Come maneggiare l’animale più pericoloso al mondo

Cubomeduse

E così… Non hai ascoltato il cartello. Eppure non poteva essere più chiaro, Bagnante dello stato australiano settentrionale del Queensland, che tra novembre ed aprile si è trovato in un’insenatura ad U, tra scogli troppo scivolosi da scalare. Trovando sulla strada dell’uscita, con l’accidentale funzione di sbarrargli la strada…proprio lei. Tempo di confronti, tra le sagome. Possibile che fosse questa, l’oggetto dell’avviso in spiaggia? Un quadrato obliquo giallo sopra un palo, simbolo internazionale di pericolo. Con all’interno del perimetro, una figura umana con la testa fra le onde (si, sei te quello) e le gambe avvolte dalle propaggini ulteriori di una strana bestia, lunga pressoché 30 cm, se si conta solamente il corpo principale. “Che potrà mai farmi, un animale tanto piccolo!” Avrai pensato, oppure: “Non è mica una CA-RA-VEL-LA POR-TO-GHE-SE. Male che vada, basterà prestare la dovuta attenzione. Farò il bagno con gli occhiali da immersione, per vedere più lontano.” Che ottima idea! E probabilmente è stato proprio questo, a salvarti. Quando, tra una bracciata e l’altra, ti è parso di scorgere una testa trasparente sopra i flutti, quasi avessero decapitato il corpo di un fantasma. Un residuo ectoplasmico. Un teschio di cristallo. Il potenziale segno della fine che… Ottimo! No, dico, perfetto. Perché già soltanto il fatto di poterlo descrivere, ti ha posto nel 15% circa delle potenziali vittime più fortunate. È terribilmente difficile, sia chiaro, scorgere tra le acque la figura della Chironex fleckeri, (molto) amichevolmente detta “grande medusa a scatola” o “vespa di mare” perché è semi-trasparente, e tende a dare seguito alla naturale rifrazione della luce. Il fatto stesso di paragonare una di queste bestie all’insetto a strisce più aggressivo e potenzialmente fastidioso dell’ambiente terrigeno, in effetti, è come dire che un candelotto di dinamite è una piccola bomba atomica, o una pistola giocattolo, di quelle che sparano la gommapiuma, equivale a un carro armato della seconda guerra mondiale.
D’un tratto, mentre galleggi nello stretto spazio della tua escursione, con l’ammasso gelatinoso a separarti dalla libertà, ti ritorna in mente come una visione il mini-documentario visto su Internet, appena l’altro giorno E poi dimenticato, chissà poi perché. Che descriveva, molto dettagliatamente, la sensazione di essere colpiti da uno di questi animali. Evocata nel seguente modo: “Immaginate la lama bollente di un coltello riscaldato sul fuoco fino al calor rosso, che vi viene appoggiata sulla pelle. Ora moltiplicate il dolore per 10 volte, e prolungatelo per una ventina di minuti. Quindi fatelo seguire da almeno sei giorni della stessa sensazione, progressivamente meno forte, mentre l’organismo si riprende dallo shock.” Questo, chiaramente, se siete davvero molto fortunati. Perché a seguito di un contatto sufficientemente prolungato ed esteso con questa particolare specie di cubomedusa, può immediatamente sopraggiungere la morte. Non è un modo di dire: la maggior parte delle volte, il malcapitato lascia questo mondo, nel giro di…Un paio di minuti. Il mamba nero, per intenderci, che viene considerato il serpente più letale del pianeta, ti uccide mediamente nel giro di 7-15 ore. Mentre l’avvelenamento prodotto da una simile sostanza oceanica (o per meglio dire, un composto di)  è talmente virulento, in effetti, che non lascia neanche il tempo d’impiegare il siero antiveleno. Che comunque, per fortuna, esiste. Grazie all’opera convinta di persone come il protagonista del nostro video di oggi, il professor Jamie Seymour della James Cook University di Cairns, che tutti gli anni, giorno dopo giorno, sceglie avventurarsi nel marasma di simili atroci mostriciattoli. Solamente per raccogliere, con le proprie stesse mani, dei campioni delle cellule velenifere della medusa, con il fine di comprenderne il terribile funzionamento. Un mestiere complicato, che non può prescindere da qualche puntura occasionale. Ciascuna resa incancellabile, tra l’altro, dalle vistose cicatrici che tendono a rimanere a seguito della puntura subìta. Ma diamine, umida vittima designata dal destino, che a causa delle rocce in avanzato stato d’erosione non può scavalcare, né aggirare la vespa di mare: non tutto è perduto. C’è ancora un metodo rischioso per salvarti…

