I tre metodi per effettuare il rifornimento in volo

IFR Flying boom

I cieli sopra il Sud-Est Asiatico erano di un’indistinto color grigio cuoio, perturbato unicamente da qualche indentatura candida di nubi punzonate in modo sparso ed indistinto. Almeno per quanto potesse vedere l’operatore del braccio estensibile volante, attraverso l’apertura praticata nella fusoliera del suo KC-135 Stratotanker, una delle più diffuse e celebri montagne volanti, creata nei remoti anni ’50 dall’adattamento diretto di un Boeing 707, riempito ad arte con benzina in ogni spazio residuo della sua precisa forma aerodinamica. Benzina, e poi ancora benzina, più avionica classe ed un lungo naso retro-direzionato, sulla cima del quale ora giaceva lui, con una cloche tutt’altro che dissimile da quella del pilota. Quand’ecco, all’improvviso, palesarsi il delta tanto atteso, della forma metallica di una suprema piattaforma: l’F-16 Fighting Falcon, uno dei caccia multiruolo più versatili dell’ormai trascorsa generazione. Come corre il tempo…E transita il momento chiave! Sarà dunque meglio, affrettarsi: “Ci avviciniamo, stai pronto.” La voce, tranquillamente udibile nonostante il rombo del motore, giunge alle sue orecchie grazie all’interfono di bordo. È il collega sovra-pagato, che lo avvisa di aver ridotto la potenza dei motori, lasciando che il piccolo aereo possa raggiungere naturalmente quello grande, facendosi vicino, sempre più vicino. A quel punto, l’asta comandata in remoto si rivela per quello che realmente è sempre stata: un piccolo aliante imbullonato alla carlinga, con tanto di superfici di controllo per direzionarla in posizione. Sullo sfiatatoio, all’incontrario, dell’agile e appuntita controparte!
È un fatto largamente noto, eppure spesso trascurato, che il rilascio di qualsiasi forma di energia possa derivare unicamente da un processo di trasformazione della materia. E maggiore è l’energia richiesta, tanto più ingombrante diventa il materiale necessario, da bruciare oppure riciclare verso lo svolgimento del lavoro designato. Il che ha da sempre condizionato, più che ogni altro campo dell’ingegneria, la progettazione dei diversi mezzi di trasporto. Il vecchio concetto di treno a vapore, con la ciminiera e tutto il resto, non poteva effettivamente prescindere da un intero vagone dedicato al combustibile, nient’altro che un’intera collinetta di carbone lucido e nerastro. E così anche i moderni veicoli (con le rotaie o meno) che pur sfruttando la suprema efficienza spazio-energia della benzina,o di fluidi più leggeri, devono pur sempre prevedere nella loro struttura uno spazio deputato alla grande tanica del serbatoio, oppure alla bombola o alle batterie. Ma considerate, adesso, l’entità di un aeroplano, oppure l’elicottero, che per condurre a destinazione i loro occupanti devono letteralmente staccarsi da terra, contrastando l’attrazione naturale della forza di gravità! Quando il peso e la massa di ciò che si trasporta, sostanzialmente, determinano tutto: la velocità, il rateo di salita, l’autonomia…. L’ultimo valore dei quali, a sua volta, è condizionato proprio dalla quantità di carburante incorporato nelle proprie ali. Così più ne metti, più vai lontano. Ma meno ne metti, meno sforzo dovrai fare per riuscirci! È un difficile equilibrio da raggiungere. Nel quale,anche l’eliminazione di un singolo problema, potrebbe fare molto per far pendere la bilancia dalla parte degli umani: la riduzione del peso in fase di decollo. Ora, se vogliamo tradurre in numeri la problematica, consideriamo questo: un 747 trasporta 524 passeggeri. I quali, se vogliamo fare un ipotesi estremamente approssimativa, potrebbero avere un peso medio (bagagli inclusi) di…150 Kg l’uno? Andiamoci larghi. Il totale, quindi, ammonta a 78,6 tonnellate. Niente male, eh? Però ecco, il pieno di carburante dell’aereo ammonta NORMALMENTE a 206.250 litri, che poi sarebbero 165 tonnellate. Più del doppio del carico per così dire “utile” bruciato, in forza di quello meramente “necessario”. Proprio per questo, da diversi anni ormai è stato proposto su carta un sistema che prevederebbe, nel corso di ogni trasvolata oceanica, l’intercettazione di una ipotetica aerocisterna, che si curerebbe di rifornire il ben più piccolo serbatoio degli aerei futuri, riducendo il peso massimo del fluido che deve essere materialmente sollevato, e trasportato, per tutta la prima fase del volo. È stato quindi calcolato che un simile sistema ridurrebbe notevolmente i costi, ANCHE considerando il carburante bruciata dall’aerocisterna stessa, comunque inferiore a quello sprecato dal circolo vizioso e dispendioso di cui sopra.

