La disputa del gobide al catasto dell’acquario

Mi chiedo se abbiate mai visto due pesci che si tirano la sabbia! Fra tutti i diversi destini che possono pesare sulla vita di un abitante dell’oceano, finire in un acquario non è certamente tra i peggiori. Trascorrere un’intera vita, si, tra le pareti trasparenti di una gabbia dorata. Ma ricevere un buon pasto assicurato, ogni giorno ed anche più spesso, con almeno un’appartenente alla specie più forte del pianeta che fa tutto il possibile, incluso spendere ingenti somme di denaro, per assicurarsi il benessere dei suoi pinnuti coabitanti. Cosa potrebbe mai essere dopo tutto, per un animale come questi, la Libertà… Se non la sicurezza di arrivare al termine della propria breve vita, possibilmente riuscendo a trasmettere il proprio materiale genetico verso il futuro. E volete sapere, invece, a quanto può arrivare un gobide in cattività? Fino a 5 anni di età. Abbastanza per sviluppare una propria filosofia, iniziando ad intuire le ragioni del cosmo stesso. A patto di non essere costantemente disturbati. Il problema più incombente in effetti, in una piccola comunità dallo spazio limitato, è purtroppo sempre quello: l’arrivo di qualcuno di nuovo. Che pretenderebbe di condividere lo stesso angolo privilegiato… E sia chiaro in questo caso, stiamo parlando di quello che convenzionalmente viene definito il Jawfish dai puntini blu (Opistognathidae rosenblatti) uno dei pesci più desiderabili negli acquari marini, per il suo comportamento particolarmente attivo e la formidabile livrea multicolore. Che potrà anche sembrare simile alla sua candida e in questo caso invidiosa controparte, il goby fanciulla dell’Indo-Pacifico (Valenciennea puellaris) ma proviene in realtà da una famiglia biologica ed un mare d’origine, il Pacifico Orientale, parecchio distanti. E sarà per questo che sussiste un’importante differenza di costo tra i due, con poco più di 30 dollari corrisposti al negoziante per la candida e tranquilla scavatrice, Vs. un valore monetario che si aggira tra i 100 e i 200 per il ben più raro e rissoso occupante del sacro suolo. Sacro, perché fatto di sabbia. E quindi usato, da entrambe le specie, per uno scopo talmente simile da far pensare di essere al cospetto di un caso di evoluzione parallela: la costruzione di una Casa. Potrebbe in effetti sembrare strano che dei pesci che vivono in un’abitazione (l’acquario) all’interno di un’altra abitazione (casa tua) possano necessitare di sentirsi dei proprietari di un immobile proprio. Del resto, tuttavia, il punto dell’intera questione è forse proprio questo. Che i due astuti nuotatori non sono coscienti di alcun aspetto contestuale, se non il momento e il desiderio presenti. Credo sia proprio questo, il bello di essere un pesce. Purtroppo, ciò tende a generare situazioni sconvenienti.
Vedi questa scena pubblicata originariamente presso la pagina Facebook di Dawn Oliphant-Dababneh, a seguito di una visita presso il Seaside Tropical Fish nell’Orange County Californiano, nel corso della quale i due personaggi sopra descritti sembravano trovarsi a dirimere un conflitto niente affatto indifferente: quello su chi, dei due, fosse il legittimo dominatore del territorio. Non tanto per ragioni d’accoppiamento, benché la possibilità debba aver attraversato la loro mente, quanto al fine di assicurarsi un territorio di caccia proprio. Nella sostanziale inconsapevolezza del mangime nutritivo che ogni tanto piove, ad intervalli regolari, dalla superficie del loro piccolo ambiente sommerso. Ora il problema è che della sabbia, i due, vorrebbero fare un impiego totalmente diverso: fagocitarla e filtrarla attraverso le branchie, per quanto concerne il pallido goby, e scavarci un buco profondo all’interno dentro cui nascondersi, nel caso del jawfish, per agguantare gli ipotetici micro-organismi di passaggio balzando fuori come una murena. Dopo un primo attimo di riscaldamento, dunque, inizia la battaglia. Il pesce pallido che tenta di seppellire l’indesiderato intruso, mentre quello, lungi dallo starsene buono, continua ad ampliare la buca, prendendo accuratamente la mira per fare lo stesso a lui. In pochi momenti, il goby si arrabbia e volta le spalle al nemico. Per mettersi a spennellare con la coda, continuando a disegnare il suo affresco della rovina. Un pesce pagliaccio senza il suo anemone, poco più sopra, sembra assistere alla scena con impassibile curiosità.

