I dentisti lo detestano: ammirate il ghigno rigenerativo dell’ofiodonte

Considerando un dente, il suo candido smalto, le profonde radici, la morbida gengiva che lo circonda, è difficile negare che si tratti uno dei tesori più importanti dell’umanità. Ricevuto in dono come potenziale non ancora manifesto a momento della nascita, assieme a trentuno dei suoi compagni, il resto delle membra, gli organi e le sinapsi cerebrali che costituiscono una “persona” esso costituisce uno strumento niente meno che primario, finalizzato all’acquisizione di nutrimento, lo sminuzzamento del cibo, persino, in condizioni particolarmente estreme, masticar se stesso mentre si resiste alle ansie ed i problemi della vita. Eppure infastiditi dal bisogno di pulirlo, lavarlo e proteggerlo con tutto ciò che abbiamo, lo lasciamo decadere verso il passo inarrestabile dell’entropia; carie, pulpiti, infiammazioni e infine… L’estrazione. Addio, fedele milite d’avorio. E chi non ha desiderato, una volta oltrepassata una determinata età su questa Terra, di poter tornare a quel perfetto stato primordiale. In cui le zanne dell’umanità, se così vogliamo definirle, possono tornare a palesarsi per un’ulteriore e salvifica occasione. Al principiar di quello stato che siamo soliti chiamare… Maturità individuale. Esiste dunque un detto, o se vogliamo una similitudine, che nasce da un’associazione con solide basi di realtà: “Hai più denti di uno squalo”. Poiché il tipico Selachimorpha cartilagineo che terrorizza occasionalmente le spiagge della California, per non parlare di Sudafrica, Australia e molti altri paesi che guardano all’oceano, ha la caratteristica di contrastare ogni effettivo tipo di sollecitazione da parte della vita, grazie allo scudo biologico di una letterale pletora di acuminati orpelli funzionali alla morsicazione. Costruiti e ricostruiti più volte, nel corso della vita, al punto che si stima esistano esemplari di particolari specie che riescono a produrne fino a 30.000 prima del giorno della loro dipartita dal mondo dei viventi. E se ora vi dicessi che c’è un pesce, nelle acque del Pacifico, che può riuscire a replicare un tale risultato nel giro di appena un mese o due della propria vorace quotidianità, così come altro singolo appartenente alla sua stessa specie? Una creatura tanto incredibile, sotto un simile punto di vista, da veder cadere per l’usura una media di fino a 20-25 denti nel corso di un singolo giorno. E vederne crescere nello stesso periodo, all’interno della bocca grande e laboriosa, almeno altrettanti.
Una creatura per il resto non così incredibile, tanto da essere conosciuta principalmente per la rinomata bontà delle sue carni, mentre dal punto di vista ecologico e comportamentale potrebbe risultare più che altro simile a una grande varietà di altri pinnuti dei sette mari. Tanto che il suo stesso nome comune in lingua inglese è semplicemente lingcod, da una congiunzione tra ling o molva e cod, merluzzo; mentre quello italiano deriva direttamente dalla denominazione scientifica Ophiodon elongatus, direttamente traducibile come “denti di serpente” allungato. Laddove l’essere in questione non risulta effettivamente imparentato con alcuna delle creature sin qui citate, rappresentando piuttosto l’unico appartenente ad un genere della vasta famiglia degli Scorpaeniformes, assieme a letterali centinaia di altri esseri tra cui il familiare scorfano del Mar Mediterraneo. Al quale potrebbe anche assomigliare superficialmente, per gli occhi sporgenti sulla sommità della testa, la bocca rivolta verso l’alto di un tipico predatore dei fondali e la caratterizzante estensione retrograda delle ossa suborbitali, se non fosse per le dimensioni sensibilmente superiori: stiamo parlando di un essere della lunghezza massima di fino a 152 cm, ed un peso di 59 Kg. Abbastanza imponente da incutere un certo livello di timore nei confronti degli umani soprattutto durante la stagione successiva agli accoppiamenti, quando i maschi proteggono assai aggressivamente il nido, arrivando ad attaccare ogni potenziale fonte di minaccia, indipendentemente dalle dimensioni e l’apparente natura formidabile delle sue armi. Non che ci siano molti predatori, nel suo particolare ambiente d’appartenenza che si estende dalle coste dell’Alaska fino alla Baja California, ad essere abbastanza imponenti da riuscire a disturbarlo, fatta eccezione per le foche ed i leoni marini. Mentre spostandoci verso le scale più basse della catena alimentare, sarà difficile trovare qualcosa che non possa diventare il bersaglio prediletto delle sue fameliche scorribande: pesci, crostacei, cobepodi, persino membri della sua stessa specie, fagocitati senza il benché minimo preconcetto in relazione alla misura spesso problematica del cannibalismo. Giungendo a giustificare largamente la necessità evolutiva di poter creare denti a profusione, quasi letteralmente infiniti sulla base del bisogno che proviene dall’impiego particolarmente enfatico dei suddetti…

Un buon 90% dei video relativi al lincod reperibili online lo mostrano mentre partecipa all’attività, non proprio volontaria, di essere pescato e trascinato a bordo di un’imbarcazione, per fame o semplice intrattenimento sportivo. Caso, quest’ultimo, in cui viene spesso e fortunatamente rilasciato in mare.