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Mai sognato di toccare un grifone d’acciaio in volo?

Gripen CD

Qualche settimana fa, l’intera Internet si è appassionata a una vicenda carica di grazia ed armonia. Mr. President e The First Lady, una coppia di aquile residente nel National Arboretum di Washington D.C, aveva deposto le uova! Trascorso il tempo necessario, prima uno, quindi due aquilotti hanno fatto capolino con il becco sopra il nido, cinguettando quietamente alla maniera tipica di tali allegorie dal bianco capo. E così, gli americani hanno esultato ancora una volta, accarezzando mentalmente quelle piume che per loro sono un simbolo di Libertà. E non è certo un caso, se costoro scelgono di appassionarsi ad una simile vicenda (e noi con loro) in modo tanto pubblico ed enfatizzato dai giornali. Le cose volanti, a partire dalla leggenda degli pterodattili, hanno sempre affascinato l’uomo. Ma pensateci: ridurre a simbolo del tuo paese un tenero pulcino appena nato! Ecco qualcuno che non ha alcunché da dimostrare… E lo credo: chi potrebbe mai mettere in dubbio la potenza sulla scena internazionale del più forte, grande e militarmente avanzato paese dell’Emisfero Occidentale; per non dire… Di entrambi. Mentre guarda caso nella patria dell’Ikea, uccelli di un diverso tipo devono trainare ultimamente il carico della fierissima rappresentanza. Rombanti, rutilanti mostri di metallo, aerei da combattimento privi dell’innata grazia delle cose naturali. Ma tutt’altro che estranei a un latente grado di splendore ed armonia.
JAS Gripen, hanno scelto di chiamarlo. Dove l’acronimo sta per Jakt (aria-aria) Attack (incursione) e Spaning (ricognizione). Mentre il secondo termine è il nome svedese della creatura araldica che si annida nel logo della Saab Defence and Security, il braccio armato della più famosa azienda aerospaziale di quei luoghi, ovvero il mostro con la testa d’aquila ed il corpo di un leone. Usato in questo caso per simboleggiare un qualche cosa di almeno altrettanto pericoloso. Ovvero un caccia straordinariamente efficace ed agile, nonché in un certo senso intelligente, fuoriuscito dai cantieri semi-gelidi per la prima volta nella primavera del 1988. Ma che soltanto nove anni dopo, dopo un lungo periodo di prove e test piuttosto travagliati, è finalmente entrato in servizio nell’aviazione di questo ed altri paesi clienti. Una creatura mai che nessuno aveva mai visto prima d’ora…Tanto da vicino, nel suo ambiente naturale, con una tale nitidezza dei contorni ed una visibilità dei dettagli pressoché totale! E non c’è molto da meravigliarsi, in tutto ciò. Dopo tutto, in questo caso abbiamo l’assistenza dei migliori: la Blue Sky Aerial di Peter Degerfeldt e Göran Widenby, compagnia di riprese estreme già celebre per il ruolo avuto in numerose produzioni di Hollywood, pubblicità e video propagandistici di vario tipo. Nonché, in senso estremamente letterale, i proprietari della telecamera più veloce dell’Europa Settentrionale. Ce lo raccontano brevemente nella descrizione al video, per il quale erano stati “sfidati” dalla succitata compagnia nel trovare un metodo per mostrare l’aereo in questione al mondo, mentre volava alla velocità di 300 nodi, in quota relativamente bassa e con -20 gradi di temperatura al suolo. Un’impresa niente affatto semplice, sopratutto quando si considera come i migliori sistemi di stabilizzazione per impiego aereo sul mercato, allo stato attuale delle cose, siano certificati al massimo per l’uso a bordo di elicotteri. Il che significa sostanzialmente, una velocità massima di 125 nodi. Decisamente troppo pochi per servire allo scopo. Ma niente che un’attenta opera ingegneristica, guidata da alcuni dei leader del settore, non possa superare con successo pieno e significativo. Così è stato creato il sistema GSS 520 a cinque assi, un’apparecchiatura in grado allo stesso tempo di trovare posto nella gondola per gli armamenti dell’aereo da addestramento Saab 105, e mantenere stabile una costosissima telecamera Red Dragon da 6K di risoluzione. Mentre un modem senza fili si occupava di comandarne l’inquadratura. Il risultato, beh… Grazie all’opera di Degerfeldt stesso, che si trovava nel seggiolino del secondo con il radiocomando ben stretto fra le mani, mentre il suo pilota si occupava di mantenersi in formazione livellata con il mostro dei cieli, ogni singola inquadratura risultante si è dimostrata abbastanza precisa e stabile da essere il prodotto di un perfetto videogame. Ed il tutto, al servizio di un progetto estremamente significativo: la realizzazione del portale web per l’imminente presentazione al pubblico della nuova versione dell’aereo protagonista del video, l’atteso Gripen NG. Un aereo che potrebbe cambiare le carte in tavola, per molti dei paesi con un’aviazione degna di questo nome. Stati Uniti esclusi, ovviamente.

