di prosperare anche in assenza di un ambiente che potesse dirsi a loro misura. Erano questi gli estremofili, creature microscopiche, racchiuse in gusci solidi, che si ritirarono del tutto dalla luce del distante Sole. Imparando a trarre il loro nutrimento dalle semplici sostanze chimiche dell’acqua che scorre nelle profondità del mondo. E potrà sembrarvi folle, eppure esse, sono ancora lì. All’interno di un brodo primordiale che non si è evoluto, semplicemente perché ha raggiunto il proprio massimo potenziale quando il mondo aveva un solo continente, o poco più. Ed oggi, la loro casa è stata finalmente mappata grazie allo strumento della tecnologia…
“Svelato il mistero della Cascata di Sangue” hanno titolato le testate internazionali a seguito della pubblicazione, avvenuta pochi giorni fa, dello studio condotto dalla studentessa Jessica Badgeley del Colorado College, assieme alla glaciologa Erin Pettit dell’Alaska Fairbanks e il suo team, finalizzato all’impiego di una coppia di antenne radar per raggiungere i più occulti pertugi sotto un simile ghiacciaio, alla ricerca di nuovi indizi sul suo complesso funzionamento. Mentre la realtà è che questa nuova spedizione, condotta grazie agli strumenti veicolari odierni, che hanno reso l’esplorazione dell’Antartico un’impresa assai mondana, non ha introdotto proprio alcunché di TOTALMENTE nuovo. Sono ormai diverse decadi, che è stata smentita l’ipotesi secondo cui l’acqua avesse tale colorazione a causa della presenza di un’alga, come pure è nota, almeno dal 2014, la presenza di un secondo vasto lago mantenuto liquido dal sale, posto tra la superficie e il piano della roccia sottostante. Il quale, con la sua alta concentrazione di ferro elementale, è la ragione della formazione della vera e propria “ruggine” mischiata all’acqua, che poi sgorga periodicamente al verificarsi delle giuste condizioni. Ciò che veramente cambia, oggi, è che per siamo finalmente in grado di sapere quali siano queste condizioni…

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Possiamo tenerlo? È un cucciolo d’insetto spadaccino

Nel consorzio lineare dei vermi, bruchi e piccoli serpenti, tutti quanti in fila dal tramonto fino all’alba, non c’è forse un membro più bizzarro e singolare della larva di Dynastes hercules hercules, neanche in grado di strisciare. Ma soltanto intrufolarsi, con la sua mandibola insistente, tra le fibre di un pezzo di legno marcio, e addormentarsi, poi mangiare, addormentarsi e poi mangiare. Fino a raddoppiare le sue dimensioni, e triplicarle addirittura, per giungere riempire facilmente un pugno umano:  150 mm, per 140 grammi, è l’obiettivo. Raggiunto il quale, il piccoletto si scolpisce un buco grosso esattamente il giusto, quindi secerne un’armatura ragionevolmente resistente. Ed a quel punto, inizia a mutare. Proprio come una farfalla! (Uguale!!) Generalmente, nell’allevamento di tali creature (che vi stupirà ma è alquanto diffuso, soprattutto in Giappone) si consiglia di lasciarle seppellite fino all’attimo dell’emersione spontanea dell’insetto maturo, prevista nel giro di un paio di mesi dall’inizio del processo. Un proprietario particolarmente esperto, ed abile nei movimenti delle mani, può tirare fuori la creatura occulta, per osservarne la corretta crescita e se necessario, aggiungere additivi nel sostrato. È del tutto incidentale poi, ovvero non determinante in alcun modo, che l’utente HirokA avesse in quel momento nella sua mano sinistra una telecamera, valida a mostrarci la natura estetica del suo tesoro. Così come che un frequentatore del portale Reddit, gran compendio d’opinioni e materiali reperiti online, passasse in quel momento di lì, pensando di proporre l’animale alla sua amata collettività. Dal che, apoteosi: perché la pupa dello scarabeo Ercole, stadio intermedio tra la forma originaria e la possente imago adulta, è una convincente unione di grazia e mostruosità. Che sembrerebbe aver ispirato, negli anni, innumerevoli interpretazioni del concetto di mostro alieno, nonostante uno stato di coscienza del tutto simile a quello di un cucciolo di cane o gatto. Fatta eccezione per il fodero del doppio corno, frontale/addominale, che appare ancora avvolto nel suo fodero di protezione chitinosa. Il didietro segmentato nel frattempo, al di sotto delle placche ancora semi-rigide dell’armatura, si agita vistosamente, nell’inutile speranza di sfuggire a eventuali predatori. Che comunque, in natura esistono eccome: nelle giungle sud e centro-americane, dal Brasile alla Colombia, Perù, Venezuela, Guatemala… Fino al confine meridionale del Messico, vi sogno ragni, piccoli mammiferi e insetti parassiti, che se rintracciano la tana, possono por fine alla venuta del sovrano. Ma se ad esso riuscirà di evadere i pericoli, per un tempo sufficientemente lungo, la natura gli concederà di essere tutto quello che poteva sperare, diventando uguale ai propri genitori. Per irrompere, con tutta la possenza di un guerriero, tra le sterpaglie e le radici della giungla, dove inizierà a volare, sbuffando, per poi farsi strada alla ricerca di una partner da impressionare.
È una vita dura. Proprio per questo, ricca di soddisfazioni. Ad appannaggio un insetto che costituisce, nei fatti, il singolo più lungo al mondo (180 mm) ma non il più pesante, primato che spetta allo scarabeo golia (gen. Goliathus) dalla riconoscibile colorazione bianca e nera, che tuttavia non può godere di un simile corno ad aumentare le misure complessive, superando talvolta in lunghezza il resto dell’intero animale. La quale impressionante arma, coadiuvata da una seconda più piccola in contrapposizione verticale ha una funzione, chiaramente, legata alle dispute tra maschi per il territorio, nel corso delle quali si realizza uno degli spettacoli più drammatici del regno naturale. Chi non li ha mai visti, in qualche documentario, o perché no, cartone animato? Due scarabei della sottofamiglia Dynastinae che si affrontano assomigliano a guerrieri fantasy, o minuscoli lottatori di sumo corazzati. Mentre si sollevano a vicenda, con la propria pinza sovradimensionata, nel tentativo di rovesciare l’avversario e costringerlo alla ritirata. Gli etologi ritengono che queste specie, in realtà molto difficili da osservare in natura, siano solite inscenare simili duelli sul punto d’appoggio di un ramo a decine di metri da terra. E benché siano in effetti, pienamente in grado di volare (un po’ goffamente) ci sono ben poche speranze che uno di loro riesca a riprendersi in tempo da avere salva la vita. Sia chiaro dunque che stiamo parlando di un vero e proprio gladiatore. O per usar l’analogia più fortemente sentita in Oriente: l’insetto dei samurai.

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