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Il sogno realizzabile di un aeroporto circolare

Il grande successo riscosso su Internet dal video dell’incrocio di piazza Meskel ad Addis Abeba, in Etiopia, attraversato ogni giorno da molte migliaia di veicoli, la dice lunga sul funzionamento della mente umana. Poiché in tale incontro di strade, come avviene per molti altri di quel paese, forse per una svista urbanistica o mancanza di fondi, la città non si è mai preoccupata di posizionare alcun tipo di luce semaforica. E le automobili sfrecciano, ciascuna per la sua strada, in un caotico intersecarsi di traiettorie. Mentre pedoni coraggiosi, in un apparente folle iniziativa, s’inoltrano camminando tra i bolidi di metallo, senza che nessuno accenni a rallentare, per evitarli. Eppure, per l’intero lungo momento mostrato, non sembra verificarsi alcun tipo d’incidente. La scena costituisce un esempio manifesto di distopia ed utopia al tempo stesso, in cui tutti sembrano volersi aggiudicare la precedenza, e proprio per questo, nessuno finisce per averla. L’incubo dei trasporti. Il sogno degli spostamenti.  Prendete come metrica di confronto, d’altro canto, un comunissimo aeroporto: con i velivoli che girano in cerchio sopra le piste, in attesa del loro turno per atterrare, in un colossale dispendio di carburante, inquinamento acustico, ritardo per i passeggeri. Se l’arrivo al terminal, in quale magnifico modo, potesse in qualche modo acquisire gli aspetti più positivi dell’incrocio di Addis Abeba, senza i pericoli, non credete che dovremmo fare tutto il possibile per agevolare una simile trasformazione? Henk Hesselink, capo del Laboratorio Aerospaziale d’Olanda in Amsterdam, la pensa esattamente come voi. E sono ormai mesi, dopo molti anni di ricerca, che sta ricevendo finanziamenti pubblici e privati per stilare una dettagliata ipotesi, coadiuvata da approfondita sperimentazione, che possa rivoluzionare del tutto la forma e funzionalità degli aeroporti. O in altri termini, ripristinarli al loro stato ideale. Una pista…Tonda. Perché no?
Tecnicamente, qualsiasi luogo in cui gli aerei atterrino o prendano il volo rientra nella categoria degli aerodromi, secondo la definizione concettuale dell’epoca degli albori del volo. Il concetto moderno di aeroporto, attrezzato per l’imbarco/sbarco, con terminal, hangar, strutture di supporto e così via… Nacque soltanto successivamente, con i vertiginosi progressi tecnologici compiuti nel giro di appena mezza generazione. Ora, il suffisso –dròmos (δρόμος) significa in greco “pista” ma se pensate a una qualsiasi delle strutture che lo integrano nel loro nome, come l’ippodromo, il velodromo, il cinodromo… Ciascuna di esse ha in comune una forma, inevitabilmente, immancabilmente circolare. Ed a scanso di equivoci, si: questo valeva, in origine, anche per lo spazio dedicato agli aerei, che potevano avviarsi in qualsivoglia direzione. Non avrebbe mai potuto essere altrimenti, vista la poca potenza dei motori montati dai primi aeroplani, per i quali era semplicemente impossibile decollare, a meno che un vento contrario al senso di marcia non incrementasse notevolmente la portanza delle loro ali contribuendo allo sforzo di farli staccare da terra. Le velocità raggiunte durante una tale operazione, tra l’altro, erano sufficientemente basse da non richiedere alcun tipo di strada asfaltata, e le grandi ruote dei carrelli erano in effetti state concepite per fare presa sull’erba di un qualsivoglia ambito campagnolo. Erano tempi molto