L’affollato ambiente virtuale pullula di voci, storie di esperienze, situazioni, valide testimonianze degli errori commessi e possibili approcci per rimediare. Nel brusio sovrapposto digitalizzato, d’altro canto, spiccano talvolta serie di parole, così terribili, tanto straordinarie o emblematiche, da porre un freno temporaneo alla navigazione. Trasportando il fruitore d’occasione in quei frangenti lontani nello spazio e nel tempo. Per apprendere quanto possano essere profondi gli oscuri abissi della disperazione umana. Una di queste storie è la narrazione del cosiddetto disastro della grotta Jiudun Tianchuang (九顿天窗 – Lucernario delle Nove Porte) profondo abisso tra le rocce carsiche del parco di Chengjiang, all’interno della regione autonoma di Guangxi Zhuang. Un luogo la cui superficie, sacra al popolo degli Yao, era stata lungamente nota agli abitanti delle zone limitrofe, così come il sospetto che potesse interfacciarsi ad una rete straordinariamente complessa di gallerie completamente allagate. Ipotesi destinata a rimanere meramente teorica fino alla primavera del 2013, quando un gruppo di speleologi sommozzatori del club australiano Wet Mule giunse con l’intenzione di raggiungere il punto più profondo della grotta misteriosa di cui avevano ricevuto testimonianze dai viaggiatori. Un’esperienza destinata a rivelarsi più difficile del previsto, mentre continuavano ad allontanarsi progressivamente dalla superficie, fino a 50, 70, 112 metri… Entro la seconda ora, armati di copiose bombole di riserva, le nutrite squadre si trovarono a dover prendere la sofferta decisione di tornare indietro, ma i pertugi proseguivano, fino alle viscere destinate a rimanere segrete del sottosuolo. Tre giorni dopo avrebbero effettuato un secondo tentativo, raggiungendo i 212 metri, abbastanza da rivaleggiare i sistemi sommersi di Hranice in Repubblica Ceca o la caverna di Font Estramar in Francia. La loro storia di precisa competenza e gesti in grado di condurre al pratico conseguimento degli obiettivi preposti, oltre a non figurare facilmente su Internet, ricorderebbe d’altro canto quella di molti altre imprese adiacenti, nel reame straordinariamente inflessibile della speleologia sommersa. Il che ha lasciato un più ampio spazio alla disanima di poco successiva, della coppia di sommozzatori cinesi Wang Tao e Wang Yang che avendo scelto l’anno successivo di affrontare lo stesso tragitto, non erano in alcun modo meno preparati ed esperti. Ma furono, purtroppo, condannati dal verificarsi di una condizione imprevista. E l’impossibilità immediata di rimediare. Il pericolo ben conosciuto da Teseo, durante la sua mitica e metodica esplorazione del Labirinto cretese…
Il filo dei ricordi si aggroviglia per la resilienza concettuale dell’artista Chiharu Shiota
Passività e voracità costituiscono aggettivi che ricorrono nella diffusa percezione umanizzata, con accuratezza soggettivamente opinabile, del ragno. Colui o colei che laboriosamente costruisce la sua tela, perseguendo un obiettivo materiale quale può essere la necessità di sopravvivere, ancorché risulti parimenti esplicito l’intento (veramente necessario?) di esprimere la geometria perfetta, dare un senso a linee, punti e spazi negativi tra le mere superfici di appoggio. Ed allora chi può dire, veramente, che lo sforzo ereditario di queste creature non sia accompagnato dal profondo desiderio di dar vita a un qualche tipo di… Creazione? Implementare in questo modo un lascito, facente parte della vasta sussistenza delle circostanze in essere. Ove il transitivo sentimento dell’aracnide possa sopravvivergli, sia pur soltanto per il tempo di un respiro esistenziale del mondo. Ecco, allora, il filo della ragnatela diventare del color cremisi della vita stessa. Con le otto zampe trasformate in due operose braccia, quelle della donna che, a partire dagli anni ’90, ha saputo rendere palese il modo in cui la gente riesce a interfacciarsi coi propri ricordi. Tramite l’approccio di una metodologia profondamente singolare frutto di una visione interpretativa dei suoi trascorsi. Ritorniamo per esempio a quella storica biennale di Venezia del 2015, quando la berlinese nata a Osaka, Shiota Chiharu ha saputo l’immaginazione di visitatori e critici mediante l’implementazione di un lavoro particolarmente memorabile: The Key in the Hand. Centinaia, se non migliaia di chiavi donate spontaneamente dalla gente, appese dal soffitto con il filo programmatico della sua arte, con due barche sottostanti situate sotto quell’accenno di pioggia impossibile. Con lo scopo simbolico di raccoglierle, nel modo in cui avrebbero potuto farlo delle mani giganti. Simbologia legata al tema della protezione delle rispettive dimore, di coloro e degli oggetti che si trovano all’interno. Ma anche un potente riferimento al tema trasversale della memoria. Alludendo a quell’oceano di metallo sospeso, sotto cui la predisposizione vivida allo spostamento, grazie a quegli stessi scafi frutto dell’ingegno nautico e tecnologico, offriva l’opportuna prospettiva d’interpretazione. Punto d’arrivo, ma anche di partenza in questa serie di opportunità non ripetibili, ciascuna risultante da una lunga pianificazione ed ancor più faticosa implementazione, senza poter fare pieno affidamento sui molti assistenti coinvolti, poiché in alcun modo essi potrebbero implementare gli specifici nodi e soluzioni tecniche richieste dal suo schema mentale di riferimento. Un tipo di disegno che trascende in parte la materia, entrando nel reame degli stati d’animo e più puri sentimenti…
