L’eleganza della pinza per aprire il vino

Port Tongs

Tutto è pronto nel giardino d’estate, per la cena romantica di un giorno già scritto col fuoco del fato, per fortuna mai fatuo? 7 candele, 3 per tu-Lui, 3 per lei-Lei, più una nel centro del tavolo tondo, bianca tovaglia, piatti di pregio e bicchieri da vino. L’alto gazebo fiorito, per una volta, senza il ronzio di zanzare moleste. A questo sono servite le esche, gli zampironi, il veleno nebulizzato, il cui olezzo ancora compete con quello d’alloro e di fiori. Due ore di pace ti sei ricavato, almeno, nel buio che avanza, adatte a parlare d’amore con…Colei che già giunge, camminando tra l’erba con scarpe inadatte.  Ti riserva un sorriso, splendente nell’abito rosso e già pronta ad uscire stasera. Ma prima di quello, linguine alle ostriche.  Poi cordon bleu di zucchine. Gamberi al sesamo, con generoso apporto di aromi al ginseng; il tutto accompagnato da una bottiglia di porto invecchiato, fuoriuscito dalla fornita riserva del grande casale di famiglia, tenuto là sotto da un tempo di ben 15 anni. O almeno, ciò dice l’etichetta. “Mia cara, lascia che ti offra…Da bere.” Ti alzi in piedi, stagliandoti contro la Luna calante. In una mano, la preziosa bottiglia, nell’altra il cavatappi professionale acquistato in un viaggio a Parigi. Dimenticato il caldo degli ultimi giorni, la fatica di sistemare il giardino, i guai del lavoro che ti aspettano alla fine del mese, per un attimo almeno, ti senti un eroe. Sai che non potresti mai “fallire”. Col gesto di uno spadaccino rinascimentale, pianti la punta nel sughero. Il tuo sguardo è un magnete puntato alla persona che hai di fronte, carico di sottintesi e sentori notturni. Lei ha un’espressione indecifrabile, mentre piuttosto stranamente, sembra prestare un’eccessiva attenzione a quello che tu stai facendo, con forse un’affettazione di eccessiva destrezza. D’un tratto, il cavatappi sta girando a vuoto: “Co…Cosa?” Schegge di sughero volano in giro! La bottiglia ti scivola, quando lei scatta in piedi, allunga la mano, miracolosamente la riprende al volo. “Whoops!” Un tuo solo sguardo, il mento sul collo incravattato, ti conferma l’orrenda realtà: il tappo è caduto nel vino. E ora? Il gatto in calore dei vicini sceglie proprio quel momento per lanciare il suo astruso richiamo, sottolineando e accentuando l’eterno minuto. Tu la guardi, lei ti guarda: “Caro, non preoccuparti. Vado a prendere il colino.”
Gli imprevisti hanno questa tendenza ad essere graduati sulla base del momento corrente. Una bottiglia che non si apre, durante una cena tra parenti ed amici, può tutt’al più rallentare il convivio di qualche minuto, mentre ciascuno si prodiga in contrastanti suggerimenti, in un caos cacofonico che presto raggiunge l’apice, poi trova una soluzione, se non proprio ideale, per lo meno adatta ad andare a versare quel fluido fondamentale. Mentre in un contesto formale, reale o percepito, come l’ipotetico appuntamento galante narrato nei film hollywoodiani, nei fatti più raro di un panda gigante, rovina la fiaba e riduce il valore della metafora. In parole povere, riporta all’istante i due attori nel mondo dei problemi materialistici, spoetizzando quell’ora di grazia artefatta e cancellando ogni proposito d’unione spirituale. Per questo, bisognerebbe essere sempre pronti. Soprattutto qualora si intenda servire un vino come quello della città atlantica di Porto, nella regione portoghese del Douro, famoso per le sue molte varietà e il gusto naturalmente dolce, nonché la problematica abitudine di erodere il tappo di sughero dall’interno. Colpa, probabilmente, dello spirito d’alcol vinico usato per interrompere la fermentazione dell’uva, con un contenuto di etanolo tra il 19 ed il 22% che nel XVIII secolo gli permetteva di sopravvivere facilmente ai viaggi per mare, giungendo sulle tavole di una buona parte d’Europa. Tanto che gli inglesi di allora, privati ad inizio secolo del piacere dei vini francesi come rivalsa sul trattato di sanzioni commerciali di Methuen (1703) ne scoprirono il gusto, assieme ad un approccio particolarmente funzionale alla sua apertura, qui mostrato nel suo funzionamento niente meno che da un sommelier del celebre ristorante newyorkese di Eleven Madison Park, il Sig. Jonathan Ross. Se soltanto potessimo avere tutti, anche soltanto un decimo, della sua palpabile nonchalance!

