Scienziati usano Frozen per chiarire il misterioso massacro del monte Kholat

Cantava Elsa nella sua struggente ribellione contro i rigidi presupposti della società conservatrice, fondata su rime facilmente orecchiabili e un motivo destinato a rimanere impresso per l’eternità: “Il mio potere si diffonde intorno a me / Il ghiaccio aumenta e copre ogni cosa accanto a sé / Un mio pensiero cristallizza la realtà!” E con la voce spesa in simili parole, simbolo di una ricerca personale e l’autostima finalmente guadagnata, diventava l’esempio generazionale per milioni di bambine e bambini che nel bene o nel male, in questo mondo odierno delle immagini generate al computer non leggeranno mai l’originale fiaba adattata dall’autore Hans Christian Andersen. Eppure la Regina dell’Inverno, nella sua versione originale in sette storie adattata dal folklore dei paesi del Nord Europa, fu devastatrice prima della sua catarsi, ed annientatrice di ogni possibilità di rivalsa da parte di un popolo soggetto alla sua crudele influenza sul clima e la temperatura terrestre. Molti perirono per sua mano, e non sempre in circostanze destinate a risultare del tutto chiare, nonostante “freddo” e “morte” siano quasi dei sinonimi in qualunque modo si decida di guardare alla questione. Chi non conosce, ad esempio, la terrificante e misteriosa storia dei dieci escursionisti del Politecnico degli Urali di Ekaterinburg, partiti il 23 gennaio del 1959 per effettuare un’escursione sciistica tra le montagne circostanti casa loro… Per andare incontro ad un destino tale da costare la vita a tutti loro fatta l’eccezione per il “fortunato” Yuri Yefimovich Yudin, tornato indietro pochi giorni dopo causa improvvisi dolori alle articolazioni delle ginocchia. Una scelta che ne avrebbe fatto, di lì a poco, l’unico sopravvissuto della sua coraggiosa, entusiasta e almeno in apparenza preparata congrega.
Fatale sarebbe stata infatti l’idea di attraversare quel particolare passo ancora senza nome del monte Kholat Syakhl, traslitterazione di un’espressione nella lingua degli indigeni Mansi Holatchahl che significa grosso modo “Montagna della Morte”, data la presunta carenza di potenziali prede o cacciagione. Per Igor Alekseyevich Dyatlov ed il suo seguito, capo ventitreenne della spedizione, accompagnato da coetanei certificati come pronti per l’impresa ed il trentottenne Semyon Alekseevich Zolotaryov, istruttore di sci che aveva anche combattuto nella seconda guerra mondiale, nient’altro che un punto di passaggio nel tragitto rinomato, che già tanti gruppi avevano percorso senza nessun tipo d’incidente o contrattempo degno di nota. Se non che, l’assenza di condizioni preoccupanti non è sempre sinonimo di sicurezza. Come avrebbero tutti scoperto in quella drammatica e tremenda notte tra l’1 ed il 2 febbraio, i cui precisi avvenimenti costituiscono, tutt’ora, uno dei maggiori misteri del XX secolo.
La presa di coscienza che fosse successo qualcosa giunse il 12 febbraio, quando il club sportivo di cui i giovani facevano parte continuava a non ricevere il telegramma per confermare il ritorno senza incidenti alla civiltà. Così che entro la fine della settimana, i loro familiari chiesero ed ottennero l’organizzazione di una spedizione di ricerca, che avrebbe trovato la tenda dei ragazzi semisepolta tra la neve, stranamente tagliata dall’interno, il giorno 26 febbraio. Causando dapprima semplice perplessità, finché di li a poco, uno dopo l’altro, non avrebbero iniziato a rintracciare i loro corpi a varie distanze, conservati integri dal gelo. L’investigazione, dettagliatamente annotata e tutt’ora consultabile da intere generazioni di appassionati delle teorie del complotto, registrò fin da subito alcuni aspetti difficili da conciliare. Alcuni di loro erano vestiti soltanto in parte, o addirittura seminudi. Cinque erano morti, in maniera alquanto prevedibile, d’ipotermia. Ma i rimanenti quattro riportavano ferite da impatto estremamente significative, con danni al cranio, le costole e la cassa toracica. Del tipo compatibile, si sarebbe affermato, con “Un incidente d’auto”. Inoltre a due dei corpi erano stati asportati inspiegabilmente gli occhi, ad uno la lingua e ad un altro le sopracciglia. A complicare ulteriormente la faccenda, i loro abiti risultavano essere lievemente radioattivi, mentre alcuni dei locali parlarono, nei mesi ed anni successivi, degli strani globi luminosi avvistati in cielo proprio la notte del terribile “incidente”, potenzialmente riconducibili a test di misteriosi sistemi d’arma da parte del governo, oppure…

