Forse uno degli oggetti più notevoli ad aver mai trovato collocazione all’interno di un hangar avrebbe fatto la sua comparsa in una struttura designata in quel di Weeksville, North Carolina, nell’inverno del 1964. In maniera totalmente inaspettata e improvvisa per tutti coloro non fossero stati coinvolti direttamente nella sua preparazione, quando un pallone in poliestere riflettente della massa di 256 Kg sarebbe stato riempito d’aria con un ritmo sostenuto, fino all’ottenimento di una sfera perfetta dal diametro di esattamente 41 metri. Argentata e magnifica, svettante come una sorta di manufatto alieno fuori dal contesto frutto di un contatto interdimensionale segreto, essa costituiva nella realtà dei fatti un oggetto dalla chiara funzionalità pratica, frutto di un piano ben preciso ed attentamente pianificato. Con radici risalenti ad almeno 6 anni prima, quando nel corso di un incontro sul tema dei satelliti per le telecomunicazioni l’ingegnere John R. Pierce, della compagnia telefonica Bell, ipotizzò l’eventualità d’impiegare un oggetto costruito dall’uomo come riflettore passivo per i segnali audio e video, permettendo ai relativi segnali di oltrepassare il bordo della curvatura terrestre. Idea che piacque a tal punto, in modo particolare al direttore del Jet Propulsion Laboratory californiano William H. Pickering, che entro il mese di ottobre di quell’anno venne designato dall’esercito statunitense un gruppo di tecnici incaricati di trasformarlo in realtà. Nel frattempo il JPL era passato sotto il controllo del nuovo ente governativo della National Aeronautics and Space Administration (NASA) ed aveva avuto inizio, formalmente, il programma spaziale degli Stati Uniti.
Reduci dell’esperienza dello Sputnik-1 sovietico, mandato in orbita nel 1957 ed un’intero anno prima dell’Explorer-1 americano, la superpotenza occidentale non aveva la benché minima intenzione di essere raggiunta o superata anche nel campo delle telecomunicazioni condotte mediante oggetti sospesi nello spazio cosmico esterno. E fu così che entro il 1960, il prototipo del cosiddetto progetto Echo, numero Cospar internazionale 6000901 fu pronto; il suo diametro era pari a 30 metri ed il materiale costituente, come quello dei successivi modelli, costituito principalmente in polietilene tereftalato (PET) schiacciato ed espanso, fino al punto di costituire una membrana spessa, flessibile e resistente. Una soluzione altrimenti identificabile con il suo nome commerciale di Mylar, che oltre alle caratteristiche strutturali presentava anche la dote niente affatto trascurabile di una colorazione argentea resistente al vuoto cosmico, idealmente perfetta per la realizzazione del fine originariamente auspicato. Come desumibile dal nome dei satelliti in questione, l’idea fondamentale era quella di utilizzare la grande sfera come una sorta di riflettore catarifrangente, capace non soltanto di restituire la stragrande maggioranza della luce ricevuta dall’astro solare, ma anche il 97% stimato delle microonde frutto dei segnali radio terrestri. Forse il modo più semplice e funzionale di far rimbalzare una trasmissione, se non che il più grave dei contrattempi si trovava purtroppo in agguato. Quando il 13 maggio del 1960, a causa di un problema con il razzo usato per portarlo in orbita del veicolo Thor-Delta, il pallone finì per ricadere nell’oceano Atlantico, dove per quanto ne sappiamo giace tutt’ora. Il che avrebbe certamente costituito un contrattempo eppure, nulla più questo…