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Fatine viventi? Anche un ologramma ha il suo perché

Holo Fairy Lights

L’alba in cui l’aria che vibra affascina l’occhio allarmato: luci nematiche, fate di fuoco. Pura magia tecnologica. Dice il racconto che un team di scienziati (ingegneri? Ottici? Druidi del cerchio ulteriore?) delle università di Tokyo, Utsunomiya, Nagoya e Tsukuba, abbian studiato un sentiero nuovo, di fumo e di specchi, per far della luce scintille, ed a queste donare una forma. Fin qui, niente di nuovo. Lo spettacolo volumetrico degli spiriti eterei si è visto talvolta, negli show laser delle disco e i teatri di questo mondo. Ma pur sempre lontano, per meglio stagliarsi su di un fondo nero, sfuggendo alle mani dei troppo curiosi. Perché in effetti focalizzare la luce in un punto preciso, all’interno di un gas che sia in grado d’illuminarsi, significa renderlo incandescente. E non tutti hanno la pelle d’acciaio incombustibile, anzi, diciamolo: quasi nessuno. In questo la nostra novella è speciale: come mostrato nel video, realizzato a sostegno della presentazione di questo assurdo fenomeno al SIGGRAPH, la grande conferenza sulla grafica computerizzata, questi spettri non sono soltanto tangibili, ma cambiano se li tocchi. Ciò grazie all’impiego di un diverso tipo di laser, che invece di pulsare al ritmo di un nanosecondo (sufficiente per ustionare) lo fa ad intervalli di un femtosecondo (un milionesimo di miliardesimo di…) Così: una fiammella volante di un centimetro cubo, in rotazione sull’asse del suo vagheggiare, non aspetta altro che il dito dell’uomo, per trasformarsi nella ragionevole approssimazione di Trilli, microscopica amica di Peter Pan. Facendo tuttavia a meno di quella personalità scoppiettante, l’insistenza didascalica, la voce stridula e petulante, ahimé?
E da quella leggiadra figura si sviluppa il crescendo, la visualizzazione virtuale del tutto: figure geometriche, lettere dell’alfabeto, cuoricini, piccoli loghi fluttuanti nel buio assoluto. Ciascuno, mirabilmente, in evoluzione sull’asse del tempo. Ma non soltanto per il semplice passaggio di quest’ultimo, bensì grazie all’interazione diretta di una possibile utenza. Né il video, né la documentazione del progetto (per il resto piuttosto completa) si dilungano eccessivamente nella spiegazione del come venga rilevato il “tocco magico” che da il via a tali mutamenti, benché non sia affatto difficile immaginare un sensore ad infrarossi passivo, per esempio, che riveli l’introduzione di un corpo estraneo nell’area del plasma eccitato dal loro complesso sistema. Applicazione tutto sommato quasi automatica, del concetto di un ologramma che non necessiti di struttura di contenimento, né alcun tipo di ostruzione solida costruita attorno. Un aspetto maggiormente interessante, semmai, è il fatto che poiché il rilascio dell’energia nei punti luminosi sia comunque relativamente significativa, questi ultimi diventino percettibili al tocco, offrendo una sorta di feedback haptico, o kynestetico, che dir si voglia, un pò come la vibrazione di un certi cellulari all’attivazione di opzioni sul loro touch screen. Così la virtualizzazione si guadagna una forma apparente, per una volta, non soltanto visuale, ma pure fisica ed immanente. Almeno finché c’è corrente.
Si tratta di un gioco, per ora, e in effetti è difficile immaginare applicazioni pratiche non legate all’intrattenimento di un simile meccanismo, benché il team di ricerca citi tra le altre cose dei segnali fluttuanti da usare in caso d’emergenza, come un incendio, che indichino la migliore via di fuga in base a quante siano le persone in corsa verso l’uscita. Aggiungerei, personalmente, un altro potenziale impiego di quel tipo per così dire responsabile, venendo in aiuto alle persone affette da disabilità visive, dato che l’immagine può essere percepita al tatto. La tecnologia potrebbe rivelarsi un valido modo per visualizzare col tocco concetti di vario tipo, anche notevolmente complessi. Certo, purché si riveli scalabile a misure ben maggiori: un centimetro cubo è decisamente un po’ poco, per fare ciò. Il che, del resto, è tutt’altro che impossibile almeno in teoria. Volete sapere come funziona un tale miracolo della scienza? Ecco…

