Il più strano test d’ingresso a medicina e chirurgia

Kurashiki General

Il mondo è pieno di situazioni del tipo “Se vuoi essere X, dovrai essere pronto a fare Y” nelle quali il primo termine è un qualcosa di profondamente rilevante o desiderabile, mentre il secondo, un’ardua prova di coraggio, abilità e capacità di cogliere il momento nella sua sostanza più fondamentale. Gli esami…Gli esami non si esauriscono. Sembra strano, dover porre ostacoli sul sentiero di chi desidera sopra ogni cosa fare il bene dei suoi simili. Ma se proviamo a guardarci attorno, non esiste a questo mondo una figura mantenuta in più alta considerazione di un dottore, medico curante, oppure il praticante della chirurgia. Una persona come tutte le altre, che tuttavia nel punto cardine della propria vita, ha scelto di percorrere la strada di colui o colei che salva vite o le trasforma, riuscendo in qualche modo a renderle migliori. Per non parlare, inoltre, del guadagno niente affatto indifferente. Molti, per non dire quasi tutti, aspirerebbero a una simile carriera. Occorre, dunque, diventare (molto) selettivi. In base a tale considerazione nasce, assai probabilmente, il nuovo segmento internettiano fatto produrre dal rinomato Kurashiki Central Hospital (KCH) della prefettura di Okayama, fatto produrre con l’aiuto della compagnia pubblicitaria internazionale TBWA. Siamo non lontano dal grande ponte di Seto che collega la più grande isola dell’arcipelago del Giappone, lo Honshu, alla quarta terra emersa di quei luoghi per estensione, lo Shikoku. In una città estremamente celebre, fin dall’epoca della riapertura del paese dopo il prolungato periodo di segregazione voluto dallo shogunato Tokugawa (1603 – 1867) per il ruolo fondamentale avuto come centro dei commerci della regione, al punto da incorporare nel suo stesso nome l’ideogramma che si legge kura (倉) oggi usato come antonomasia per un certo tipo di tradizionale magazzino portuale. I cui esemplari, dalle caratteristiche pareti dipinte di nero, sono custoditi con la massima cura, assieme ad un intero quartiere storico rimasto pressoché immutato. Eppure l’importanza delle tradizioni, persino in questi luoghi, non può prescindere assolutamente dal coraggio di sfidare le acquisite convenzioni; in campo scientifico, come in quello della medicina? Ovvio. Doveroso. Specie nelle sale che furono fatte costruire a partire dal 1923, su volere e coi finanziamenti di Magosaburo Ohara, industriale operativo nel settore tessile, che secondo quanto narrato sul sito ufficiale dell’istituzione (anche in inglese!) “Aveva scelto di investire i suoi guadagni per il bene collettivo.” E chissà cosa direbbe oggi, nell’assistere ad un tale irreverente esame, in cui un linguaggio quasi televisivo, per non dire ludico, viene impiegato per selezionare la prossima generazione di tecnici specializzati in vari aspetti dell’organismo umano. Che poi sia tutta una finzione, piuttosto che una realtà parziale, costruita fin nei minimi dettagli per il nostro pubblico divertimento, questo è un punto da determinare. Ma forse, qualche volta, sarebbe meglio godersi semplicemente lo spettacolo e la visione del creativo che l’ha concepito…
La pubblicità, pubblicata in due lingue in occasione delle prove pratiche per gli studenti di medicina che intendano iniziare un tirocinio fra queste mura (un modus operandi, se vogliamo, già piuttosto originale) inizia con l’immagine di una chiara allegoria: le pagine di un testo di medicina, sfogliato su di un tavolo dall’aspetto piuttosto disordinato. “Teoria!” Declama il narratore fuori campo: “Il suo studio non può essere trascurato. Ma quando saremo in sala operatoria, non saranno i LIBRI, a salvarci.” E via d’immagini di repertorio, con alcuni flash tratti da varie procedure tratte dagli archivi della facoltà. Mentre la voce prosegue: “Abbiamo scelto, dunque, di CAMBIARE le regole del gioco…”

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La complicata vita di un popolo che ha perso il mare

