Un dolore assoluto, che ottenebra la mente e paralizza i movimenti. La sofferenza totale che permette, per lo meno nell’idea del popolo che continua a praticare un tale rituale, di affrontare in seguito qualsiasi prova fisica ignorando la sofferenza. E c’è qualcosa di fondamentalmente primitivo, persino barbarico, nel rito di passaggio degli indigeni Sateré-Mawé della giungla brasiliana, secondo cui l’arrivo presso l’età adulta necessita di esser celebrato tramite puntura indotta e reiterata ad opera del più atroce degli insetti mai classificati dalla scienza umana. Quella stessa Paraponera clavata o formica proiettile di oltre 2 cm di lunghezza, il cui morso è stato alternativamente paragonato a un colpo d’arma fuoco o nelle parole dell’esauriente Justin O. Schmidt, entomologo dal comprovato grado di masochismo, “Camminare sui carboni ardenti con un chiodo arrugginito conficcato in un piede”. Tutto questo benché resti fondamentale specificare come prendere decine di questi animali e intrappolarli nella versione fatta in casa di un guanto da forno, per poi renderle nervose con il fumo ed infilarci dentro le mani del soggetto designato per qualche eterna decina di minuti, più volte nel corso di settimane o mesi, non costituisca un effettivo pericolo per la vita di quest’ultimo, né abbia altre conseguenze in genere che tremori, nausea, capogiri, paralisi temporanea e qualche trascurabile convulsione. Questo perché contrariamente al veleno utilizzato da taluni serpenti, razze marine, vespe o calabroni, la piccola mistura di sostanze inoculate dagli imenotteri in questione non ha effetti deleteri alla sopravvivenza di un organismo, pur restando responsabile di una percezione del dolore che pare superare i limiti dell’immaginazione corrente. Questo principalmente grazie alla presenza, già nota verso la fine degli ’90 del peptide neurotossico della poneratossina, una sostanza capace di saturare i canali del sodio nelle fibre nocicettorie, inviando in buona sostanza un segnale intenso e ininterrotto fino alle zone rilevanti del cervello stesso. Ora d’altra parte un simile spunto di approfondimento, nonostante la sua rilevanza per lo studio del dolore ed eventuali metodologie utili a moderarlo, è stato successivamente accantonato dalla scienza per l’oggettiva difficoltà nel prelevare quantità sufficienti di veleno da una creatura piccola come un formica, per quanto appartenente alle genìe ipertrofiche del territorio sudamericano. Almeno fino all’articolo recentemente pubblicato nel numero di maggio della rivista scientifica Nature Communications, in cui Samuel D. Robinson dell’università del Queensland e colleghi affrontano per la prima volta in modo sistematico la questione. Ritrovando tracce di tossine simili anche all’interno di altri rappresentanti della famiglia Formicidae, tra cui le più piccole ma non meno aggressive Tetramorium africanum e le affascinanti formiche dalla testa verde o Rhytidoponera metallica endemiche del continente d’Oceania, capaci d’indurre uno stato di sofferenza forse meno intenso ma persistente almeno quanto quello della tristemente celebre Paraponera. Un viaggio di scoperta che potrebbe essere, in effetti, ancora agli albori…
Guardare indietro allo studio dei veleni posseduti dalle formiche offre d’altra parte un quadro alquanto limitante, in cui per lunghe decadi si è ritenuto, per inferenza, che tali esseri potessero sfruttare principalmente l’arma dello stesso acido formico, notoriamente capace di agire come sostanza repellente o persino nociva ai danni dei predatori. Il che non spiegava, d’altronde, come potesse esistere una concentrazione tale da poter indurre atroci sofferenze in esseri vertebrati delle nostre dimensioni e peso, per periodi certe volte in grado di raggiungere o superare le 24 ore. Da qui l’idea di giungere all’isolamento (Piek T., Duval A., 1991) di taluni peptidi nell’emissione della Paraponera, ovvero catene variabili di aminoacidi capaci d’indurre svariati possibili effetti nel funzionamento dell’organismo bersaglio. Un discorso successivamente allargato all’Ectatomma tuberculatum, un’altra varietà di formica sudamericana, ma che mai prima di adesso è stato rilevato coinvolgere un ventaglio di specie tanto ampie e variegate, come quelle sottoposte ad analisi nel nuovo studio australiano. Offrendo invero l’impressione, per la prima volta, che i peptidi neurotossici possano costituire il fondamento principale degli strumenti chimici a disposizione di avvelenatori dalle dimensioni tanto contenute, nondimeno abili a causare uno stato continuativo e debilitante per persone di età adulta e un peso comparativamente prossimo a quello di un vero e proprio titano. Argomentazione utile a chiarire, dal punto di vista prettamente evolutivo, l’effettiva origine e funzione di una simile caratteristica biologica, trasmessa e rafforzata nel proseguire delle generazioni non per mere necessità predatorie, bensì all’effettivo scopo di difendersi dai loro più imponenti e implacabili nemici. Giacché considerato il funzionamento altamente specifico del veleno di queste formiche, non c’è una sola creatura che noi conosciamo in questo piccolo pianeta ad aver sviluppato alcun tipo di resistenza o immunizzazione agli effetti che si sono dimostrate in grado di causare. A tal punto specifici e circostanziali da focalizzare i propri effetti pratici nella sola area colpita, mancando d’indurre paralisi o compromissione in alcun organo necessario alla continuativa sopravvivenza della vittima designata. Il che spiega, per lo meno, la mancanza di un alto numero d’emergenze mediche derivanti dalla pratica degli indigeni Sateré-Mawé e la bassa priorità attribuita ai casi di puntura ad opera della varietà australiana R. metallica, trattata in genere con semplici farmaci da banco o l’indicazione di sopportare il dolore per il tempo necessario affinché smetta di essere un problema. Il che, d’altronde, può anche andar bene alla formica, una volta che potrà abbondantemente essere tornata dentro l’habitat protetto della sua grande famiglia.
L’idea di Robinson e il fondamento stesso del suo ultimo lavoro, rappresenta dunque l’opportunità di scorgere un tema comune nel funzionamento fondamentale del veleno posseduto da un diversificata quantità di formiche. Riconducibile fino all’immagine da noi posseduta di un’epoca preistorica antecedente alla venuta dei dinosauri, in cui già questi cooperativi insetti avevano compiuto passi da gigante verso l’ottenimento fenotipico di un modo imprescindibile di ottenere rispetto. Giacché non c’è miglior sopravvivenza, di quella praticata da colui o colei che riesce a farsi largo intorno… Specie quando sono l’equilibrio e la precisa suddivisione dei compiti, a permettere la più resistente e persistente forma di un super-organismo degli opportuni giorni. In cui ogni singola cellula o entità indipendente deve poter fare la sua pare nel difendere l’insieme, in uno degli eserciti d’irregolari più temibili, e torturanti, dell’intero regno animale a noi noto.