La nuova e approfondita conoscenza di cui disponiamo in materia ci arriva dunque dalla ricerca pubblicata lo scorso 13 ottobre sulla rivista scientifica della Royal Society ad opera di Emily Carr, dell’Università della Florida. Prima del suo ramo a immaginare un’inventiva soluzione per approfondire, ed annotare oggettivamente, l’effettivo funzionamento della dentistica e ittica faccenda. A partire dal trasporto di venti esemplari di ofiodonte presso le vasche apposite dei Friday Harbor Laboratories nello stato di Washington, per immergerli all’interno di acque caratterizzate dalla presenza di una certa quantità di alizarina fluorescente, una tinta rossa attratta dal calcio dei denti. Per poi spostarli, al trascorrere di un periodo di 12 ore e per ulteriori 10 giorni, in un secondo recipiente colmo di calceina, una tinta dalla tonalità verdastra, prima di procedere a uno studio e conteggio dei denti nati durante il trascorrere dei due intervalli di tempo. Un’operazione indubbiamente certosina, nonché impegnativa dal punto di vista etico (in quanto richiedeva necessariamente di porre fine alla vita dei soggetti) e che l’avrebbe portata prima del completamento all’effettivo conteggio e precisa annotazione di 10.580 zanne acuminate, abbastanza da riempire un’intero magazzino di reperti relativi al notevole tragitto evolutivo di questa specie. Eppure non così insolito, né sorprendente, quando si considera l’importanza dal punto di vista della sopravvivenza per i grandi predatori ittici, nel poter fare affidamento su una bocca esterna ed una interna, entrambe cooperanti con il massimo livello d’efficienza nell’intrappolare e trangugiare molte prede entro il trascorrere di un singolo giorno. Interessante anche l’osservazione in merito a una simile dicotomia, che vede come è noto una seconda serie di affilate preminenze all’altezza della faringe, come in tanti altri grandi carnivori dei mari, ma fondata su un diverso tipo di premesse. Ciò in quanto, diversamente da quello che avviene negli squali, i denti del merluzzo-molva non “migrano” crescendo inizialmente nella parte interna della bocca e poi spostandosi gradualmente in fuori finché cadono, sparendo del tutto, ma piuttosto scaturiscono in un preciso punto della bocca per andare a sostituire i loro immediati predecessori, seguendo un letterale timer genetico non così diverso da quello che governa l’emersione del nostro secondo set di piccoli soldati masticatori. Altro aspetto degno di essere citato, la maniera in cui la dentizione dei soggetti tendesse a rigenerarsi in maniera più rapida nelle aree normalmente soggette ad un consumo maggiore, e ciò indipendentemente dal fatto che il pesce si fosse nutrito o meno, avendo sottoposto le zanne ad un corrispondente grado variabile d’usura. Il tipo di nuove conoscenze concesse al mondo scientifico da uno studio di questo tipo, dunque, risulta assai difficile da sopravvalutare, vista la mancanza di dati specifici sull’effettivo rateo di rigenerazione posseduto da pesci come gli squali, che risulta notoriamente difficile da misurare data l’abitudine di questi ultimi a divorare i propri stessi canini et similia, recentemente staccatosi dalle gengive, per poterne trarre una benefica quantità di calcio ricostituente. E per il merito ulteriore e precedentemente menzionato, della natura relativamente ordinaria del lingcod, una creatura che potrebbe effettivamente corrispondere dal punto di vista ecologico a molti altri occupanti delle acque salmastre di questo pianeta, persino nella dote che si tende a considerare maggiormente caratterizzante. Il che non vuole, di sicuro, privarlo dei suoi meriti e l’importante fattore ambientale che rappresenta!

La livrea di questi pesci altamente mimetici può spesso variare verso un sistema di macchie, ragione per cui vengono qualche volta chiamati “merluzzi leopardo”. Viste le cospicue dimensioni sarebbe assai difficile, tuttavia, non notarli.

Pesce piuttosto frequentemente avvistato, e catturato, all’interno del suo vasto areale d’appartenenza, il lingcod non viene normalmente considerato una specie in sofferenza, anche per la sua notevole tendenza alla proliferazione. Una singola femmina, generalmente più grande del maschio e che matura perciò nel giro di 3-5 anni contro gli appena 2 della controparte, depone quindi una quantità variabile tra le 40.000 e 500.000 uova, disposte in strati sovrapposti che verranno fecondati l’uno dopo l’altro in strette intercapedini della scogliera. Evento a seguito del quale, tuttavia, una sorveglianza particolarmente severa da parte del maschio, una volta che lei sarà partita verso ulteriori lidi, diventerà niente meno che essenziale, data la vulnerabilità di quest’ultimo alla predazione. Uno stato destinato a replicarsi, inevitabilmente, per l’intero primo periodo di vita dei superstiti più fortunati. Finché raggiunta l’età adulta, dovranno confrontarsi con il loro più pericoloso nemico: le reti a strascico impiegate dagli umani. Si stima in effetti che, tra il gli anni ’70 ed ’80, una quantità annuale di fino a 1.360.000 Kg di questi pesci finirono sulle tavole statunitensi e non solo, portando ad un significativo declino della loro popolazione complessiva. Tanto che attorno al 1999, il totale raggiungibile dai pescherecci era calato ad appena 142.000 Kg, denotando un declino eccezionalmente degno di nota. Sebbene (ancora) giudicato insufficiente all’adozione d’iniziative di protezione su larga scala. E chissà che proprio osservazioni relative al loro straordinario potere dentale, largamente ignorato fino a questo momento, non possano contribuire all’implementazione di un qualche tipo d’intervento futuro. Ogni tipo di visibilità, d’altronde, può rendere una specie più simpatica e riservargli un posto tra i gremiti spalti della percezione pubblica. Chi non vorrebbe dopo tutto stringere amicizia, verso la pacifica convivenza, con la sola ed unica, carnivora e famelica fatina subacquea dei denti?

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