Il gruppo dei topossum si arricchisce di una nuova specie, fantasma equilibrista dei paesaggi andini
La vita ad alta quota tende a presentare delle regole precise, in merito ad isolamento termico, capacità di migrazioni stagionali, furtività per evitare l’attenzione di volatili e degli altri predatori. È perciò piuttosto sorprendente che nel corso di una spedizione verificatasi esattamente sette anni fa, la ricercatrice del Cal Poly di San Louis Obispo, Silvia Pavan e i suoi colleghi siano riusciti a catturare una creatura simile ad un’altitudine di 2663 metri, dove l’aria inizia ad essere rarefatta e le risorse ecologiche a disposizione presentano una distribuzione estremamente precisa. Lassù tra le montagne del Parque Nacional del Río Abiseo, Peru dove un certo tipo di vegetazione cresce rigogliosa, con l’occorrenza globalmente rara di foreste nebulose in grado di captare l’aria proveniente dall’Oceano Pacifico, rilasciando lentamente rivoli che riforniscono il flusso idrico dei fiumi sottostanti. E sopra questi rami, adesso lo sappiamo, si aggirano dei piccoli animali onnivori che sembrano dei topi, ma non lo sono. Che appartengono all’infraclasse dei marsupiali, ma non posseggono alcun tipo di tasca per contenere i propri nuovi nati. Il che costituisce, inerentemente, un indizio in merito al grado prossimo di parentela, con una creatura decisamente più comune nell’immaginario collettivo, il bizzarro eppure familiare opossum statunitense della Virginia. Di un didelfide si tratta, effettivamente, ed in particolare di una versione sensibilmente più piccola di tale gruppo di animali, con l’olotipo della nuova specie misurante appena una lunghezza di 10,7 centimetri esclusa la coda di altri 16, ed un peso complessivo di 21 grammi. Esponente dell’ampiamente noto genere dei Marmosa, diffuso dall’America Centrale fino a Perù, Brasile e Bolivia, con numerose specie distinte dalla notevole capacità di adattamento ma più limitata inclinazione alla conquista di territori. Ancorché gli opossum, di regola, siano poco inclini all’attraversamento dell’equatore, non sarebbe poi così difficile immaginare un adattamento perfettamente riuscito di simili creature al territorio messicano o ancora più a nord. Ma per meglio definire ciò che rende unico l’oggetto dello studio pubblicato dalla Dott.sa Pavan, successivamente ad un lungo periodo di comparazione genetica e morfologica durato fino a giugno di quest’anno, sarà opportuno a questo punto presentare le caratteristiche inerenti di questa interessante genìa arboricola di terre lontane…
Le quindici piramidi che precorsero la transitorietà delle ancestrali dinastie cinesi
Che una serie di massicce piramidi possa essere “scoperte” in maniera improvvisa costituisce oggettivamente un fatto alquanto sorprendente,. soprattutto se si trovano lungo la costa di una prefettura cinese da 497.000 abitanti, e letteralmente a ridosso di una cittadina che ne conta 86.400. Eppure nell’estate dell’anno scorso numerose testate nazionali ed internazionali, soprattutto di natura digitale, hanno titolato in merito alla presunta ricomparsa dalle offuscate nebbie del tempo di una serie di presunti monumenti denominati strategicamente sulla falsariga delle aguzze tombe dei faraoni, per affinità con le strutture concettualmente non dissimili, benché sensibilmente meno imponenti, delle tombe imperiali della dinastia Xixia (1038–1227). Ecco finalmente un appropriato tipo di attrazione, paesaggistica e proto-storica, per questa località in precedenza fuori dalla preponderante maggioranza delle guide turistiche, per lo più dotata di proporzioni totalmente prive di precedenti: tra i 200 e 400 metri di elevazione rispetto alla valle sottostante, in modo tale da evocare pressoché immediatamente i soliti noti tra cui ufologi, cospirazionisti e cultori dell’origine extraterrestre di plurime civiltà ormai da lungo tempo scomparse. Il che avrebbe costretto di responsabili del marketing turistico ad aggiungere, pressoché immediatamente, il critico debunking delle circostanze, ovvero una spiegazione pratica di cosa, esattamente, il mondo si apprestasse a discutere a margine del loro piccolo, antico angolo di mondo quasi letteralmente sconosciuto fuori dai confini disegnati dai suoi stessi abitanti. Trattasi dunque di 天然金字塔 (Tiānrán jīnzìtǎ) traducibile come “piramidi naturali” costruite dall’azione carsica di epoche eccezionalmente remote, prima di assumere le proporzioni e l’attuale aspetto di vere e proprie colline. Databili, grazie all’analisi stratigrafica del carbonato presente all’interno, all’Era del Triassico (oltre 200 milioni di anni fa) quando ancora l’intera regione di Anlong sostanzialmente non esisteva, rimanendo sommersa sotto le acque salmastre dell’oceano primordiale che assediava i continenti. Le sue lande sottoposte a forze d’erosione più che millenarie, un eone dopo l’altro, così da erodere gli strati meno resistenti per lasciare impervio il nocciolo di pietra dolomitica insolubile, depositato in cumuli creati grazie all’attrazione gravitazionale della Terra. Finché al ritirarsi delle salmastre distese, sottoposte all’energia del sole, le intemperie, il vento, non vennero scolpite molto prima di qualunque mano umana avrebbe mai potuto immaginare di riuscire a farlo…