Aral

Terra smossa e timide sterpaglie nel Karakalpakstan, la repubblica indipendente che costituisce un territorio un tempo umido, ora secco quanto il bordo esterno del Sahara. Quando a un tratto, poco fuori il centro di Nukul, s’immagina un dialogo tra navi del deserto: “Rugginoso, svettante, rovinato peschereccio, chi può averti trasportato in questo luogo? Non c’è spiaggia, non c’è molo, non c’è acqua di alcun tipo! La tua utilità, mi siano testimoni le orde dell’antico Kāt, è ormai trascorsa come il sole dell’impero del Gran Khan! E invece io, marciando, vedo chiaramente il mio futuro…” Lo zoccolo che batte sul terreno. Un sibilo e un grugnito, di maestà lesa per l’interruzione ad opera di quel grande vascello rianimato: “Ah, cammello. Sei tu. Vieni sotto l’ombra del mio scafo. Del vasto lago di Aral, tu non sai nulla. Dei pesci, della pioggia e delle stagioni di quell’abbondanza evaporata. Gli uomini ti nutrono e ti rendono importante, come hanno sempre fanno con il mondo e la natura. Ma tu ricorda sempre questa cosa: trascorsa la tua utilità per loro, sarai solamente il Nulla. Esattamente come tutto ciò che vedi attorno a te.”
Svariati chilometri più a nord, sorge la cittadina da 17.000 anime di Moynaq. Sopra un altopiano che fu in epoca recente un istmo, da cui moli s’irradiano in diverse direzioni. E canali con appena un metro d’acqua, scavati freneticamente fino al cimitero delle navi. Esiste ancora, in questi lidi, un qualche tipo di vitalità e speranza, con gente che si muove, parla, effettua scambi delle merci che provengono da fuori. Ma ogni anno, irrimediabilmente, altra gente prende, parte e se ne va. Passando innanzi a quel cartello triangolare, certamente risalente all’epoca sovietica, ove campeggia l’immagine di un pesce che sobbalza sopra le onde stilizzate. Gradevoli ricordi, di un’economia fiorente ormai sparita! Mentre tutto attorno, adesso è sabbia, sale, arido rimpianto. Il più grande, certamente, degli Uzbeki. E dei loro vicini nel pastorale Kazakhistan, che ancora custodiscono una parte di quella distesa d’acqua, gelosamente racchiusa grazie ad una diga costruita nel 2005. Negli ultimi tempi, le piogge hanno trattato bene quella zona. E gradualmente, la minima parte settentrionale di un bacino idrico un tempo vasto quanto il lago Victoria (68,000 km quadrati) si è riempita nuovamente, ritornando a una profondità di 30 metri. Eppure di quell’acqua, preziosa ed insostituibile, soltanto una minima parte viene lasciata filtrare oltre il confine. Per andare a perdersi tra queste sabbie eterne, nonostante tutto, prive di malinconia. Così, ove un tempo nuotavano i pinnuti, adesso è territorio di cammelli. Che allegramente, non comprendono la verità.
“Ah si, è così che pensi, peschereccio inutile di un altro tempo?! Sappi che i quadrupedi resistono da un tempo assai più lungo, di voi altri ammassi di sostanze minerali raffinate dalla società industriale! Se un domani l’intera civiltà di costoro, i grandi sfruttatori, dovesse scomparire tutto a un tratto…Noi torneremmo ad inselvatichirci, per brucare l’erba dalle crepe del cemento impolverato.” Fedele cavalcatura, produttore di latte, animale da soma. Tutto questo lui era stato, e quella vita, faticosa ma soddisfacente, l’aveva condotto fino a questo punto d’invidiabile prosperità. Ma il richiamo della sabbia era sempre presente, tra le orecchie ridirezionabili e le due svettanti gobbe posteriori. “Ah, si, è così che pensi? Credi che l’umanità sia come un parassita…Pronto da estirpare, per restituire il mondo al suo splendore primigenio…” Animata dalle sue argomentazioni, la nave parve sussultare per il vento lieve delle circostanze. In alto, sbattendo sul pennone principale, il vessillo irriconoscibile produsse un suono simile ad un colpo di fucile. “Bestia. Guardati attorno: cosa vedi? Quale odore percepiscono le tue famose nàri?” Sale, detersivo, additivi chimici. Più un lieve accenno di qualcosa… D’indefinibile. L’olezzo atroce di sostanze misteriose. Una minaccia senza volto e senza tempo. “Si, puoi starne certo… Questi oblò comprendono la tua espressione. Ora, taci! Lasciami parlare…”

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Cose da sapere prima di toccare il cane-papera australiano

