L’avamposto del futuro che precorre il terzo millennio della città di Valencia

Un richiamo pratico ed alquanto evidente all’architettura monumentale delle grandi capitali del mondo antico; l’iconica ed idealizzata rappresentazione di quello che potrebbe essere, un giorno molto lontano, il canone del corso principale della scienza che ridefinisce il senso logico degli spazi dedicati all’umanità. Tutto questo e molto altro, può essere desunto dalle ardite geometrie e le frastagliate ombre disegnate sull’asfalto dal più incredibile complesso di edifici della Spagna, forse il più avveniristico di tutta Europa. L’eccezionale congiunzione di pensiero, materia, personalità ed intenti, tutto ciò guidato a destinazione dalle proiezioni operative di una mente fondamentalmente dedita all’eclettismo. Di Santiago Calatrava, l’architetto con il nome di un ordine cavalleresco ed una discendenza aristocratica, molte cose sono state dette: in merito alla sua ambizione che esula talvolta dalle circostanze, la visione inflessibile che tende a dominare il cliente, la palese convinzione che la scelta della soluzione maggiormente semplice, nella maggior parte dei casi, possa indurre in errore. Qualcosa di spiazzante e spesso indesiderabile in qualsiasi capo di un progetto, particolarmente quando questo implichi svariati anni e molti milioni di euro d’investimento. Eppure camminando lungo il letto del fiume Turia, prosciugato dopo la devastante inondazione del ’57, è difficile non sorprendersi ad alzare lo sguardo al cielo ed ammirare le intriganti “cose” che ci sorgono attorno. La straordinaria serie di strutture, almeno in apparenza edificate con finalità paragonabile a quelle di un arco di trionfo o vasto e inusitato mausoleo marziano, fatto di archi di cemento, finestre riflettenti e vistose forme paraboloidi che s’intrecciano come i contrafforti di una cattedrale. La cui genesi risale alla seconda metà dell’ultima decade del Novecento, per l’iniziativa nata da una fortunata serie di contingenze: l’allora presidente del Governo Autonomo di Valencia, il socialista Joan Lerma, che ritorna da una visita ufficiale alla Cité des sciences et de l’industrie di Parigi, immaginando quanto avrebbe potuto significare per il turismo della sua metropoli poter fare affidamento su un’istituzione simile da dedicare alla divulgazione dell’ottimismo nei confronti del domani. Un sentimento accompagnato, per una volta, da ingenti fondi concessi da un periodo economicamente positivo per la Spagna, coerentemente alla presa di coscienza collettiva dell’esistenza di un lungo e stretto spazio vuoto in prossimità del centro storico di quella grande città europea. Ragione sufficiente per coinvolgere, in prima battuta il fisico dell’Università di Valencia Dr. Antonio Ros, incaricato di stendere un piano di fattibilità del progetto, procedendo progressivamente nel coinvolgimento delle figure tecniche ed autorali necessarie alla sua effettiva realizzazione. Tra cui finì per figurare, molto presto, il già famoso costruttore d’avveniristiche infrastrutture di trasporto, ponti e l’occasionale museo, tutte strutture destinate a diventare celebri come “opere di Calatrava”, grazie al possesso di quello stile inconfondibile ed emozionante. Destinato a trovare terreno fertile, e una quasi letterale carta bianca negli anni a venire dell’intera Città della Scienza, fatta eccezione per il singolo contributo del collega e connazionale Félix Candela, coinvolto per la costruzione dell’Oceanogràfic, lo svettante acquario e delfinario completato nel 2003 con la forma di un fiore di ninfea tratteggiato dalle facciate paraboloidi ricoperte da scintillanti pareti di vetro. Ma non prima che i tre elementi principali della spropositata attrazione cittadina, uno dopo l’altro, venissero inaugurati entro il volgere del nuovo millennio…

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L’incredibile realismo del simulatore robo-equino

Nella mente di Re Riccardo III che esclamò con furia shakespeariana: “Il mio regno per un cavallo!” esisteva certamente un sogno, condiviso da tutti quegli altri nobili, reali e perché no, altri facoltosi proprietari di armi ed armature nel contesto britannico medievale: poter contare sul fatto che i solenni spiriti incaricati di assecondare la sua richiesta, nel caos del combattimento, gli avrebbero portato una bestia che fosse al tempo stesso mansueta, eppur veloce, affidabile ma grintosa. Poiché come non esiste il cavallo perfetto, lo stesso può esser detto in merito al cavaliere. E se siamo noi a sbagliare, non è certo possibile sostituire noi stessi, al sopraggiungere della prossima battaglia di Bosworth Field. Immaginate ora di trovarvi all’interno di una stanza comoda e dotata di aria condizionata, lanciati al galoppo a una significativa manciata di chilometri orari. Mentre il vostro destriero nitrisce, quindi, per uno spostamento inappropriato del ginocchio sinistro, l’istruttore che si trova magicamente sospeso al vostro fianco agisce sullo stivale, riportandovi alla posizione corretta. Impossibile come il sogno di una notte di mezza estate, vero? Beh…
Attraverso la storia antica e recente delle più complesse discipline umane, sia fisiche che mentali, è stato ripetutamente dimostrato come il processo di apprendimento possa essere agevolato dal fare pratica in una situazione controllata: affrontare sempre lo stesso problema o situazione, ancora e ancora, finché la memoria istintiva delle nostre azioni e reazioni muscolari (o neuronali) ci permetta di poter contare su una serie di strumenti validi a salire il successivo scalino dell’auto-perfezionamento. Pensate, ad esempio, al tipico percorso fatto compiere dalle autoscuole ai propri alunni, fino al giorno fatidico dell’esame per la patente. Tra tutte le espressioni possibili di quel concetto di trasporto, tuttavia, tutt’ora ne viene messa in pratica una in particolare che sembra non poter contare su una simile opportunità: ciò perché in equitazione, la più perfetta unione tra due cervelli e corpi estremamente diversi tra loro, conta per l’appunto il desiderio dell’animale, oltre a quello del suo fantino/a. In altri termini, sarà possibile affrontare la stessa curva, lo stesso salto o esercizio di dressage, 100, 200, 400 volte, facendo nel contempo affidamento sul fatto che neppure due di esse finiranno per risultare perfettamente uguali… Magari, una volta il cavallo sarà lievemente inclinato a sinistra. Un’altra, s’impunterà mezzo secondo causa un’improvvisa esitazione. La terza, addirittura, potrebbe spontaneamente effettuare quella complessa manovra che è il cambio di galoppo al volo, cambiando totalmente i delicati equilibri che avevate costruito in settimane o mesi di preparazione. E in che modo, dunque, potreste lavorare sui VOSTRI difetti di postura, indipendentemente dal cavallo scelto caso per caso, quando anche in situazione d’addestramento sarà la parte meno collaborativa, ad incidere maggiormente sui problemi di ciò che resta, comunque, una coppia di corridori?
L’idea migliore e maggiormente risolutiva sembrerebbe essere quella venuta a Bill Greenwood, originariamente proprietario di un maneggio nel tranquillo villaggio inglese di Tarporley situato nel Cheshire, quando verso l’inizio degli anni ’90 un fantino recentemente infortunato venne da lui dopo la lunga degenza a chiedergli “Esiste un modo per abituarmi nuovamente a correre ai massimi livelli, senza mettere in difficoltà, o addirittura pericolo, un cavallo?” Ovviamente, in quel preciso contesto geografico e momento storico non esisteva. Altrettanto prevedibilmente, ben presto la situazione sarebbe andata incontro ad alcuni ottimi presupposti di cambiamento…

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