più semplici. Ma che tendevano anche, per le pure ragioni della necessità, ad un grado d’efficienza che ormai appare ben lontano dai progetti architettonici dei maggiori svincoli aeroportuali. Nell’idea di Hesselink, dunque, ciò di cui ci sarebbe bisogno oggi, è eliminare del tutto le attuali piste di atterraggio e decollo, per sostituirle con un’altra più larga, non poi così dissimile dal tipico ovale usato per far correre le automobili della formula NASCAR. Nella sua futuribile visione, infatti, gli aeroplani non atterreranno al centro (avrebbe costi di costruzione proibitivi ed occuperebbe troppo spazio) bensì sul perimetro, o circonferenza che dir si voglia, della gigantesca piazza, con un diametro ipotetico di circa 3 Km e mezzo. Come vi fa sentire, tutto ciò? Entusiasti, estatici, affascinati? O dubbiosi… In quest’ultimo caso, credo, sareste perfettamente allineati con la maggioranza del web. Da quando la BBC ha mostrato questa ipotesi al mondo, con un segmento mandato in onda verso la fine di marzo, l’intera Internet è stata letteralmente disseminata da innumerevoli disquisizioni sul perché una simile idea, effettivamente, non avrebbe mai potuto funzionare. Mentre l’atteggiamento più diffuso, in effetti, sembrerebbe essere la rabbia. Per chi osa pensare di sovvertire lo status quo, pretendendo di cambiare un qualcosa che, per una VOLTA, non ne aveva affatto bisogno… Naturalmente nessuno, specie tra i più accesi critici, si è preoccupato in alcun modo di visitare l’esauriente sito ufficiale del progetto, ricco di documentazioni e dati estremamente rilevanti.

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Il più ingegnoso frigorifero del mondo antico

La calura sconvolgente rendeva l’orizzonte tremulo, e l’aria più pesante di un macigno. Ma non tutti sembravano risentirne. Dalla cima della struttura di legno e argilla, in un vortice di piume e un frullar d’ali, gli uccelli rapaci gridavano la loro gioia senza fine. “Cibo, cibo!” È un giorno importante, situato attorno a questo dì d’agosto del 400 a.C. È tempo di dire addio. Alle spoglie mortali di un anziano funzionario, nel corso del più solenne rituale dello zoroastrismo: la sepoltura tramite l’impiego della Torre del Silenzio. La famiglia di avvoltoi, specchio dei parenti umani che dovevano trasportare verso la sacralità del Cielo, è stata attentamente addestrata dalla casta sacerdotale del grande tempio, a non lasciare il benché minimo avanzo, ossa escluse. Siamo a Yazd, la città che sorge presso l’incontro di due dei deserti più caldi dell’intero pianeta: il Dasht-e Kavir e il Dasht-e Lut. Temperatura estiva: 40/45 gradi all’ombra. Non proprio l’ideale, per scrutare verso l’alto il corso di un processo escatologico dalle profonde implicazioni ultramondane. Così i figli ed i nipoti del saggio, gli uomini e le donne adulte, osserveranno rispettosamente un giorno di digiuno. Mentre ai più giovani, ormai prossimi allo sfinimento, verrà offerto un pasto rinfrescante. Col procedere del pomeriggio, verso l’ora del tramonto, essi verranno accompagnati fino al centro cittadino, presso un grande muro con una struttura piramidale, edificata sul lato più distante dal Sole. Bassa e tozza, dalle pareti particolarmente spesse e una caratteristica forma a gradoni. Dinanzi al quale un banco di strada, gestito da un esule fuggito fin da qui da Susa a seguito della conquista achemenide, istruito nelle arti culinarie della grande città, vendeva un qualcosa di estremamente simile a una moderna granita. E il…Gelato.