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Il cannone che avrebbe distrutto il mondo

Nuclear Artillery

Alle 5:45 del 23 maggio 1944, la zona rurale oltre la spiaggia di Anzio rimbombò del concerto apocalittico di 1.500 bocche da fuoco, che contemporaneamente iniziavano lo sbarramento contro le postazioni tedesche dei comandanti Kesselring e Mackensen. Erano passati ben cinque mesi da quando si era deciso per l’attacco anfibio, dopo innumerevoli tentativi fallimentari da parte degli Alleati di sfondare sull’imprendibile Linea Gotica degli Appenini. Con forze inglesi, americane e canadesi, che avendo sbarcato da 374 navi, approdavano nel tratto di mare tra Nettuno e Torre Astura, rinominato per l’occasione Peter Beach ed X-Ray Beach. Il loro obiettivo: catturare in breve tempo l’obiettivo strategico della città di Roma. Giungeva così al suo culmine l’operazione Shingle, concepita da Winston Churchill mentre si trovava degente a Marrakech per i sintomi residui di una polmonite. Fu un momento di svolta nella guerra, ma anche la prova generale di un qualcosa di ancor più grande. Già l’alto comando statunitense infatti, su più livelli della sua area strategica ed amministrativa, era intento a definire le basi di quello che sarebbe diventato di lì a poco il fatale, tragico D-Day. Ma i metodi di una volta, erano spariti da tempo. Già s’intuiva nell’aria quel punto chiave, all’epoca tutt’altro che prevedibile, per cui la complessiva potenza di fuoco di una nazione, ivi incluse le divisioni di fanteria, i carri armati, i cannoni e l’aviazione, poteva giungere a scaricare una tale quantità di munizioni sul nemico da renderne l’avanzata sostanzialmente impossibile. Ed in quel caso, a più riprese, così fu. Nella prima giornata di quel drammatico scontro, la Prima Divisione Corazzata dei “Vecchi Ironsides” giunse a perdere 955 uomini, il numero più alto di vittime subite nel corso di un tempo tanto breve nell’intera storia del secondo conflitto mondiale. Mentre i tedeschi combattevano strenuamente e, nonostante il numero minore di forze in campo (circa 140.000 soldati inclusi due battaglioni italiani, contro 150.000 uomini fortemente determinati) rispondevano al fuoco con enfasi ampiamente comprensibile. La loro forza, come già avvenuto in precedenti frangenti dello spietato conflitto, era la qualità di determinate soluzioni tecnologiche. Come scoprirono ben presto gli aspiranti liberatori della penisola, che furono a più riprese colpiti fin nelle più remote retrovie, da un tipo di cannone sostanzialmente ignoto ai loro comandanti: si trattava di un mostro da 218 tonnellate, con una canna lunga 21 metri, che poteva sparare fino a 64 Km di distanza. Il