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Il gioco degli equilibristi da 1.600 tonnellate

Liebherr Balancing Game

Non si può mai sottovalutare lo spontaneo senso di divertimento e meraviglia che deriva dal vedere in prima persona, durante una dimostrazione aziendale, la gru per carichi ultra-pesanti LR 13000, la più potente al mondo della sua classe, con la capacità di elevare a 140 metri ben 1.600 tonnellate, che fa di un fuscello la sua sorella LR11350, a sua volta impegnata nel compito di far allontanare dal terreno la LR1350.1 (“appena” 300 tonnellate di carico massimo, ah ah ah). Ma le cose iniziano a farsi davvero interessanti soltanto qualora quest’ultima, per un vezzo del momento, non se ne stesse lì passivamente, ma piuttosto fosse stata anche lei dotata di un’ulteriore carico da mettere in mostra in mezzo all’aria, ovvero la graziosa LR1100 dal simpatico centinaio di migliaia di Kg alla portata del suo gracile braccino di metallo. Ora, giunti a questo punto molti avrebbero potuto dire: “Adesso basta” Oppure: “Non ce la faccio, andiamo a casa” Ma non così il gruppo Liebherr con sede presso la cittadina svizzera di Bulle, nato dalla mente fervida dell’inventore Hans L, oggi cresciuto fino a una capitale di 816 milioni di euro, sedi in quattro continenti ed oltre 40.000 dipendenti. Perché la ricorsività progressiva delle gru giganti è un’arte, e come tale va portata alle sue estreme conseguenze: il macro nel micro, nel macro e poi alla fine, sotto l’occhio degli spettatori giunti fino in fiera, addirittura la più piccola di quelle gru che tiene col suo gancio la piattaforma, ospitante un fedele modellino di se stessa, scelto fra quelli che l’azienda in genere regala ai suoi clienti più affezionati.
Il fatto è che gli ingegneri vivono su di una scala differente. Tanto che persino quando giocano, guadagnano, e nel farlo smuovono le metaforiche montagne. Questo concetto di trasformare il sollevatore nel carico di un altro e così via, con un notevole ritorno di pubblicità virale, è un’operazione che dev’essere stata studiata a fondo, con calcoli accurati e test simulativi di natura alquanto approfondita. Tutti noi abbiamo visto, a più riprese ed anche negli ultimi giorni in Olanda, l’effetto disastroso di un sollevamento inopportuno, con il conseguente rovinare dell’intero macchinario con il carico sopra ciò che aveva attorno. In tali circostanze, i danni alle cose inanimate sono solamente la parte minore del problema, mentre viene messa in pericolo la stessa incolumità, al minimo, di coloro che hanno il compito di dare l’input dalla solida cabina di comando. Ciò che tutti sanno, quindi, osservando un simile spettacolo, è che la fiducia nei confonti della sua serie di gru cingolate della serie LR è pressoché assoluta non soltanto da parte di coloro che le vendono, ma anche della gente che si trovava lì a guardare un tale esperimento totalmente senza precedenti. Almeno in quell’occasione del 2012 svoltasi presso la fiera dei Customer Days di Ehingen in Germania, qui montata ad arte in un video chiaro ed esauriente. Perché di performance similiari, realizzate a seguire dall’evento, online se ne trovano diverse, a chiara dimostrazione del successo avuto in un settore tanto apparentemente privo di creatività e voglia di distinguersi dal gruppo.
“Ma chi, chi mai potrebbe aprire la via nuova del progresso, se non coloro che hanno un modo di pensare totalmente fuori dagli schemi?” Sembra chiedere a gran voce questa pubblicità della Liebherr, con un velato riferimento all’omonimo fondatore, che riuscì a commercializzare per primo, nell’ormai lontano 1949, una gru a torre che fosse in grado di ripiegarsi su se stessa, ritrovandosi trasformata in autotreno in grado di spostarsi senza ausilii esterni. Escluso forse quello di un trasportatore dei suoi contrappesi, variabilmente titanici sulla base del bisogno di giornata. Per non parlare di tutto quello che venne (subito) dopo…

