L’enorme vulcano nascosto nel Mar Tirreno

marsili

Incuneato nello spazio di un mare benevolo tra le meraviglie naturali d’Europa, perfetto ed immoto fin dall’alba della nostra civilizzazione, interconnesso in una rete di commerci e infuso della linfa stessa di una storia pluri-millenaria, lo “stivale” d’Italia costituisce al tempo stesso la metafora geografica, nonché una delle penisole in assoluto più importanti del mondo. Neppure noi abitanti, possiamo realmente mantenere al centro della nostra mente, in ogni momento, il felice incontro dei quattro elementi che si verifica in prossimità delle nostre ancestrali case, di un terreno per sempre fertile, dei venti dello Scirocco, del Libeccio e l’Ostro, che soffiando dal profondo meridione rendono corroborante il clima, dell’acqua tiepida e le onde straordinariamente regolari, portatrici di un messaggio di rinascita costante. E che dire del ruggito del fuoco eterno, che rimbomba nel profondo sottosuolo ben distante dagli occhi e dai ricordi, per fortuna… Due fiammiferi poggiati sulla polvere da sparo, la cui notorietà si estende in lungo e in largo per i danni che potrebbero causare: Etna e Vesuvio. Poi l’arcipelago delle Eolie, con Stromboli e soprattutto Vulcano: dopo tutto, è il toponimo stesso che ci aiuta a non dimenticarlo. Ischia e i Campi Flegrei…. Ben poco, oltre a questi nomi sussurrati tra il timore generale, riesce a fare capolino con la cima fessurata tra le nebbie del senso comune, perché non è affatto nella natura umana, aver paura di ciò che nessuno ha mai visto in prima persona. Ma se vi dicessi che nessuno di questi massicci o complessi montuosi, nella sostanza, è neppure lontanamente paragonabile al maggior pericolo che pende sulle nostre teste? Che esiste un oscuro araldo dell’Apocalisse, da sempre a noi tremendamente vicino, di cui la popolazione generalista sente parlare occasionalmente sui giornali ed in televisione, ma di cui subito dimentica l’esistenza, perché a chi vuoi che importi… Del vulcano più grande d’Europa. Nessuno escluso. Senza forma visibile dai nostri occhi terrigeni o centri abitati costruiti sulle sue pendici. Il che costituisce già un fattore positivo; né del resto, poteva essere altrimenti. Il titanico vulcano Marsili, che si estende per 2.100 Km quadrati e si eleva per oltre 3.000 metri dal fondale, si trova in mare aperto, 140 Km a nord della Sicilia e 150 ad ovest della Calabria. Proprio così, a questo punto l’avrete capito: esso non sarebbe nei fatti altro che l’ottava delle isole Eolie, che nel suo ergersi dal profondo tra il fuoco e le fiamme della preistoria (si sta parlando di almeno un milione di anni fa) non è riuscita ad affiorare tra le onde, e si è ritrovata a solidificarsi 450 metri sotto il velo della superficie marina. Per pendere, da quel giorno fatidico, come una spada sulla testa degli inconsapevoli vicini.
Il problema principale di questo Marsili, che prende il nome da un importante naturalista italiano del XVIII secolo pur essendo stato scoperto soltanto negli ultimi anni ’20, è che non è in alcun modo stato posto in uno stato di costante monitoraggio ad opera di sismometri e simili apparti fissi, a differenza degli altri vulcani attivi fin qui citati, e ciò nonostante le enfatiche e reiterate raccomandazioni di Enzo Boschi, presidente fino al 2011 dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) di Roma. La montagna sommersa si trova infatti ad una tale profondità e distanza dalle coste, che una simile impresa giungerebbe a richiedere cifre d’investimento tutt’altro che indifferenti. Così ci viene chiesto, molto gentilmente, di dimenticare ed andare avanti con la nostra vita, almeno finché due terremoti come quelli del 26 ottobre, di 5.4 e 5.9 sulla scala Richter non scuotono la terra proprio in un tale luogo. Tremori, sia chiaro, ben più distanti e profondi di quello di Amatrice ed Accumoli del 30 ottobre, e dunque latori di nessun danno in alcun modo comparabile. Ma la collocazione geografica è tale, che il tentativo di mettere in relazione due problematiche distinte sorge pressoché spontaneo…