Se vi sembra impossibile… È perché non conoscete la fantastica funzione dello yakhchāl! Traduzione del termine dalla lingua persiana: pozzo del ghiaccio. Mentre negli idiomi moderni del Farsi e del Pashto tale termine vuol dire, molto semplicemente, frigorifero. La stessa IDENTICA parola, attraverso un periodo di quasi due millenni e mezzo… Per riferirsi ad un qualcosa di intrinsecamente moderno nella sua concezione di fondo, talmente avveniristico, persino oggi, che non tutti riescono a intuirne il funzionamento. Benché nessuno, in barba all’evidenza, potrebbe mai sognarsi di negarne l’utilità. Nella sua versione più remota originaria dell’odierna Iran, non era tuttavia un qualcosa da porre all’interno di un edificio, bensì esso stesso una struttura, parzialmente sotterranea e costruita sulla base di precise direttive. Fondamentale risultava, in primo luogo, l’uso per pareti e tetto del sarooj, una speciale malta termoisolante creata mescolando pelo di capra, cenere. sabbia, argilla e chiara d’uovo. Quest’ultima, soprattutto, per agire come copertura impermeabile, affinché l’umidità non potesse attraversare lo strato esterno. Come altrettanto importante, risultava essere la presenza di due buchi, nel soffitto e nel pavimento della struttura. Il primo affinché l’aria calda, inevitabilmente più leggera della sua controparte, potesse fuggire verso il cielo soprastante. Ed il secondo per qualcosa di molto più incredibile ed inaspettato: raccogliere le gelide correnti ascendenti dalle viscere della terra, grazie alla presenza di quello che tutt’ora viene definito un qanat. L’acquedotto sotterraneo dell’intero Medio Oriente.
Stiamo parlando di popoli, dopo tutto, che sempre seppero sfruttare al meglio le limitate risorse idriche a loro disposizione. È molto facile, quasi istintivo, per noi abitanti dell’Europa ricordare le meravigliose infrastrutture idriche degli antichi Romani, le svettanti sopraelevate dai molti archi concatenati, capaci di portare quel prezioso fluido oltre chilometri e chilometri di distanza. Ma provate voi ad immaginarvi, solo per un istante, una soluzione simile in un luogo con le temperature di Yazd. Prima di giungere a destinazione, tutta l’acqua farebbe la fine delle anime lasciate libere sopra la Torre del Silenzio… Vapore, vapore e nulla più di questo. Fin dall’inizio dell’epoca urbana in questi luoghi, fu dunque percorso un altro approccio. Che faceva affidamento, principalmente, sull’abilità di scavo di un’intera casta ereditaria, in grado di intuire, come i rabdomanti, la presenza di una faglia idrica connessa ad un ventaglio alluvionale, possibilmente all’interno di una collina o piccola montagnola. Per iniziare, quindi, a trasferirla fino allo yakhchāl…

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Il gufo che sottrae i salmoni all’orso siberiano

Quanto può essere maestoso un rapace? Quanto grande o impressionante? Di certo avrete chiara la presenza delle aquile, possenti cacciatori delle rupi e delle steppe senza limiti apparenti. O la grazia e l’agilità del falco, l’animale più veloce del pianeta Terra. Mentre un gufo, invece, è differente. Ricoperto da un folto mantello di piume, che lo rende simile a una maschera teatrale, con le sopracciglia folte ai lati della testa, tese come antenne di una cavalletta predatrice. A tutti piace ricordare il “più grande” di ogni possibile categoria biologica: il mammifero, il felino, il pachiderma… Eppure, sono pronto a scommettere che questo non lo conoscete: Bubo blakistoni, il più notevole dei gufi pescatori. Sommo rappresentante di un gruppo composto da appena quattro specie asiatiche, un tempo classificate in uno speciale ramo dell’albero della vita, il genus Ketupa. E poi spostate, con un occhio alla semplificazione, nello stesso gruppo degli strigidi cornuti o gufi-aquila, diffusi nell’intero territorio del cosiddetto