L’impropria predisposizione di chi pensa di nutrire un coati soltanto

In un giorno d’incertezza collettiva fu Carlota, portavoce della fazione Stabilimento, a prendere improvvisamente la parola, brandendo il lungo naso da una parte all’altra come fosse l’asta di una bandiera: “Una scatola, vi dico. Lei teneva in mano quell’involucro di plastica trasparente. Dentro ci saranno state almeno due dozzine di chicchi d’uva. E poi la donna ha aperto il coperchio, cominciando a distribuirne il contenuto. Dapprima in quantità limitata, poi, aumentando la pressione psicologica del branco, con un ritmo sostenuto e pienamente adeguato alle circostanze.” Un mormorio diffuso percorse il partito della Fattoria, poco prima che Calixta, la lunga coda eretta con la forma vagamente suggestiva di un punto di domanda, raggiungesse il palcoscenico dell’orazione, un tronco cavo adagiato ai margini del sottobosco: “Presentarsi tutti assieme dagli umani, intendi? Abbiamo già votato: non sarebbe saggio. Ogni volta che c’introduciamo oltre il recinto, per andare a prendere una gallina o due, dobbiamo stare attenti a non produrre il minimo rumore, pena il palesarsi dell’ostile contadino armato di forcone. Non va bene, non va bene affatto…” Mentre la sua voce sfumava in un verso querulo di approvazione, emesso dal popolo della foresta come fosse un singolo animale, Carlota chiamò silenziosamente sul palco il suo assistente, un giovane procionide di nome Cecilia. Che puntando il naso all’indirizzo del gremito pubblico, sollevò una tavoletta parzialmente avvolta nella carta stagnola e stretta tra le dita prensili della sua zampa anteriore sinistra: “Questa, amici miei, è cioccolata. Il nettare creato dai padroni del pianeta, pronto da mangiare per chi osa solamente chiederlo, nel punto giusto, nel momento appropriato.” E per dare enfasi al sua dichiarazione, spezzò il cibo divino in tre parti, offrendolo con gesto magniloquente a Carlota e Calixta. Ora la semplice sollecitazione visuale, assai probabilmente, non sarebbe bastata a convincere la maggioranza dei presenti! Ma poiché l’aroma della sostanza proibita era perfettamente percepibile alle svariate dozzine dei lunghi nasi puntati all’indirizzo di quel punto focale, l’opinione delle moltitudini fu velocemente sviata nella direzione giudicata momentaneamente opportuna. “Basta chiedere, hai detto?” Chiese sottovoce, a nessuno in particolare, il capo del partito della Fattoria. “E allora… Chiederemo.”
Chi non li ha incontrati di persona è pronto a definirli “carini”, “graziosi” ed “amichevoli” al punto da desiderarne uno da tenere tra le mura domestiche, accarezzandolo ogni qual volta se ne presentasse l’opportunità. Ma il coati o coatimundi, nella variabile accezione delle sue quattro specie riconosciute allo stato attuale, è guardato con sospetto dai coabitanti del suo intero areale d’appartenenza, capace di estendersi tra la parte settentrionale del Sudamerica, l’intera America centrale e buona parte del Messico fin quasi ai confini statunitensi. Come il tipo di creatura selvatica ingombrante non tanto in funzione delle sue dimensioni, bensì l’insistenza giudicata chiaramente inopportuna nel cercare sempre il massimo vantaggio nutrizionale con il minimo dispendio d’energie, invadendo entusiasticamente territori privati, giardini, persino abitazioni le cui porte principali o finestre sono state incautamente lasciate aperte. Per non parlare dei fondamentali secchi dei rifiuti, tanto apprezzati da essergli valso il soprannome online di elongated trash panda in riferimento alla caratteristica fisica più evidente, per distinguersi dal più comunemente conosciuto “panda della spazzatura”, il classico procione nordamericano. Altro membro della stessa famiglia di piccoli mammiferi, assieme al bassarisco, l’olingo ed il potoo/kinkajou, noti per la versatilità, intelligenza e capacità di adattamento. Nonché uno stato di fame pressoché costante, mai placata con la metodologia reciproca del loro distante cugino domestico, il canide o migliore amico dell’uomo…

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La pregevole provenienza canina dell’antica lana perduta dai canadesi

