Le incessanti dispute di successione al trono delle formiche più grandi al mondo

È una fortuna, tutto considerato, che nel progressivo evolversi delle creature animali la natura abbia perseguito forme e proporzioni contenute, riducendo al volgere di ciascuna epoca l’effettiva imponenza delle diversificate tipologie animali. Basta un breve sguardo ad un catalogo delle creature note come Dinosauri, d’altra parte, per indurre nei moderni un senso di disagio e latente inquietudine, al pensiero di un ipotetico uomo primitivo, mai davvero esistito, trasformato in rapido spuntino da tirannosauri, spinosauri, giganotosauri… Eppure il fatto non così frequentemente discusso, nell’insieme dei fattori rilevanti, è che non tutte le specie siano necessariamente diventate piccole al trascorrere dei molti millenni. Vedi per esempio la balenottera azzurra, singolo essere vivente più imponente mai vissuto sulla Terra, oppure il caso all’altro estremo dello spettro del costruttore di colonie eusociali per definizione: la formica. La cui maggiore varietà documentata della Titanomyrma gigantea, grazie al ritrovamento di alcuni fossili nello stato americano del Wyoming, ha dimostrato una grandezza media di 3 cm, aumentati a 5 nel caso delle sue regine. Una misura che potrebbe, d’altra, parte risultare facilmente eguagliata o superata dalle attualmente esistenti Dinoponera delle foreste brasiliane, se soltanto avessero l’inclinazione ad adottare il tipico sistema eusociale della monarchia. Piuttosto che aver costruito, nel corso dei pregressi millenni, una sorta di autocrazia delle più forti, tra lavoratrici distribuite in una gerarchia ben precisa, continuamente sottoposta a revisioni sulla base di feroci scontri tra pretendenti. Il che non può mancare di sottintendere una lunghezza media attorno ai 4 cm, ulteriormente qualificata come terrificante dal possesso di grandi e affilate mandibole, capaci di fare a pezzi la stragrande maggioranza degli insetti. Da cui il soprannome di falsa tocandira (tagliafoglie) per distinguerla dalla tragicamente nota formica proiettile o Paraponera clavata, la cugina tassonomica soprannominata “delle 24 ore” a causa dell’intenso e persistente dolore causato dal suo veleno, incidentalmente ricercato in alcuni terrificanti rituali di passaggio delle popolazioni indigene locali. Laddove la più grande ed impressionante di costoro, detta per l’appunto D. gigantea, è stata dimostrata poter raggiungere agevolmente le 48 ore nell’estendersi della fase acuta della sua puntura, con conseguenze per gli umani come capogiri, difficoltà nei movimenti, sangue nelle feci. Il che non arriva neppure a una frazione della significativa crudeltà mostrata da questi notevoli imenotteri, nei confronti delle appartenenti alla loro stessa specie. Per volere e mano della stessa formica alpha o gamergate (termine proveniente dal greco γάμος + ἐργάτης – lavoratrice sposata) ogni qual volta un’appartenente alla sua stessa comunità dovesse tentare di accoppiarsi con uno dei maschi del suo harem totalmente esclusivo. Occasione a seguito della quale inizierà uno scontro, culminante con il capovolgimento della pretendente sopra cui ella provvederà a imprimere un particolare feromone punitivo, segnale per le consorelle d’iniziare il lungo e laborioso processo di tortura. Giorni, se non settimane, trascorse a morderla, spingerla e tenerla ai margini della colonia, quasi a dimostrazione o sempiterna memoria di cosa comporti tentare di sfidare la dominatrice suprema, in aggiunta alla formale degradazione allo stato di lavoratrice di basso rango. Il che non pare in alcun modo prescindere, d’altra parte, la costante esistenza di almeno una mezza dozzina di sfidanti, definite come ideali ed impietose principesse, sempre pronte a mettere alla prova l’effettiva superiorità della signora. Che un giorno, prima o poi, diventerà troppo anziana per resistergli in qualsiasi efficace maniera…