Krupp K5, un’arma talmente grande che poteva essere spostata soltanto mediante le ferrovie, e che prima di sparare richiedeva l’edificazione di una speciale piattaforma girevole, definita Vögele. Una volta portata in posizione, tuttavia, diventava sostanzialmente inavvicinabile. Simili strumenti bellici, purché mantenuti nascosti alle incursioni aeree, potevano scaricare un volume di fuoco sul nemico niente meno che terrificante: fino a 15 colpi l’ora. Si calcola che nel 1944, sui fronti in cui furono schierati anche soltanto un paio di simili implementi, la quantità delle vittime fatte dell’artiglieria in determinate divisioni si aggirasse attorno all’83% del totale. Le truppe alleate li avevano soprannominati Whistling Willie, per il rumore che facevano i loro proiettili da 255 Kg mentre piombavano con la furia di una grandine infernale. E ad Anzio, guarda caso, ce n’erano due, che dopo ogni operazione di lancio si ritiravano nei tunnel ferroviari circostanti alle zone della battaglia, risultando sostanzialmente invisibili al fuoco di risposta. I nomi erano Robert e Leopold, nel paese di costruzione, ma passarono alla storia con l’appellativo datogli dal loro nemico, ovvero rispettivamente, Anzio Annie ed Anzio Express. Questo perché ad oggi, le due armi in questione si trovano a Fort Lee negli Stati Uniti, all’interno del museo dell’esercito della Virginia, dove furono portati in tutta fretta al termine delle operazioni belliche in Italia. La ragione, riuscite ad immaginarla? Costruirne una versione che fosse ancor più pericolosa. Il primo vero cannone nucleare.
La battaglia di Anzio non fu il successo strategico che si era sperato. Dopo i molti mesi di combattimento, tutto quello che gli alleati riuscirono ad ottenere fu una situazione di stallo, mentre i combattimenti sulla Linea Gotica continuavano indisturbati e con gravi perdite da parte di entrambi gli schieramenti. La liberazione delle cartine d’Europa dalla ragnatela delle fortificazioni tedesche avrebbe dovuto attendere ancora qualche tempo. Tuttavia, nel frattempo, attraverso l’intero anno successivo, l’inasprimento del conflitto nel Pacifico avrebbe portato al progressivo disfacimento della macchina bellica giapponese, fino allo spietato cataclisma finale. Due intere città, cancellate dalla faccia della Terra, in nome del bisogno di dimostrare…Qualcosa. E i vecchi “nemici dei nostri nemici” che all’improvviso venivano riqualificati come un rischio per la sicurezza della collettività. Un pericolo, per usare la terminologia dell’epoca, che non poteva che definirsi profondamente rosso.

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Varato in Oregon il drone più imponente della storia

