Un iperspazio di cemento dentro al grattacielo della fede a Le Havre

L’ardente confraternita del sacro cemento non ha mai avuto il desiderio, o la necessità, di mantenere la propria fede segreta. Giacché il compito d’edificare ogni svettante monumento tramite l’impiego di un comune materiale, scevro d’ornamentazione predisposta ma capace di condurre all’utile risoluzione di problemi strutturali, è la risposta di per se specifica ad un tipo di visione delle cose del tutto moderna. Limpidamente fulgida, nella propria ponderosità immanente. Se una tale “religione” d’altra parte ha mai potuto vantare la figura di un profeta, quel qualcuno può essere individuato nell’architetto francese Auguste Perret, ed la sua mecca nel reale luogo di (ri)-nascita di costui, non in senso biologico bensì professionale, avendo ricevuto dal governo del secondo dopoguerra il compito di edificare nuovamente il centro storico raso al suolo dalle bombe sganciate nel 1944 a Le Havre. Il “Porto” come può essere tradotto il toponimo di quella città situata sulla Manica, che a seguire da un così drammatico frangente, avrebbe avuto finalmente il suo punto di riferimento nautico elevato. Non una semplice struttura situata sugli scogli, alta giusto il necessario per offrire un punto di luce al di sopra del profilo delle onde. Bensì una torre straordinariamente maestosa ed imponente, paragonabile per portata e tipologia alla meraviglia del Mondo Antico del Faro di Alessandria. L’église (chiesa) Saint-Joseph era il suo nome, concepita come il pratico rifacimento di una cappella costruita originariamente nel 1871 e ridotta in macerie da un’ordigno sganciato dagli americani, durante il periodo frenetico che avrebbe portato al sanguinoso sbarco in Normandia. Così che il progetto, da inserire nel discorso più grande della nuova Le Havre iper-razionalista e quasi “stalinista” di Perret, come avrebbero voluto sottolineare i suoi molti detrattori, ebbe il via libera nel 1951 con la garanzia di incorporare e dimostrare in se stessa anche un omaggio agli almeno 5.000 morti causati dalle manovre militari che avrebbero portato alla Liberazione. Un compito che piacque fin da subito al grande architetto che aveva recentemente superato gli ottant’anni, già costruttore tra le innumerevoli altre cose del teatro degli Champs-Élysées, primo edificio Art Deco di Parigi ed un altra chiesa iper-moderna, Notre-Dame du Raincy nei sobborghi della capitale. Che proprio in questo luogo, con fondi illimitati e in un contesto sociale e politico capace di offrirgliene l’opportunità, avrebbe dato inizio alla costruzione di quello che potrebbe essere definito come il suo più poderoso capolavoro. 107 metri di una torre ottagonale, per certi versi simili all’Empire State Bulding. Poggiata su di un basamento dalle dimensioni di un transatlantico, privo di colonne o altre strutture di sostegno. Al punto da creare un immenso volume di spazio vuoto, ove ammirare e prendere atto dell’infinita gloria del suo Abitante…

Lo stesso progetto della chiesa cattolica dedicata nominalmente al consorte terreno di Maria, protettore dei viaggiatori e degli immigrati, dei padri, dei lavoratori, colpì del resto fin da subito la mentalità del laico Perret, che aveva intravisto nel mandato l’opportunità di rendere omaggio ai marinai con base nello storico insediamento costiero, oltre ad offrire un primo svettante biglietto da visita a coloro che approdavano su queste coste dopo l’attraversamento dell’Oceano Atlantico che bagnava la Francia. In tal senso, coadiuvato dal collega religioso Raymond Audigier, ma anche tenuto a seguire la volontà del parroco Marcel Marie, egli riprende i disegni creati per la prima volta nel 1926 come proposta per la basilica di Sainte-Jeanne-d’Arc a Parigi. Ed ottiene finalmente, anche in forza delle molte strutture iconiche edificate a quel punto della sua lunga vita professionale, il via libera per costruirla. Il risultato, che avrebbe necessitato di ulteriori tredici anni andando ben oltre la data del suo decesso, sarebbe stato immenso e discutibile in più di un senso. Con quello che costituì all’epoca uno degli edifici più alti, ma soprattutto maggiormente distintivi d’Europa fin dall’inizio del Novecento. Un massiccio edificio a pianta quadrata (croce greca) in cui l’altare era stato tuttavia disposto al centro, ben prima che riforme a tal fine venissero varate dal Concilio Vaticano II. Con un altare costruito da un singolo blocco di cemento, così come lo stesso beton brut “a vista” avrebbe trovato l’impiego nell’intera struttura esterna della chiesa, trovando l’applicazione di quello che potremmo definire come un topos imprescindibile del suo creatore. Grande estimatore di quel materiale semplice ma possente, ed in tal senso se osservato dal punto di vantaggio della posterità, uno dei principali iniziatori del movimento brutalista. Ma la torre di Le Havre avrebbe costituito, in se stessa, molto più di questo, trovando l’applicazione e l’opera per le gigantesche vetrate ed il tetto della grande artista di vetrate Marguerite Huré, anche lei grande innovatrice ed avanguardista già impiegata da Perret all’epoca della costruzione di Notre-Dame du Raincy. Che in qualità di principale trasportatrice dell’arte astratta nel suo ambito all’inizio dell’Era contemporanea, aveva scelto di utilizzare per i colossali spazi della St. Joseph unicamente delle armonie cromatiche capaci di suggerire l’idea delle virtù cardinali: rosso per la forza, verde per la prudenza, azzurro per la temperanza, oro per la giustizia mesa in atto dallo Spirito Santo. Il che avrebbe contribuito all’incremento delle ombre geometriche e la solenne atmosfera iper-galattica dello spropositato atrio sottostante. Grazie all’accorgimento ingegneristico e strutturale ottenuto mediante l’impiego di soluzioni particolarmente moderne, quali l’impiego di giunti Freyssinet con sezioni di calcestruzzo ristrette e fondamenta molto solide nonostante il suolo friabile di Le Havre, tramite i piloni di tipo Franki utilizzati per la prima volta dall’industriale belga Edgard Frankignoul.

Naturalmente e prevedibilmente, la chiesa di St. Joseph non piacque a tutti. Come del resto avvenne per l’intera città circostante ultimata pedissequamente in base alle linee guida di una figura che pur essendo stata il mentore di Le Corbusier, aveva saputo adattarsi anche troppo bene durante l’occupazione tedesca, avendo già in precedenza varato regole in qualità di direttore dell’Ordine degli Architetti la cui natura antisemita era più che dolorosamente chiara. Ed uno stile come il suo, decisamente incline al pragmatismo e la riduzione quasi ostile di ogni dettaglio giudicato inutile, difficilmente avrebbe potuto essere interpretato come felicemente conduttivo verso l’immagine identitaria e lo stereotipo internazionale della Francia. Ma non è forse anche questo, il progresso? La dote dei popoli di riconoscersi in stili differenti, adattati all’epoca che di volta in volta si ritrovano ad attraversare. Uno dei crismi fondamentali che sorreggono, con incessante eminenza, il plinto inamovibile del progresso. Che non può necessariamente essere plasmato dalla percezione ereditaria del Divino. Ma diventa finalmente in grado di acquisire, interiormente, la capacità di plasmarlo.

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