Chironex Fleckeri
Il conduttore del programma Venom Hunters intervista ed assiste il Dr. Jamie Seymour, un altro biologo marino attivo nel campo della ricerca sulle cubomeduse. Nel momento topico della scena, i due mostrano la maniera impiegata per raccogliere il veleno dell’animale.

Puoi tentare di scavalcarla? Difficile, vista la situazione. Puoi passarci sotto? Giammai, impossibile! La Fleckeri, che prende il nome dal tossicologo Hugo Flecker che per primo catturò questa creatura, dispone di circa 15 tentacoli per ciascun vertice del suo corpo centrale squadrato, ciascuno dei quali lungo fino a 3 metri. Nonché ricoperto dalla maggiore concentrazione di nematocisti, le cellule che producono ed iniettano il veleno dritto nelle vene delle prede naturali o i nuotatori umani che dovessero loro malgrado attivarle, toccando con la propria pelle la struttura a pressione di quello che viene chiamato lo cnidociglio, direttamente collegato all’estrusione di un filamento cavo, funzionalmente non dissimile dall’ago ipodermico creato dagli umani. L’etologia stessa della Fleckeri del resto, è particolarmente distintiva: se confrontata con molti degli altri celebri appartenenti al vasto phylum degli Cnidaria, che include i piccoli idrozoi simili al plankton, le stauromeduse (che trascorrono una parte della propria vita bene assicurate al fondale) e naturalmente gli scifozoi, in alternativa detti “vere meduse” la cubomedusa è infatti un predatore attivo, che può non fluttua trasportato dalle correnti ma può bensì muoversi a velocità anche considerevoli, grazie alla conformazione del suo poderoso ombrello muscolare, in grado di stringersi nella parte inferiore per costringere ed incanalare l’acqua. I suoi sei metri al minuto massimi che può raggiungere questa creatura, documentati in uno studio del 1982 del Dr. Barnes, Robert D. (1982) vengono talvolta riassunti nella preoccupante espressione di “Veloce come un nuotatore olimpico”.
Inoltre, la vespa di mare non è cieca, anzi, ci vede benissimo: questo perché non soltanto è dotata della ventina di fotorecettori primitivi simili a quelli di molti dei suoi parenti più prossimi, in grado di rilevare la direzione di provenienza della luce, ma anche di quattro veri e propri occhi solamente suoi, due rivolti verso l’alto e due verso il basso, con tanto di retine, cornee e cristallini. Ciò gli permette non soltanto di distinguere le forme e gli specifici contorni delle cose, ma sembrerebbe puntare ad un baluginìo d’intelligenza pressoché impossibile, o per lo meno improbabile, in una creatura composta al 96% d’acqua e del tutto priva di un cervello centrale. Eppure, nelle circostanze di diversi esperimenti condotti nel 2007 sulle specie Tripedalia cystophora e Chiropsella bronzie da Garm, M. O’Connor, L. Parkefelt e D.-E. Nilsson, è stato dimostrato come queste riescano ad identificare ed evitare degli ostacoli ad elevato contrasto di colore posti nel loro ambiente, ovvero tra le colonnine in materiale plastico disposte dagli scienziati, tutte quelle che gli riuscisse di vedere facilmente con i loro occhi organi sensoriali relativamente primitivi. Nel corso di questo studio, incidentalmente, è stato rivelato come le meduse sembrassero temere il colore rosso, che da allora viene usato, di preferenza, per la costituzione delle reti usate per proteggere le spiagge da queste creature.