Quando nel 1792 George Vancouver, l’esploratore britannico che avrebbe dato il nome all’omonima e importante isola nonché la città che sarebbe stata posta in corrispondenza di essa, si trovava a navigare lungo le coste del Pacifico tra gli attuali Oregon e Columbia Inglese. Quando sostando con la sua nave per fare rifornimento in prossimità della foce del fiume Bute, scese a terra al fine di conoscere direttamente una tribù dei nativi, con cui effettuare scambi d’informazioni e alcune merci di un certo valore. Tra cui figuravano, dalla parte delle genti locali, delle pregiate coperte multicolori ricoperte da figure geometriche, che l’ufficiale della Royal Navy aveva già visto addosso alle delegazioni culturali e di pace che avevano precedentemente cercato un punto di contatto con le nuove colonie stabilite dagli europei. Trovando i suoi corrispondenti in questo caso particolarmente amichevoli, Vancouver chiese quindi di recarsi a visitare il loro villaggio assieme al suo seguito. Occasione nella quale, coi suoi stessi occhi, vide qualcosa di completamente inaspettato: un gruppo di donne del villaggio sedute a terra, intente a filare grandi quantità di lana candida dello stesso tipo utilizzato per le suddette creazioni tessili dei locali. E accucciato pacatamente vicino a loro, un cane di taglia medio-piccola dello stesso colore e il pelo molto corto, come se fosse stato recentemente sottoposto a tosatura. Sommando perciò i dati in suo possesso, e con qualche ulteriore domanda a mezzo interprete, l’esploratore comprese finalmente la stretta relazione tra le due cose. Diventando il primo occidentale a conoscere l’eccezionale questione della lana canina.
L’esistenza pregressa dei cani da lana allevati dalle Prime Nazioni della costa del Pacifico canadese, definite oggi per semplicità dei Salish (da Séliš, il nome impiegato dai parlanti della loro lingua per definire se stessi) è del resto una questione lungamente nota, provata agli antropologi da un’ampia serie di documenti artistici, racconti storiografici ed in tempi più recenti, persino l’analisi micrometrica del materiale di alcuni reperti tessili custoditi in importanti musei tra cui lo Smithsonian. Appartenenti a tale razza, inoltre, sono stati ritrovati nelle antiche tombe costruite per personalità importanti e la loro famiglia, seppelliti con tutti gli onori e persino avvolti nelle coperte che loro stessi avevano permesso di creare, un onore che non viene normalmente riservato agli altri animali facenti parte del corredo dei villaggi di questa particolare cultura americana. Animali di questa particolare razza, simili e non molto più grandi di un volpino (spitz) giapponese trovandosi effettivamente a metà tra questo e un samoiedo, venivano tenuti nelle case a differenza dei cani usati per la caccia, e spesso apprezzati nel loro ruolo addizionale di creature di compagnia. Considerati una possessione di pregio, le loro linee di sangue erano custodite e prolungate dalle donne della tribù, che molto spesso ne mantenevano anche il possesso formale. In un periodo successivo al XVI secolo, essi sarebbero anche stati allevati letteralmente allo stato semi-selvatico, con vere e proprie comunità di 20-30 cani tenute all’interno di ampi recinti o isole lungo la costa, allo scopo di evitare l’incrocio genetico con razze differenti e il conseguente declino qualitativo della lana. Un piano che avrebbe funzionato relativamente bene, almeno fino all’arrivo dell’uomo bianco con le molte problematiche connesse a un tale scontro di civiltà…

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La complicata missione del primo sommergibile impiegato in combattimento

Provando un momentaneo senso di rimorso, il soldato delle colonie americane Ezra Lee tornò a chiedersi come esattamente fosse giunto a mettersi in una situazione tanto disperata, nell’autunno dell’anno del nostro Signore 1776. Mentre girava vorticosamente con la mano sinistra la manovella posta all’altezza dello stomaco nel tentativo di restare immerso, la destra intenta a pompare la sentina. Le labbra strette attorno a un rigido boccaglio di legno e pedalando forsennatamente, nel tentativo possibilmente vano di contrastare la corrente alla foce dell’Hudson River. Il tutto racchiuso all’interno di quella che avrebbe potuto essere definita come una scatola di sardine, se non fosse stato per la forma oblunga vagamente simile a una ghianda gettata sul pelo dell’acqua, per poter fare ciò che alle ghiande riesce meglio: affondare. Ma poiché molto chiaramente, alla macchina propagandista dell’esercito rivoluzionario non sarebbe di certo piaciuto un simile termine di paragone, non a caso il suo atipico mezzo di trasporto era stato chiamato dall’inventore “la Tartaruga”. Come l’animale che pur sembrando apatico, nuota agilmente nelle tenebre di una notte senza luna. Si addentra lieve all’interno del punto d’approdo. E come un ninja del distante Oriente, attacca una carica esplosiva temporizzata sotto lo scafo del suo galleggiante nemico. Perfida, perfida nave del vasto impero dove “Non tramonta mai il Sole”…Ma ciononostante i suoi marinai dovranno pur dormire. Ed proprio questo il momento in cui l’infernale macchina di David Bushnell, inventore, patriota, amico di George Washington in persona che l’aveva conosciuto per il tramite del governatore del Connecticut Jonathan Trumbull, avrebbe potuto riuscire in quello per cui era stata concepita. Affondare un’intero vascello di linea dell’imbattibile marina inglese, niente meno che la nave ammiraglia HMS Eagle dell’ammiraglio Howe, con il suo carico distruttivo di 64 cannoni pronti a scaraventare tutta la propria furia sul porto di New York. “Non oggi… Non… Finché io posso fare ancora qualcosa” Ansimò tra se e se il temerario, mentre rallentando lievemente il suo pompaggio, come nell’addestramento precedentemente effettuato, lasciò che il sottomarino s’inabissasse ulteriormente, mentre la tenebra inghiottiva completamente l’abitacolo, precedentemente illuminato da quattro piccoli oblò situati a ridosso della botola superiore. Ora potendo fare riferimento unicamente alla bussola magnetica, l’indicatore di profondità ed il cronometro, illuminati da una piccola quantità del cosiddetto fuoco delle fate, un fungo fluorescente scelto appositamente per quello scopo, Ezra percepì un cambiamento nel modo in cui la corrente avvolgeva e tentava di capovolgere il sottomarino. “Ci sono… Devo esserci!” Pensò a voce alta, togliendo la mano dalla manovella dell’elica anteriore, per attivare il trapano situato all’altezza della sua spalla sinistra. Ora tutto quello che doveva fare era pregare che le cose andassero per il meglio. Ed entro lo scadere del tempo prefissato, potesse raggiungere una distanza di sicurezza prima che l’ordigno avvitato al fasciame di provenienza ostile procedesse nella devastante deflagrazione, sufficiente ad affondare, annientare, potenzialmente uccidere l’enorme scafo posto a profilarsi dinnanzi alle coste americane. Senza nessun tipo d’invito pregresso, né alcuna intenzione benevola nei confronti dei suoi abitanti.