Platypus

Certo non è altamente probabile che voi abbiate già programmato, in questo specifico momento, di partire per lo stato sud-orientale dell’Australia, Victoria, al fine di recarvi presso lo zoo-santuario di Healesville, l’unico luogo al mondo dove sia permesso al pubblico di accarezzare e coccolare questo graziosissimo animale. Del resto tutto è possibile, chissà. E poi, l’ornitorinco dal becco d’anatra, così chiamato per distinguerlo da un suo antenato che l’aveva più sottile, non è propriamente una creatura rara. Benché schiva, e abile a nascondersi nel suo naturale habitat di fiume. Cosa estremamente comprensibile, quando si considera che i predatori a cui deve sfuggire includono serpenti, topi d’acqua, piccoli varani, aquile, falchi e gufi. Mentre lui è dopo tutto, nonostante le apparenze, un piccolo mammifero che mangia soprattutto vermi. Che cosa potrebbe mai riuscire a fare, per difendersi? Beh, tanto per cominciare…Può ricorrere al veleno. L’incontro con un Ornithorhynchus anatinus è del tipo che può rimanere MOLTO impresso nella mente. A causa dei due speroni calcarei, nascosti presso l’articolazione delle sue zampe posteriori, in grado di secernere la speciale sostanza che interagisce direttamente con i recettori del dolore della vittima, causando una sofferenza che neanche la scienza medica può mitigare. Il veleno in questione non attacca i nervi, non addensa il sangue e non è tale da mettere (generalmente) in pericolo un essere umano adulto, ma nella peggiore delle ipotesi, ci si può ritrovare a soffrire gravemente per settimane o mesi. Fa tanto più impressione, dunque, osservare questo attimo di tenerezza condiviso fra l’ospite più rinomato della prestigiosa istituzione e una persona che, a giudicare dalla breve descrizione del video, si trovava lì nel corso di una visita turistica della regione. Ovvero in parole povere, non lavorava lì. Com’è possibile? Qualcuno ipotizza, nei commenti, che l’animale potesse essere “stato operato” quando in realtà non esiste nessun tipo d’intervento che possa privare questo piccolo armigero delle sue fiocine incorporate. Quindi, per fortuna, non è così.
Si tratta di un mistero, tuttavia, davvero semplice da chiarire: sia i maschi che le femmine hanno gli speroni. Ma soltanto i primi, per ragioni largamente ignote, dispongono della capacità di usarli assieme col veleno. E del resto anche loro, perché mai dovrebbero, vista la vita pacifica che conducono fra queste mura! Cibo gratis tutti i giorni, gente sempre nuova da conoscere, nessun tipo di mancanza; tranne, ovviamente, quella fondamentale della libertà. Non credo, del resto, che la controparte tangibile del Pokémon Psyduck, meno il colore giallo ed i poteri mentali telecinetici, abbia la stessa notevole capacità d’introspezione. Perché in realtà, è inutile tentare di negarlo, come potrebbe averne mai bisogno….Quando ha già, praticamente, TUTTO il resto: il becco simile a quello degli uccelli anseriformi (quack, quack) il pelo impermeabile della lontra, la coda in grado d’immagazzinare il grasso nello stesso modo del castoro e delle zampe che sono dotate, in contemporanea, di artigli e strutture palmate, per muoversi quasi altrettanto bene in acqua e sul terreno del selvaggio sottobosco. Cosa che l’animale fa più raramente, benché la sua natura spiccatamente territoriale, unita al bisogno di nutrirsi di continuo, lo portino talvolta a vagheggiare. E non siamo ancora giunti alla caratteristica più singolare: l’ornitorinco può percepire l’elettricità, non importa quanto fioca e distante. Questo grazie proprio alla caratteristica dominante della sua fisionomia, quel becco morbido che in realtà non potrebbe essere più differente da ciò a cui assomiglia tanto da vicino. È una dote condivisa, questa, con l’intero genere dei Monotremi, mammiferi primitivi di cui sopravvivono a questo mondo unicamente quattro specie; tre delle quali, sono echidne. Mentre l’altra, eccola qui.
Così, passando da queste parti, considerate in primo luogo di trovarvi all’essere più prossimo al concetto medievaleggiante di chimera, quindi confermate che sia appartenente al sesso femminile. In una situazione simile, immagino che dovrete fidarvi! Fatto questo, siete pronti a dargli da mangiare con le vostre stesse mani. Conoscere la parte residua della storia è più che mai facoltativo, superfluo, distraente. Eppure, così dannatamente interessante….