Jellyfish Sting
Non tutte le cubomeduse sono immediatamente, terribilmente letali. In questo video, George Kourounis di Angry Planet sceglie di farsi pungere di proposito dall’esemplare di una specie più piccolo, al fine di testare i particolari rimedi sviluppati da Ben C, un abitante locale. A giudicare dalle sue smorfie successive, non parrebbe esserci un sollievo immediato.

Ed a questo punto, guardando i video, l’avrete certamente capito: c’è un modo per prendere in mano in relativa sicurezza una vespa di mare, e questo è semplicemente riassumibile nell’espressione “dalla sommità dell’ombrello”. Al di là della maggiore concentrazione dei nematocisti, che si trovano sui tentacoli, l’animale ne ha degli altri in prossimità della bocca, usati per sopraffare le sue prede, generalmente dei piccoli pesci. Ma pressoché nessuno nella parte superiore. A tal punto, in effetti, risulta privo di predatori naturali. Sia chiaro, ad ogni modo, che un simile gesto condotto ai danni della Fleckeri sarebbe estremamente incauto, persino affine al suicidio, per lo meno in assenza di una preparazione specifica e numerose esperienze pregresse di apprendimento. Non è tuttavia impossibile, con un po’ di spregiudicata fantasia, immaginare una situazione in cui sapere questo potrebbe portare alla salvezza della propria stessa vita. Ma il problema fondamentale, come dicevamo, resta un altro: nella maggior parte dei casi, la vittima della cubomedusa non fa neanche in tempo a vederla, prima di essere colpito. Ed a quel punto, tutto quello che resta è affidarsi ai soccorsi immediati dei presenti ed alle proprie capacità di sopportazione e recupero. Nessuna ambulanza, infatti, può raggiungere la scena prima della crisi. Presso la maggior parte delle spiagge australiane, soprattutto nella parte settentrionale del paese, sono presenti delle postazioni di primo soccorso fornite di boccette di aceto, poiché questa sostanza, è dimostrato, possiede la capacità di disattivare i nematocisti nei tentacoli rimasti attaccati alla pelle del bagnante, che altrimenti possono continuare a rilasciare notevoli quantità di veleni. Jamie Seymour, nel nostro video di apertura, ne descrive il micidiale funzionamento: la medusa ne possiede due. Il primo, velocissimo, che distrugge le cellule dell’organismo rendendole porose, a tal punto che il potassio ivi contenuto si mescola con il sangue, causando un potenziale arresto cardiaco. Ed il secondo che interviene a distanza di qualche minuto, nel caso in cui l’organismo umano avesse iniziato a riprendersi, per dare il colpo di grazia e spegnere definitivamente una vita. Senza nessun tipo di rimpianto. Tra il 1884 e il 1996, secondo Wikipedia, soltanto in Australia le morti dovute alla punture di cubomedusa sono state 63. Con un numero probabilmente molto superiore nelle Filippine, in Vietnam e in nuova Guinea, dove l’espediente di proteggere le spiagge nella stagione di maturazione dei polipi (lo stadio infantile della vespa di mare) risulta pressoché sconosciuto. La maggior parte delle lesioni subìte ad ogni modo, per fortuna, non risultano letali. Questo per il semplice fatto che il dolore sviluppato al contatto dei tentacoli si palesa talmente immediato ed intenso, che molte delle potenziali vittime riescono a scostarsi in tempo, prima di essere completamente avviluppati dalle terribili appendici assassine.
Siamo stranamente molto più propensi a temere gli squali, durante i nostri ipotetici bagni nelle acque australiane, degli animali predatori che tendenzialmente non amano particolarmente la carne umana. E che comunque, per arrecarci danno, devono effettivamente interessarsi a noi, scegliendo individualmente di darci la caccia. Mentre ben diverso è il caso di un predatore molto più piccolo, che fluttuando delicatamente nell’acqua, non potrebbe evitare di essere pericoloso, neanche a volerlo. Una cubomedusa media della specie Chironex fleckeri contiene abbastanza veleno per uccidere 60 umani, oppure una mezza dozzina di elefanti, pronto ad essere rilasciato al minimo contatto. In poche parole, chi tocca muore. Chi la vede, la evita. Tutti gli altri…

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