I buchi blu e neri, profonde vie d’accesso al sottosuolo delle Bahamas

Una massiccia coda di meteora, strale fiammeggiante nello scuro cielo notturno, che collega un lato all’altro delle tenebre del tutto prive di nubi. Fino a protendersi, ad un ritmo stranamente rallentato, verso il punto dell’impatto; e poi, un boato. Centinaia di metri cubi di terra, pietra e fango che si sollevano, lasciando al loro posto una voragine profonda e senza senso, il suo preciso contenuto e profondità: ignoti. Questa, più o meno, la spiegazione che ci si era dati nel corso delle ultime decadi, in merito allo strano aspetto paesaggistico del più settentrionale arcipelago dei Caraibi, particolarmente per quanto riguarda la sua isola di maggiori dimensioni, Andros, che potrebbe contenere agevolmente tutte e 700 quelle restanti. 167 Km di lunghezza per 64 di larghezza, ed un punto più alto dalla superficie dell’Oceano Atlantico capace di raggiungere appena i 64 metri. Ma una serie di profondissimi “crateri” capaci di rivaleggiare per numero e grandezza quelli presenti su una qualsiasi delle lune di Saturno o di Giove, sia in corrispondenza delle coste che nell’entroterra circondato da foreste, permettendogli di comparire all’improvviso agli escursionisti come vaste piscine dalla forma suggestivamente circolare, quasi come se una mano superiore avesse scelto di disegnarli tramite l’impiego di un compasso colossale. Tanto da portare gli abitanti locali, ed occasionali visitatori, ad accettare meramente tutto questo come una situazione in essere del paesaggio locale, l’ennesima particolarità di un luogo nell’immensa e spesso imprevedibile distesa del Globo. Almeno finché il progressivo perfezionamento dei moderni metodi scientifici, verso la seconda metà del secolo scorso, assieme ad alcune coraggiose spedizioni speleologiche compiute all’interno di quegli umidi portali, non avrebbero permesso di scoprire l’esteso dedalo di gallerie capaci di racchiuderli ed unirli tra di loro, quando non giungevano ad unirli con il mare stesso, in una maniera assai difficile da giustificare per l’effetto di un semplice impatto spaziale, ipoteticamente avvenuto qualche migliaio di anni fa. E fu attorno a quel periodo, all’incirca, che le analisi più approfondite dell’intera misteriosa faccenda avrebbero condotto alla scoperta di un distinto aloclino all’interno, ovvero il punto d’incontro tra le acque dolci di superficie e quelle salmastre in profondità, tale da generare una reazione chimica capace di dissolvere, attraverso i ciclo dei millenni, le rocce di carbonato di calcio su cui poggiano queste isole ai confini orientali del Nuovo Mondo. Causando l’anomala commistione di fattori, tra cui oscurità remota capace di assorbire quasi tutti i colori dello spettro e un remoto fondale bianchissimo capace di riflettere l’unica tonalità restante fino alla superficie, tale da generare il caratteristico ed eponimo colore blu intenso al centro di ciascun buco, in netto contrasto con l’azzurro chiaro delle scoscese pareti sul perimetro esterno. Una visione ripetuta più di 30 volte nella sola isola di Andros, ed in almeno un caso particolarmente celebre lungo le coste dell’Isola Lunga (Long Island) all’altro capo dell’arcipelago caraibico stesso, entro i confini del cosiddetto Dean’s Blue Hole, il secondo più profondo in assoluto con i suoi 202 metri sotto la superficie del fondale marino. Verso l’inizio degli anni ’90 tuttavia, grazie all’osservazione reiterata da parte dei passeggeri di vari voli di linea, si sarebbe finito per notare un ulteriore e significativo dettaglio, nello specifico aspetto di un certo numero delle voragini del gruppo principale: la maniera in cui alcune di quelle più remote ed irraggiungibili mancassero di presentare alcun colore riconoscibile, che fosse blu o d’altro tipo, apparendo piuttosto come un cupo ritaglio d’assoluto nulla, totalmente incapace di riflettere la luce solare. Portando gli scienziati a scegliere per loro l’accurato appellativo di “buchi neri”, benché ci sarebbe voluta ancora un’intera decade, perché qualcuno fosse abbastanza curioso, o incauto, da esplorarne l’inquietante tenebra immota…

Oscura, misteriosa e inconoscibile forma. Dove nulla può riuscire a comparire chiaramente, fatta eccezione per gli spazi illuminati dal sottile fascio elettrico degli esploratori di turno. Ammesso, e non concesso, di riuscire a trovare qualcuno disposto a scendere fin laggiù.