Drone Ship

Lo splendido ponte del Tilikum Crossing, costruito giusto l’anno scorso sul fiume Williamette a Portland, principale città portuale del Pacific Northwest, appare stranamente deserto, mentre dinnanzi alla sua slanciata struttura si dipana uno spettacolo del tutto senza precedenti. Nello spazio ridotto di queste acque, tutto sommato non così inquinate, sfreccia infatti un misterioso trimarano lungo 40 metri, sottile e acuminato come un freccia che sia stata costruita in puro acciaio. L’imbarcazione sembra intenta ad effettuare delle manovre dall’alto grado di spettacolarità, affini a quelle portate avanti nella tipica esercitazione di marina militare. Sul suo minuscolo ponte di comando, campeggiano le figure in tuta rossa di due addetti alla supervisione, che tutto sembrano intenti a fare, tranne gestire le cose da quello che potrebbe definirsi un timone. Appare in effetti chiaro che se costoro non dovessero esser lì, le possenti eliche non avrebbero ragione di fermarsi. Girerebbero, anzi, addirittura più velocemente.
140 tonnellate ma non può volare. E perché mai dovrebbe? Drone è un termine che ha attraversato diversi slittamenti semantici nella lingua inglese, come per analogia, in tutte quelle che lo hanno preso in prestito negli ultimi anni. Riferito originariamente al maschio dell’ape, il cui ronzio, così affermavano, ricordava in qualche maniera quello dei primi aeromobili a controllo remoto, si è ritrovato associato originariamente al solo ambito militare. Verso la metà degli anni 2000, nel momento in cui la parola ha iniziato a comparire sui titoli dei giornali, costituiva sostanzialmente un sinonimo del velivolo americano MQ-1 Predator B, il primo aereo privo di un pilota ma dotato di armi a bordo. Quelle due sillabe, dunque, suggerivano un’idea d’inumana crudeltà e precisione, bombardamenti chirurgici portati avanti da un centro di comando a terra, mentre gli operatori, protagonisti di un videogame dalle tremende implicazioni, diventavano progressivamente sempre più insensibili alle sofferenze dei loro bersagli designati. Tranne quelli tra di loro, protagonisti di diversi articoli allarmisti, che cadevano preda di un nuovo tipo di PTSD (Stress Post Traumatico) tale da condizionare ogni momento della loro vita, dal primo giorno di ritorno nel mondo civile. Negli ultimi tempi invece, con la proliferazione degli elicotteri radiocomandati a tre, quattro o sei rotori, la parola ha finito per ritrovarsi attribuita sopratutto a simili dispositivi, usati nella videosorveglianza o per divertimento, acquisendo un suono per la prima volta relativamente rassicurante. Ma c’è una terza accezione di questo termine, che viene spesso tralasciata: nella letteratura fantascientifica classica, vedi ad esempio gli scritti di Doc EE Smith con la sua serie Lensmen (1948-54, riconosciuta anticipazione di quelli che sarebbero diventati Star Wars e Trek) si parlava occasionalmente di astronavi o aeromobili automatizzati. La loro caratteristica principale era di essere, come per l’appunto insetti di un alveare, perfettamente sacrificabili a un qualsiasi scopo. Il loro non avere un equipaggio a bordo, inoltre, implicava un certo grado di autonomia. Questo terzo tipo di drone, in effetti, non sarebbe stato in alcun modo telecomandato. Ma piuttosto affine, in tutto tranne che l’aspetto antropomorfo, al concetto prototipico di un vero e proprio robot.
Veramente assurdo… Si potrebbe essere tentati di esclamare! Immaginate il rischio rappresentato da un mezzo bellico come il Predator, in grado di scaricare l’inferno su un convoglio in movimento, improvvisamente reso in grado di scegliere i suoi bersagli in totale autonomia! L’ipotesi di un momentaneo malfunzionamento delle sue sinapsi appare niente meno che terrificante. Un drone completamente autonomo dovrebbe essere, dunque, privo di capacità di aggressione. Eppure utile, per definizione, a un qualche tipo di scopo militare. Come quello, sempre più importante, di scovare i sommergibili lungo le coste dei paesi d’Occidente. Ed è proprio questo che dovrebbe fare, secondo il progetto alla base della sua messa in opera, la nuova creazione della compagnia per la difesa Leidos (una filiale della SAIC) prodotta grazie al patrocinio ed i finanziamenti della solita DARPA, la celebre agenzia statunitense dedita all’applicazione delle nuove tecnologie nel campo della guerra contemporanea. Immaginate: una nave in grado di restare per tre mesi in mare, senza cibo, senza acqua, senza nessun tipo di rifornimenti. Praticamente, come il veliero fantasma dell’Olandese Volante, nefasto presagio delle leggende di marina nordeuropee. Molto rassicurante, nevvero?

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