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Basta cani da valanga, è tempo di affidarsi al Gulo gulo

Wolverine Rescue

Tra tutti i personaggi dei fumetti ispirati in qualche maniera ad un animale, nel loro nome, reputazione o costume, l’artigliato Wolverine, probabilmente il più popolare degli X-Men, è forse l’unico ad avere una corrispondenza col suo totem bestiale che possa definirsi di un tipo, per così dire, principalmente psicologica. Certo la volverina, una creatura imparentata con la donnola che in Italia è spesso definito “ghiottone” (dopo tutto questo è il significato del suo appellativo latino) ha pure lui il suo bel set d’unghioni, che comunque non sono assolutamente retrattili come quelli del gatto o per l’appunto, del supereroe. È inoltre molto resistente alle ferite e agli infortuni di ogni tipo, come del resto qualsiasi altro animale selvatico che vive in degli ambienti inospitali, ma non può certo rigenerare le parti offese alla maniera di una stella marina, o dell’interpretazione più famosa del prestante attore Hugh Jackman, l’uomo dai basettoni trasformabili che fa spesso da contrappunto alla distaccata razionalità di Patrick Stewart/il Dr. Xavier. Così le somiglianze tra i due omonimi, la belva quasi umana e l’uomo dall’istinto combattivo, finiscono per concentrarsi soprattutto nell’ambito caratteriale, visto che ben pochi potrebbero definire l’alter-ego indistruttibile di James “Logan” Howlett, come nient’altro che tenace, indefesso, caparbio, volitivo. Tutte caratteristiche che, in qualche maniera, possono tranquillamente essere attribuite all’omonimo compatto, peloso e ringhiante abitatore dell’intero Settentrione del mondo, dall’Alaska alla Kamčatka, dal Canada alla Siberia. Ora, qualcuno ha pensato che simili doti potrebbero davvero, essere utili all’umanità. E tutto in funzione di un’accidentale, drammatica presa di coscienza individuale…
Mike Miller, direttore esecutivo dell’Alaska Wildlife Center, rinomato centro di conservazione faunistica, si trovava presso Hatcher Pass, nelle Talkeetna Mountains, per fare da consulente in occasione della realizzazione di uno spot pubblicitario, all’interno del quale doveva comparire niente meno che una renna vera (probabilmente, di Babbo Natale?) Ora, mentre aspettava il resto della troupe, si ritrovò a conversare con un ranger del parco, che gli indicò un veicolo parcheggiato in fondo al piazzale: “La vedi quell’auto, Mike? Devi sapere che è di una donna che ha perso suo figlio in una valanga, diverse settimane fa. Il corpo non è stato ancora trovato e da allora lei, senza mancare un solo giorno, viene qui nella speranza di potergli dare degna sepoltura…” Terribile, agghiacciante. È del resto una realtà del mondo innevato, spesso trascurata dal cinema di genere o i documentari, che l’attività di soccorso effettuata dai cani addestrati per rispondere ai disastri montani si trasformi, nella maggior parte delle volte, in una missione di recupero dei già defunti. Una volta soverchiato dalla massa solida dell’acqua semi-congelata, infatti, il corpo umano non può sopravvivere che pochi, tragici minuti. Ed a quel punto, lo stimato naturalista non potè fare a meno di chiedersi tra se: “Possibile, che non si possa fare qualcosa per queste persone?” Ora, un cane è ovviamente un animale formidabile. Dall’olfatto rinomato, eternamente pronto ad imparare e dar soddisfazione al suo padrone. Che vorrebbe sempre, con ogni residua fibra del suo essere, rendersi utile a un profondo bene universale. Ma qualsiasi Pastore Tedesco, Labrador o San Bernardo, per quanto abile e capace, non si è evoluto per cercare nella neve. Non è perfettamente predisposto a questo compito, e non lo sarà mai. Così, perché no, la volverina, che notoriamente possiede un olfatto pari o superiore a quello del suo distante cugino quadrupede abbaiante? Ah, ci sono innumerevoli ragioni. In primo luogo, quasi nessuno è mai riuscito ad ammaestrare uno di questi animali, dalla reputazione di ferocia comparabile a quella del diavolo della Tasmania, o per essere ancor più diretti, a Lucifero stesso. Tanto dovrebbero essere mordaci, nell’opinione di tutti, questi carnivori da 20-30 Kg, Ma aspetta un attimo. Ho appena detto, QUASI nessuno? Beh, in effetti qualcuno c’è. Una singola, notevole persona…

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