Quel qualcuno sarebbe stata Stephanie Schwabe, geomicrobiologa e biochimica della Società Geografica Inglese, tra le molte altre qualifiche e partecipazioni accademiche, con un’insolita ed addizionale passione per la speleologia. Praticata abbastanza a lungo, e con sufficiente competenza, da potersi avventurare dentro simili voragini in relativa sicurezza, così come alcuni avevano già fatto per i più accessibili e immediatamente buchi blu, ed i relativi dedali di caverne, in corrispondenza delle coste androsiane. A cominciare dal Grande Buco Nero (Great Black Hole) della parte meridionale dell’isola, in cui si sarebbe avventurata nel 1999 trovando l’occasione di riportare in superficie alcune cognizioni del tutto prive di precedenti, nonché palesemente fuori dagli schemi dati per scontati fino a quel fatidico momento. Questo perché l’abisso in questione, piuttosto che presentare alcun tipo d’inclinazione a forma d’imbuto come nel caso di un buco blu convenzionale, discendeva verticalmente verso l’ignoto nella più totale assenza di diramazioni. Mentre alla profondità di appena una quindicina di metri, diventava totalmente oscuro, tanto da lasciar pensare ai membri della spedizione di aver già raggiunto il fondale. Se non che la Schwabe, seguita dai suoi più fedeli compagni di avventura, avrebbe dimostrato come non soltanto le acque ritornavano limpide attorno ai 20 metri, ma proseguivano in tale stato fino alla profondità massima di 47, dove il fondale di sabbia bianca presentava un aspetto del tutto conforme alla logica geologica dei buchi blu di tipo convenzionale. Che cosa rendeva, dunque, questo particolare luogo tanto anomalo e cupo? Caso vuole che una volta ritornati in superficie, i membri della squadra d’immersione avrebbero iniziato a comprendere la verità del caso, grazie alla maniera in cui ogni singola parte metallica del loro equipaggiamento, e persino un braccialetto d’argento, avessero assunto varie tonalità di quello stesso nero assoluto, come se fossero stati immersi in una soluzione d’acqua e un qualche tipo di sostanza acida lievemente corrosiva. La raccolta e analisi dei dati provenienti dallo strato intermedio della pozza avrebbe completato il quadro, vista la presenza di un pH di 6,5 contro gli 8,6 delle acque circostanti nonché una temperatura sensibilmente più elevata, capace di passare ai 29 ai 36 gradi. Era perciò palese come il netto cambiamento fosse dovuto ad una serie di processi biologici condotti da particolari forme di vita batteriche, capaci di prosperare nonostante l’assenza di ossigenazione dell’acqua all’interno del poco accogliente buco nero. Appartenenti a generi come Allochromatium e Thiocapsa, tali da moltiplicarsi e prosperare fino a una densità eccezionalmente elevata senza fattori di disturbo esterno come pesci, crostacei o altri microrganismi predatori. Ma soltanto in quel preciso punto della colonna acquatica, dove temperatura e luce proveniente dalla superficie risultavano conformi alle loro specifiche esigenze, in modo tale da lasciare uno spazio vuoto sopra e sotto il “velo” impenetrabile costituito dalla loro ingombrante presenza. L’intera faccenda, a questo punto, avrebbe trovato ulteriore spiegazione nella particolare conformazione fisica dei buchi neri, rispetto alle loro controparti dall’aspetto distintivamente ceruleo nel resto dell’arcipelago bahamense. Data l’assenza di alcun tipo di collegamento al network di gallerie sotterranee che corrono sotto l’isola di Andros, la Schwabe avrebbe quindi postulato un processo di formazione diverso, ma soprattutto molto più antico di quello precedentemente citato per il Dean Hole ed i suoi molti simili; quello derivante dalla tipica erosione di vento e pioggia, normalmente collocabile soltanto in situazioni naturalmente esposte agli elementi. E qui verificatosi, per quanto ci è possibile desumere, nelle distanti epoche in cui il livello dell’intero Oceano Atlantico era più basso di circa 200 metri, permettendo ai buchi neri di formarsi dall’alto in basso, piuttosto che viceversa com’era avvenuto nella casistica di tipo più diffuso. Una teoria ulteriormente provata dalle riprese effettuate dalla Schwabe, in cui compaiono numerose stalattiti e stalagmiti sommerse, formazioni possibili soltanto in condizioni emerse durante la lunga e alterna storia di una caverna.

La complessità del dedalo delle caverne capaci di estendersi da un blue hole tende a richiedere l’impiego di particolari gradi di cautela. Estremamente consigliata, a tal proposito, una corda in grado di agire come il leggendario filo di Arianna, nel caso in cui dovesse improvvisamente spegnersi l’illuminazione.

Interamente collocate sulla versione spropositata di una vera e propria piattaforma carbonatica accumulata a partire dall’Era del Cretaceo, ovvero la versione fossile di quella che comunemente definiamo “barriera corallina” le isole Bahamas costituiscono la prova di quanto una cosa possa sembrare in linea con le aspettative di chi la osserva superficialmente, mantenendo un mistero inconoscibile nello spazio oscuro delle sue radici. Finché il sopraggiungere di una lunga serie di epoche glaciali, con conseguente ritiro delle acque e fessuramento degli spazi infiltrati dai ghiacci, avrebbero portato alla creazione dell’attuale mondo sotterraneo, ancora ricco di segreti almeno quanto possono risultare esserlo le più distanti stelle dell’Universo.
Come la leggenda dei nativi caraibici, in seguito adottata con entusiastica ed immotivata enfasi dai primi coloni europei, secondo cui all’interno di quel labirinto troverebbe posto il mostruoso criptide noto come Lusca, un ibrido lungo tra i 20 e i 60 metri simile a uno squalo coi tentacoli di una piovra, e qualche volta anche le chele di un granchio. Creatura che esiste in uno stato pressoché perenne di fame assoluta, tale da spingersi fino alla superficie per ghermire l’occasionale sommozzatore o semplice bagnante, per sua sfortuna del tutto inconsapevole di una simile presenza. Kraken, grande Bloop o serpente marino tutti arrotolati in uno, a perenne riconferma di una sussistenza di fattori; che se anche è il sonno della ragione, come diceva il pittore Goya, a descrivere nell’immaginazione con dovizia di particolari le nostre paure profonde, è soprattutto l’assenza di luce a dargli una forma più che mai incombente. Là nelle chtonie regioni della non-esistenza tangibile, dove nessuno si è mai spinto prima dei tempi attuali. E mi sentirei di aggiungere, guardando addietro, con una serie di ottime… Condivisibili ragioni.

La stragrande maggioranza dei turisti, per ovvie ragioni, si limitano a visitare i buchi blu e neri dai sicuri spazi delle loro rive, molto appropriatamente dotate di moli e piattaforme adibite a tale scopo. Non tutti possono rischiare la vita, solo per conoscere una via d’accesso verso le più immani profondità.

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