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La grande fuga e l’inquietante patrimonio genetico dell’orso andino

Ricorrente riesce ad essere il carattere presunto, ovvero in altri termini l’impronta stereotipica, del personaggio che per necessità o affettazione narrativa viene caratterizzato dall’impiego di occhiali. Implemento utile a correggere una vasta varietà di disfunzioni visuali, e al tempo stesso inerentemente associato a un certo tipo di comportamento, un pregresso bagaglio di conoscenze acquisite. Quasi come se il fatto stesso di aver deciso di massimizzare le proprie percezioni inerenti, in modo tale da poter comprendere e capire meglio il mondo, possa costituire l’intento riconoscibile che viene dalla propensione all’apprendimento, come approccio alternativo all’apprezzamento universale dell’esistenza. Ecco dunque comparire, nel variegato novero delle creature adatte a fare parte di miti e leggende, la figura zoologia di Ben l’orso, recente aggiunta della menagerie biologica comunemente nota come Zoo di Saint Louis. Appartenente ursino alla specie sudamericana Tremarctos ornatus, considerata altamente riconoscibile per tre caratteristiche: il peso abbastanza ridotto, di fino a un massimo di 110 Kg; i grandi artigli utili ad arrampicarsi nelle umide foreste ai piedi dell’ambiente andino; la maschera bianca che circonda gli occhi, continuando sul muso e il petto della maggior parte degli esemplari. Caratteristica quest’ultima giudicata come sufficiente a definirlo, in base al dizionario dei nomi comuni degli animali, come orso “dagli occhiali” in una sorta di contraddizioni in termini, visto come la sua categoria di appartenenza sia notoriamente incline ad orientarsi tramite l’impiego sensoriale del suo naso, percettivo in proporzione paragonabile a quello dei nostri cari amici cani. Ma stranamente appropriata, in base a quanto sopra accennato, al caso specifico del sopracitato protagonista, di una storia sorprendente eppure in qualche modo evitabile, benché fortunatamente priva di conseguenze. Quella culminante lo scorso giovedì con la seconda uscita non sanzionata di quest’ospite dal proprio recinto, causando un comprensibile allarme nell’amministrazione del parco e la rapida chiusura di ogni uscita, coadiuvata dal ricollocamento temporanei dei visitatori all’interno di gabbie ed altre zone riparate, onde minimizzare il rischio pur sempre presente d’incidenti dovuti alla sfortuna del momento. Laddove Ben voleva, come già dimostrato lo scorso 7 febbraio durante un episodio simile che aveva colto totalmente di sorpresa i suoi guardiani, semplicemente guardarsi un po’ in giro ed esplorare i limiti del proprio ambiente d’adozione. Un luogo certamente confortevole, come tende generalmente ad essere la vita in cattività, ma al tempo stesso privo di quell’ampio respiro situazionale che costituisce il primordiale anelito di ogni essere appartenente alla natura. E che in qualche misura doveva pur essere stato trascurato, da coloro che dopo il primo imprevisto si erano limitati a implementare la singola contromisura di moschettoni per i cavi del recinto garantiti fino ai 205 Kg di resistenza, che questa volta l’orso non sarebbe in alcun modo potuto riuscire a sconquassare. Se non che gli orsi non sarebbero semplicemente niente, se non geneticamente determinati e come in ogni fiaba che si rispetti, anche all’abito (o perché no, l’accessorio con lenti) tendeva necessariamente il monaco. Per cui come un novello Harry Houdini o Potter, l’irsuto personaggio si è industriato giorno dopo giorno per trovare il punto adatto ad applicare una leva sufficiente. Fino a mettere in atto il suo subdolo e preciso piano, culminante con l’uscita dai confini degli spazi entro cui doveva essere idealmente contenuto…

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L’elegante anatra “di mare” che indossa i colori di Crudelia De Mon