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Le due statue che ruotano come pianeti su un lampione del Manhattan Bridge

La profondissima natura della mente umana può essere inquadrata nel sistema dei tre regni che coesistono all’interno del Creato: Minerale, Vegetale, Animale. Per il modo in cui possiamo tutti essere rappresentati da un’insieme di semplici forme, definite dalla mano esperta di colui che opera con il martello e lo scalpello su di un blocco di pietra calcarea. Per l’intero breve arco della nostra vita, non così diverso dalla nascita, la crescita e la sfioritura di qualcosa di magnifico, creato dalla pianta per accompagnarsi al suo difficile processo riproduttivo. E nella maniera in cui, vedendo una brillante fonte d’illuminazione, non possiamo fare a meno di aggirarci attorno ad una simile luminescenza. Proprio come l’Animale più elegante tra tutti gli artropodi: la falena. Ma ci sono poche statue, forse neanche una, in cui la mente e il corpo degli umani vengono rappresentati con riferimento ai lepidotteri e olometaboli di questo mondo. Mentre ce ne sono almeno due, dedicate a trasformarsi in lampade o per meglio dire, dei lampioni. Per vederle ancora oggi basta prendere un aereo, scendere a La Guardia e attraversare la città verso meridione, fino al grande ponte costruito nel 1909 ed abbinato al nomen-omen di Manhattan Bridge. Sul cui principiare, da quel lato della baia, figuravano in origine due alti pilastri, coronati da presenze femminili frutto della celebrata creatività oggettiva di Daniel Chester French, futuro autore del celeberrimo Abrahm Lincoln seduto sul suo trono a Washington DC.
Figuravano, perché nel 1963 l’importantissima figura di urbanista del più volte criticato, nonché noto discriminatore razziale Robert Moses (1888 – 1981) aveva qui deciso di aggiungere un paio di corsie stradali, oltre a rimuovere le conturbanti tentatrici marmoree frutto di un’epoca e un sentire Liberty ormai lungamente superati, così che mentre il progetto di viabilità sarebbe naufragato, lo stesso non sarebbe accaduto per il presunto sforzo moralizzatore. Tale da portare Miss Brooklyn e Miss Manhattan, come si chiamavano le grandi sculture, fra tutti i luoghi proprio innanzi al vasto ingresso del Brooklyn Museum. A corrompere le menti già perdute d’intellettuali ed altre simili figure di dubbia utilità civile. E questo avrebbe anche potuto costituire il triste epilogo della vicenda, se non fosse stato per l’iniziativa del 2016, promossa e parzialmente finanziata dal collettivo artistico Percent for Art, finalizzato a permettere al creatore di opere contemporanee Brian Tolle di aggiungere un capitolo ulteriore alla faccenda. Offrendo il contributo delle sue splendide riproduzioni degli originali, create in resina polimerica semi-trasparente, e montate sulla cima del più tipico di tutti gli arredi urbani: un lampione. Splendide perché girano costantemente sull’intero arco dei 360 gradi, mentre brillano di luce propria ricordando un faro per i naviganti della strada sottostante. Mentre volgono lo sguardo prima da una parte, poi dall’altra. Comunque tutto intorno, sempre e in ogni luogo. Tentando di abbracciare la chiassosa collettività di una delle più affollate e affascinanti città del mondo…

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