Vecchio Mondo. Ma che fanno una vita sensibilmente differente, soprattutto in funzione del gelo quasi artico delle loro regioni di appartenenza: tutto l’Estremo Oriente Russo inclusa parte della Siberia, le isole Kurili e poi l’Hokkaido giapponese, dove venne per la prima volta osservato scientificamente dal naturalista inglese che gli avrebbe dato il nome, il grande viaggiatore Thomas Blakiston, nel 1883 ad Hakodate. Come avviene per gli altri volatili, ci sono tre modi convenzionali per determinare quale sia il più imponente rappresentante di una famiglia: la lunghezza, l’apertura alare ed il peso… E se in base al primo di questi criteri, il chiaro vincitore è il grande gufo grigio (Strix nebulosa) diffuso nell’intero emisfero settentrionale, è nel secondo e il terzo che il suo cugino siberiano esce chiaramente vincitore, con i maschi che oscillano tra i 2.95 e i 3,6 Kg, mentre le femmine raggiungono gli impressionanti 4,6 Kg con 190 cm da un’estremità all’altra delle ali. Il gufo di Blakiston misura inoltre fino ai 72 cm d’altezza. Abbastanza da essere scambiato, nell’oscurità della notte, per una lince, o altre creature potenzialmente pericolose per l’uomo. Soprattutto per il molto tempo che passa, per inesplicabili ragioni evolutive, camminando semplicemente a terra. Il che ha portato, in passato, all’uccisione immotivata di più di un esemplare, senza contare quelli a cui veniva sparato per la superstizione diffusa in ampie aree geografiche, secondo cui il gufo sarebbe una creatura portatrice di sventura. Finché non si è scoperto, grazie alle moderne osservazioni ecologiche, che la presenza di questo uccello è un chiaro segno dello stato naturale di una riserva, della sua ricchezza faunistica e della salute dei corsi d’acqua. Dipendendo per la sua prosperità, inoltre, dagli stessi parametri di altri animali ben più amati dalle telecamere, come la sempre benvoluta (incidenti a parte) tigre di Amur (Panthera tigris altaica). Per non parlare dell’innata bellezza di un simile cacciatore piumato…
Dal punto di vista della forma, il Blakiston è il più simile tra i gufi pescatori ai nostri rappresentanti del genere Bubo europei, con un becco relativamente lungo, il corpo tozzo e gli artigli enormi, che tuttavia impiega, di preferenza, per catturare il pesce nei fiumi. Ed è un vero maestro nel farlo, arrivando ad agguantare prede pesanti anche il doppio di lui, che successivamente trascina a riva aggrappandosi a una roccia o un tronco, passare quindi al suo pasto silenzioso nell’oscurità notturna. Le sue prede preferite includono perciformi, pesci gatto, burbot, trote, salmoni e varie specie di gamberi. Ma non disdegnano neppure piccoli mammiferi, soprattutto nell’area giapponese settentrionale, dove alcuni corsi o specchi d’acqua diventano inaccessibili per le grandi quantità di ghiaccio e neve, spostando la loro attenzione sulle martore e varie specie di piccoli roditori. Qualora se ne presentasse l’occasione, il Blakiston è sempre pronto a catturare altri animali volanti, tra i cui il pipistrello, varie tipologie di anatre e persino, si ritiene, l’airone dalla cresta nera, un uccello che raggiunge i 64 cm di lunghezza. In particolari aree, invece, il gufo si nutre quasi esclusivamente di rane, per le quali diventa un importante fattore di controllo della popolazione. La vista di uno di questi rapaci in caccia è particolarmente memorabile, con i grandi occhi scrutatori che giacciono immobili sopra un ramo per lunghi minuti e persino ore, prima che un benché minimo movimento, captato dalle orecchie eccezionalmente acute e triangolato con lo sguardo, porti il vendicatore al suo formidabile balzo tra i flutti del fiumiciattolo boschivo. Per poi fuoriuscire, finalmente, come estatico vincitore. Non è difficile immaginare i sentimenti del primo esploratore…

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