Avvicinandosi all’ideale stagno di alcuni degli uccelli acquatici più belli al mondo, il nostro sguardo potrà essere immediatamente catturato da quella vera e propria stella tra i mangiatori di pesci ed alghe, la vivace anatra mandarina, gialla, verde, bianca ed arancione. Per poi spostarsi verso gli eider reali, con i loro becchi gibbosi di colore giallo intenso e l’orgogliosa anatra dalla coda lunga, col magnifico ornamento sollevato che raggiunge la metà della lunghezza del proprio intero corpo. Un distintivo senso della moda, si potrebbe scegliere di commentare il suo aspetto. Ma è con un profondo senso di stupore che soltanto successivamente, tra i recessi periferici sul ramo periferico di quell’acqua limpida e scintillante (capace di specchiare, in tale modo, le conflittuali aspirazioni che conducono ed instradano lo stile nell’abbigliamento degli umani) che ci capiterà di scorgere l’aspetto sopraffino di un diverso tipo di armonia cromatica e situazionale. Quella posseduta da un’anatra RARA che si trova unicamente nei recessi più remoti di un’intero continente popolato dalle genti e le culture di una buona metà del mondo. Dovremo essere nella Russia dell’Estremo Oriente, dunque, in Manciuria o almeno in parte nella Cina dell’estremo settentrione, per riuscire ad incontrare questo insolito tipo di smergo, ovvero ragionevolmente atipico rappresentante di quel genere volatile il cui nome scientifico trae l’ispirazione totalmente arbitraria da un ignoto tipo di pennuto pescatore citato ai tempi dell’antica Roma da Plinio il Vecchio ed altri suoi contemporanei filosofi del mondo naturale. Sebbene sia importante notare come questa specifica accezione di un luogo remoto presenti alcuni tratti di affinità, ed altri di significativa distinzione. Mergus squamatus o “smergo dai fianchi scagliosi” che si può indentificare, in via preliminare, dal possesso di una testa nera dalla cresta scarmigliata e il petto bianco, ma le piume ai lati connotate da un succedersi alternato di figure bianche e nere, così stranamente allusive di un’ipotetica pelliccia ricavata da 101 dalmata recentemente entrati a far parte della propria amorevole famiglia canina. Prima di essere rapiti, intrappolati e “processati” dalla più crudele e orribilmente facoltosa fabbricante di vestiario niente affatto sostenibile nella lunga e articolata storia dei cartoni animati disneyani. Un aspetto certamente frutto di semplici coincidenze, negli alterni viali dell’evoluzione, giacché la funzione di una simile livrea appare finalizzata al riconoscimento degli esemplari maschi da parte delle loro potenziali consorti, che d’altronde non presentano un contrasto altrettanto pronunciato, con la sostituzione di un grigio chiaro nelle scaglie ed una testa di color semplicemente marrone. Ma lo stesso becco appuntito e seghettato di una tonalità rosso intensa, usato sapientemente nelle ore di caccia di queste vere e proprie cercatrici onnivore dei laghi, torrenti e fiumi dell’entroterra, nonostante la loro formale appartenenza ad un gruppo definito convenzionalmente come anatre dell’acqua salmastra o marina. Un vero e proprio scherzo della classificazione tassonomica, quando si considera come tra tutti gli smerghi, soltanto quello piuttosto comune dal petto rosso (M. serrator) vanta l’abitudine di vivere nell’acqua salmastra, potenzialmente abbandonata dai suoi cugini già nell’epoca dei primi fossili riconducibili alla line evolutiva di questi uccelli, databili attorno ai 14 milioni di anni fa. Una lunga camminata, da compiere mediante l’utilizzo di grossi e rumorosi piedi palmati…

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L’impropria predisposizione di chi pensa di nutrire un coati soltanto