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Tempeste di fulmini tra i i fumi del Calbuco

Dirty Storm

A centinaia di chilometri sotto il livello del mare, tra le Ande della Patagonia, il gas mescolatosi al magma primordiale fin dall’alba dei tempi sviluppa un fenomeno improvviso di decompressione. D’un tratto, ciò che soggiaceva silenziosamente inizia a ribollire, aumenta la sua massa complessiva e sale rapido verso la superficie. È il 22 aprile del 2015 e il sommo Zeus, svegliato dal frastuono, decide che desidera partecipare. Molte delle immagini più affascinanti che vediamo su Internet, a un’analisi più approfondita, risultano del tutto false. Altre, riprese nelle circostanze di una qualche meraviglia o insolita evenienza naturale, sono invece incredibilmente, stranamente vere. Ma esiste una terza categoria, forse la più difficile da comprendere a fondo, che è la reinterpretazione visuale di un qualcosa di realmente avvenuto, reso però evidente, o in qualche modo maggiormente chiaro, dall’uso di un effetto digitale. In questo breve spezzone pubblicato dalla BBC e diventato subito virale online, una nube rosacea di chiare origini magmatiche si erge sopra quello che viene descritto come “un vulcano della Patagonia”. Dopo qualche istante, incredibilmente, tra i fumi appaiono dei lampi luminosi e ben ramificati, quasi come si trattasse di…Fulmini? Una tempesta elettrica, che per qualche misteriosa coincidenza si è andata a mescolare proprio con un simile fenomeno raro e terrificante. Cielo e terra, mescolati assieme in questo ideale calderone dall’effetto sconvolgente…Ebbene, qualcosa di simile, in effetti era successo presso questi lidi ed esattamente quattro anni fa, durante un’eruzione del vicino vulcano di Cordón Caulle, oltre che in numerosi altri casi, totalmente scollegati tra loro, sparsi in giro per il mondo. Il temporale eruttivo è un fenomeno più volte fotografato, anche se riprenderlo in un video, nella maggior parte dei casi, risulta pressoché impossibile. Ma prima di descriverne il motivo, occorre comprendere cosa stesse in effetti accadendo.
Un calore inimmaginabile, assieme a forze di entità che sfuggono alla mera comprensione degli umani: ancora una volta, la pietra fusa sgorga dalla cima dello stratovulcano Calbuco, a 2.105 metri di altitudine, diventando lava che discende verso valle. Ma mentre si stava verificando questo, già le sostanze volatili contenute nel canale di risalita, prevalentemente acqua e diossido di carbonio, formavano delle bolle nell’ustionante fluido delle profondità, riducendone ulteriormente la viscosità. A questo punto, la questione fu decisa dai valori in gioco: se le sacche d’aria avessero potuto di accumularsi, perché il magma era sufficientemente viscoso in origine da permettere il crearsi di un effetto tappo, in assenza di vie di sfogo la pressione sarebbe aumentata a dismisura. Ad un certo punto, all’improvviso, si sarebbe sviluppata una devastante dell’eruzione di tipo pliniano, così chiamata dallo storico che la descrisse per primo, vedendola avvenire su Pompei: una nube piroclastica, dalla temperatura elevatissima, che discende le pendici della montagna, distruggendo una buona parte del cono vulcanico e tutto ciò che fosse tanto sfortunato da trovarsi attorno a lui. Certamente, nel caso del Calbuco, le conseguenze sarebbero state meno gravi che in precedenza, dato che la città più vicina (Puerto Varas) è sita a 39 Km di distanza. Ma comunque, per stavolta è andata bene. Perché la grande montagna, per dare sfogo alla sua ira, ha preso la via tipica di siti con del magma ricco di silicio o basalto-andesite, ovvero una prima esplosione, sufficiente a liberare l’apertura del cratere, seguita da una lenta colata effusiva. Il termine tecnico, coniato da Giuseppe Mercalli, è esplosione vulcaniana, dal nome dell’isola di Vulcano.

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