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La nascita di un iceberg colossale

Ice Calving

Il cataclisma, l’annientamento più totale. Un’intera terra emersa che sparisce, all’improvviso, procedendo a dissolversi tra l’acqua e l’aria. Che gli elementi siano fluidi, e dunque soggetti al mutamento ciclico da uno stato all’altro della materia, è un’assunto costante dell’umana filosofia naturale. Ma osservare quel processo all’opera, specie su scala tanto imponente, è un’esperienza che non scordi tanto facilmente. Succedeva, a quanto apprendiamo da una rapida ricerca, nell’ormai distante 28 maggio del 2008 presso il ghiacciaio Ilulissat dell’isola di Greenland, durante le lunghe e difficili riprese per il premiato docufilm sul riscaldamento globale, Chasing Ice (2012 – prod. James Balog) lasciando un segno indelebile sulla comune concezione di quello che sia possibile vedere, in un pianeta ormai soggetto a un mutamento repentino e significativo. Anno dopo anno, le nostre preziose risorse di acqua dolce solidificata vengono erose a causa di un’atmosfera non più in grado di filtrare pienamente le radiazioni stellari del Sole, migrando verso quella forma che le porta a addizionarsi al vasto mare. Però questo non succede, come si potrebbe facilmente scegliere di pensare, con un ritmo regolare e prevedibile, giacché nulla, tranne ciò che è artificiale, si adegua alle preferenze della società. Bensì la forza che si accumula per l’allungamento longitudinale di un ghiacciaio, a causa dell’effetto della gravità, d’improvviso raggiunge il punto critico ed allora…Si ode il rombo di un boato, pari al quale non c’è nulla che sia percettibile all’orecchio umano, quindi inizia la trasformazione. In quel caso semi-leggendario, di una massa bianca pari o superiore all’isola di Manhattan, che in un turbinare caotico ha iniziato a muoversi in senso parallelo al piano dell’inquadratura (e meno male, altrimenti chi lo salvava?) Oggi, con intento didattico ma anche un chiaro scopo promozionale, l’intera sequenza è disponibile sul canale ufficiale degli Exposure Labs, compagnia di produzione del lungometraggio, assieme a qualche dato di riferimento che può facilmente far venire le vertigini: altezza complessiva del ghiaccio, 3000 piedi ca. (914 metri) di cui 2700 sotto il livello dell’acqua. Entità dell’area lasciata vuota dal fenomeno, un miglio di profondità per due di larghezza, benché come dimostrato anche dall’immagine metropolitana in sovraimpressione sul finire del video, i sommovimenti fossero riusciti a coinvolgere uno spazio molto superiore. L’intero evento incredibile, poi, si è svolto in un tempo di 45 minuti, praticamente l’equivalente di un battito di ciglia rispetto alle proporzioni di un tale sorprendente, eppure prevedibile disastro. Non c’è in effetti nulla d’inaudito in un distaccamento dei ghiacci che raggiunga tali proporzioni, visto come in precedenza siano stati riportati (ma non messi su pellicola) eventi di ablazione dalle proporzioni assai maggiori. In particolare esistono testimonianze dell’improvviso palesarsi, verificatosi tra agosto del 1961 ed aprile del ’62, di una nuova isola ghiacciata a largo della barriera glaciale artica di Ward Hunt, presso la costa nord dell’isola di Ellesmere, a Nunavut, in Canada. Della quale ormai non resta nulla, a causa dell’ulteriore aggravarsi di quelle stesse condizioni che l’avevano creata.
È una scena per certi versi triste, sconvolgente. Eppure che non può fare a meno di ispirare un certo senso di stupore dinnanzi all’entità immisurabile della natura, le assurde proporzioni verso cui tendono le basi solide dell’attuale situazione di contesto, rapidamente in viaggio verso l’auto-annientamento. È possibile arrestare del tutto un tale processo dalle proporzioni planetarie, di cui lo squagliamento del ghiacciaio di Ilulissat non è che una minima parte? Probabilmente no, direbbe il pessimista. E dunque, ubriacati dal senso della fine che già vede il porto d’approdo, faremmo bene a goderci uno spettacolo del finimondo, spezzettato per la nostra convenienza in tanti singoli episodi da gustare separatamente…

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