In un giorno d’incertezza collettiva fu Carlota, portavoce della fazione Stabilimento, a prendere improvvisamente la parola, brandendo il lungo naso da una parte all’altra come fosse l’asta di una bandiera: “Una scatola, vi dico. Lei teneva in mano quell’involucro di plastica trasparente. Dentro ci saranno state almeno due dozzine di chicchi d’uva. E poi la donna ha aperto il coperchio, cominciando a distribuirne il contenuto. Dapprima in quantità limitata, poi, aumentando la pressione psicologica del branco, con un ritmo sostenuto e pienamente adeguato alle circostanze.” Un mormorio diffuso percorse il partito della Fattoria, poco prima che Calixta, la lunga coda eretta con la forma vagamente suggestiva di un punto di domanda, raggiungesse il palcoscenico dell’orazione, un tronco cavo adagiato ai margini del sottobosco: “Presentarsi tutti assieme dagli umani, intendi? Abbiamo già votato: non sarebbe saggio. Ogni volta che c’introduciamo oltre il recinto, per andare a prendere una gallina o due, dobbiamo stare attenti a non produrre il minimo rumore, pena il palesarsi dell’ostile contadino armato di forcone. Non va bene, non va bene affatto…” Mentre la sua voce sfumava in un verso querulo di approvazione, emesso dal popolo della foresta come fosse un singolo animale, Carlota chiamò silenziosamente sul palco il suo assistente, un giovane procionide di nome Cecilia. Che puntando il naso all’indirizzo del gremito pubblico, sollevò una tavoletta parzialmente avvolta nella carta stagnola e stretta tra le dita prensili della sua zampa anteriore sinistra: “Questa, amici miei, è cioccolata. Il nettare creato dai padroni del pianeta, pronto da mangiare per chi osa solamente chiederlo, nel punto giusto, nel momento appropriato.” E per dare enfasi al sua dichiarazione, spezzò il cibo divino in tre parti, offrendolo con gesto magniloquente a Carlota e Calixta. Ora la semplice sollecitazione visuale, assai probabilmente, non sarebbe bastata a convincere la maggioranza dei presenti! Ma poiché l’aroma della sostanza proibita era perfettamente percepibile alle svariate dozzine dei lunghi nasi puntati all’indirizzo di quel punto focale, l’opinione delle moltitudini fu velocemente sviata nella direzione giudicata momentaneamente opportuna. “Basta chiedere, hai detto?” Chiese sottovoce, a nessuno in particolare, il capo del partito della Fattoria. “E allora… Chiederemo.”
Chi non li ha incontrati di persona è pronto a definirli “carini”, “graziosi” ed “amichevoli” al punto da desiderarne uno da tenere tra le mura domestiche, accarezzandolo ogni qual volta se ne presentasse l’opportunità. Ma il coati o coatimundi, nella variabile accezione delle sue quattro specie riconosciute allo stato attuale, è guardato con sospetto dai coabitanti del suo intero areale d’appartenenza, capace di estendersi tra la parte settentrionale del Sudamerica, l’intera America centrale e buona parte del Messico fin quasi ai confini statunitensi. Come il tipo di creatura selvatica ingombrante non tanto in funzione delle sue dimensioni, bensì l’insistenza giudicata chiaramente inopportuna nel cercare sempre il massimo vantaggio nutrizionale con il minimo dispendio d’energie, invadendo entusiasticamente territori privati, giardini, persino abitazioni le cui porte principali o finestre sono state incautamente lasciate aperte. Per non parlare dei fondamentali secchi dei rifiuti, tanto apprezzati da essergli valso il soprannome online di elongated trash panda in riferimento alla caratteristica fisica più evidente, per distinguersi dal più comunemente conosciuto “panda della spazzatura”, il classico procione nordamericano. Altro membro della stessa famiglia di piccoli mammiferi, assieme al bassarisco, l’olingo ed il potoo/kinkajou, noti per la versatilità, intelligenza e capacità di adattamento. Nonché uno stato di fame pressoché costante, mai placata con la metodologia reciproca del loro distante cugino domestico, il canide o migliore amico dell’uomo…

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