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I tre metodi per effettuare il rifornimento in volo

IFR Flying boom

I cieli sopra il Sud-Est Asiatico erano di un’indistinto color grigio cuoio, perturbato unicamente da qualche indentatura candida di nubi punzonate in modo sparso ed indistinto. Almeno per quanto potesse vedere l’operatore del braccio estensibile volante, attraverso l’apertura praticata nella fusoliera del suo KC-135 Stratotanker, una delle più diffuse e celebri montagne volanti, creata nei remoti anni ’50 dall’adattamento diretto di un Boeing 707, riempito ad arte con benzina in ogni spazio residuo della sua precisa forma aerodinamica. Benzina, e poi ancora benzina, più avionica classe ed un lungo naso retro-direzionato, sulla cima del quale ora giaceva lui, con una cloche tutt’altro che dissimile da quella del pilota. Quand’ecco, all’improvviso, palesarsi il delta tanto atteso, della forma metallica di una suprema piattaforma: l’F-16 Fighting Falcon, uno dei caccia multiruolo più versatili dell’ormai trascorsa generazione. Come corre il tempo…E transita il momento chiave! Sarà dunque meglio, affrettarsi: “Ci avviciniamo, stai pronto.” La voce, tranquillamente udibile nonostante il rombo del motore, giunge alle sue orecchie grazie all’interfono di bordo. È il collega sovra-pagato, che lo avvisa di aver ridotto la potenza dei motori, lasciando che il piccolo aereo possa raggiungere naturalmente quello grande, facendosi vicino, sempre più vicino. A quel punto, l’asta comandata in remoto si rivela per quello che realmente è sempre stata: un piccolo aliante imbullonato alla carlinga, con tanto di superfici di controllo per direzionarla in posizione. Sullo sfiatatoio, all’incontrario, dell’agile e appuntita controparte!
È un fatto largamente noto, eppure spesso trascurato, che il rilascio di qualsiasi forma di energia possa derivare unicamente da un processo di trasformazione della materia. E maggiore è l’energia richiesta, tanto più ingombrante diventa il materiale necessario, da bruciare oppure riciclare verso lo svolgimento del lavoro designato. Il che ha da sempre condizionato, più che ogni altro campo dell’ingegneria, la progettazione dei diversi mezzi di trasporto. Il vecchio concetto di treno a vapore, con la ciminiera e tutto il resto, non poteva effettivamente prescindere da un intero vagone dedicato al combustibile, nient’altro che un’intera collinetta di carbone lucido e nerastro. E così anche i moderni veicoli (con le rotaie o meno) che pur sfruttando la suprema efficienza spazio-energia della benzina,o di fluidi più leggeri, devono pur sempre prevedere nella loro struttura uno spazio deputato alla grande tanica del serbatoio, oppure alla bombola o alle batterie. Ma considerate, adesso, l’entità di un aeroplano, oppure l’elicottero, che per condurre a destinazione i loro occupanti devono letteralmente staccarsi da terra, contrastando l’attrazione naturale della forza di gravità! Quando il peso e la massa di ciò che si trasporta, sostanzialmente, determinano tutto: la velocità, il rateo di salita, l’autonomia…. L’ultimo valore dei quali, a sua volta, è condizionato proprio dalla quantità di carburante incorporato nelle proprie ali. Così più ne metti, più vai lontano. Ma meno ne metti, meno sforzo dovrai fare per riuscirci! È un difficile equilibrio da raggiungere. Nel quale,anche l’eliminazione di un singolo problema, potrebbe fare molto per far pendere la bilancia dalla parte degli umani: la riduzione del peso in fase di decollo. Ora, se vogliamo tradurre in numeri la problematica, consideriamo questo: un 747 trasporta 524 passeggeri. I quali, se vogliamo fare un ipotesi estremamente approssimativa, potrebbero avere un peso medio (bagagli inclusi) di…150 Kg l’uno? Andiamoci larghi. Il totale, quindi, ammonta a 78,6 tonnellate. Niente male, eh? Però ecco, il pieno di carburante dell’aereo ammonta NORMALMENTE a 206.250 litri, che poi sarebbero 165 tonnellate. Più del doppio del carico per così dire “utile” bruciato, in forza di quello meramente “necessario”. Proprio per questo, da diversi anni ormai è stato proposto su carta un sistema che prevederebbe, nel corso di ogni trasvolata oceanica, l’intercettazione di una ipotetica aerocisterna, che si curerebbe di rifornire il ben più piccolo serbatoio degli aerei futuri, riducendo il peso massimo del fluido che deve essere materialmente sollevato, e trasportato, per tutta la prima fase del volo. È stato quindi calcolato che un simile sistema ridurrebbe notevolmente i costi, ANCHE considerando il carburante bruciata dall’aerocisterna stessa, comunque inferiore a quello sprecato dal circolo vizioso e dispendioso di cui sopra.

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