La tecnica segreta dell’airone ad ombrello

Black Heron

150 cose tondeggianti nere, più alte nella parte centrale, che appaiono vagare nella torbida corrente, al tramonto. Ma non tutte nella stessa direzione! Ciascuna digradante ai lati, con un ciuffo dorsale che si arruffa in modo stranamente ritmico e sincronizzato. Potrebbero sembrare parasoli con le piume, che qualcuno di assai distratto ha aperto, quindi fatto rotolare giù in terra, finché la sabbia ed il pietrisco non hanno lasciato il posto all’acqua verde di materia vegetale, che lentamente li ha riuniti in un feccioso gorgo. Se non fosse che, in effetti, questo delta dell’Okavango non costituisce un luogo tanto frequentato dai turisti, con le sue moltitudini di coccodrilli, leoni, iene, ghepardi, sciacalli, leopardi… Al punto che, persino i mammiferi più grandi e forti al mondo, quali l’elefante, il bufalo e il rinoceronte, qui preferiscono restare in gruppo, per meglio proteggere i propri piccoli dalla pressante fame della collettività. Il Botswana più selvaggio, del resto, è così: cane mangia cane, e poi, arriva qualcosa di più forte e mangia pure il cane. Mentre altri organismi, più furbi, scelgono la vita via dagli occhi del nemico potenziale. Laggiù sul fondo del maestoso fiume, nutrendosi di scarti e d’alghe semi-consumate. Molti sono i piaceri a cui rinunciano, i ciprinidi e gli altri piccoli pesci d’acqua dolce, per salvarsi nell’ambiente segregato che li rende più difficili da catturare. Il grande Sole che s’infrange sull’increspatura, l’erba verde, il vento che precorre i ripidi sentieri. Eppure, anche così, essi non sono invulnerabili. Come riesce chiaramente a dimostrare l’Egretta ardesiaca, più comunemente definito airone nero.
La scena di uno di questi uccelli impegnato nella pesca è un’espressione di soave grazia ed eleganza. Non per niente, intere scuole di pittura dell’Oriente lo hanno fatto il proprio soggetto d’elezione, senza mai mancare di raffigurarlo al centro delle proprie scene di bucolico splendore. Esso avanza, lentamente, con le gambe che si flettono appena. Poi estende il lungo collo con la forma ad S, e piega la sua testa da una parte, per meglio scrutare i movimenti sotto i flutti del suo ambiente naturale. Finché, convinto della sua triangolazione, non colpisce dritto con la punta del suo becco, trafiggendo il pasto inconsapevole che transitava di lì. Un pesce, tuttavia, non è un bersaglio facile, soprattutto per la sua cautela innata. La quale lo porta ad uscire dai luoghi sicuri unicamente quando la luce del giorno cade di traverso sul suo lago d’appartenenza, e comunque sempre spostandosi rapidamente da un luogo riparato all’altro. Il che scoraggerebbe molti, ma non il fotogenico protagonista della qui presente situazione predatoria. Che attraverso le generazioni, grazie alla sapienza endemica che ha ereditato il giorno della nascita, conosce un metodo per conquistare i piccoli e innocenti snacks pinnuti. Impiegando, per usare un termine forse facilmente frainteso, una sua versione del proverbiale gesto dell’ombrello. Non fatto con le braccia, s’intende (gli uccelli hanno le ali) bensì tramite un’applicazione assai più letterale del concetto, ovvero aprendosi come una cupola, le remiganti quasi a contatto con l’acqua, e nascondendo sotto la testa, per mettere i piedi l’uno dietro l’altro e procedere verso una certezza collaudata: che un ricco pescato potenziale, senza falla, si presenti innanzi ai loro gialli occhi indagatori.
Le ragioni possibili sono, essenzialmente, due: la prima è quella di farsi scudo dalla luce, per meglio trarre in fallo il piccolo fuggiasco di turno. Mentre la seconda, proposta dagli etologi soltanto in tempi più recenti, consisterebbe nello sfruttare l’istinto naturale di quest’ultimo a cercare la salvezza sotto foglie di ninfee, tronchi che galleggiano, all’ombra degli scogli o di altre protezioni naturali. Il che lo espone, sfortunatamente per lui, alla furbizia dell’airone ingannatore.

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Non far sentire all’ippopotamo il sapore dell’anguria

Momo suika tabemasu

Gentile, affabile, cortese. Amichevole, affettuoso, comprensivo. Pure troppo, se vogliamo: il guardiano dello zoo di Nagasaki, dopo tutto, ha un’immagine da mantenere. Quella di amicone di ogni creatura, grande o piccola, che paghi il suo salario con la propria inalieanabile presenza. Eppure c’è forse un pizzico di familiarità eccessiva, e se vogliamo anche troppa disinvoltura, nella maniera in cui il giovane lancia il peponide maggiore del mondo nell’equivalente più prossimo che Madre Natura ha mai prodotto della pressa idraulica da 120 tonnellate. Un personaggio dei cartoon, anzi degli anime, praticamente. Ma non di quelli che vorresti accarezzare da mattina o sera, come le mascotte parlanti al servizio dell’ennesima agenzia governativa/scuola di magia/lega internazionale di combattimento […] bensì piuttosto similare al tipico concetto di un dragone sopìto, tanto pacifico all’apparenza, quanto potenzialmente portatore di rovina. Un ippopotamo maschio, come dovrebbe essere, dal nome, il qui presente Momo, pesa in media 1400-1500 Kg, che possono muoversi ad “appena 8 Km/h nell’acqua, mentre sul terreno addirittura raggiungono, per brevi periodi, i preoccupanti 35! Molto più di un uomo! Sufficienti a prenderlo se necessario, l’animale senza peli costruttore di computer… Proprio così: quattro gambette tozze, apparentemente inefficienti così poste al di sotto di una massa tanto significativa, possiedono in realtà la forza necessaria a rendere l’animale, per predisposizione aggressivo e territoriale, il singolo abitante d’Africa naturalmente responsabile per il maggior numero di morti e feriti. E non è soltanto in questo, che il cosiddetto cavallo d’acqua (hippos=equìno, pòtamos=corso fluviale), penultimo rappresentante del suo genere (c’è anche l’ippopotamo pigmeo Hexaprotodon liberiensis) supera le aspettative di tutti coloro che non hanno familiarità con lui.
Pensateci: tutta la forza della megafauna dell’Africa selvaggia, unita ad un’intelligenza limitata ma sottile, che permette al singolo individuo di sopravvivere anche lontano dal suo branco, qualora ciò si renda necessario. Che poi vuole dire, anche un’estrema capacità di adattamento. La scena qui mostrata, in effetti, che si conforma in apparenza al tipico spettacolo messo in piedi dalle istituzioni che possiedono dei coccodrilli o alligatori, è in realtà un qualcosa di molto più prossimo all’esibizione di un domatore di leoni. E il buon vecchio, grigio co-protagonista potrebbe, in effetti, comportarsi in maniera inaspettata, finendo per ghermire il suo benefattore da un momento all’altro. Si ritiene oggi che i parenti più prossimi degli ippopotami, nell’attuale panorama delle forme di vita presenti sulla Terra, siano niente meno che i cetacei marini: a tal punto il loro genoma diverge da quello degli altri animali. Eppure, per lungo tempo si è ritenuto che queste creature fossero dei parenti degli artiodattili, sarebbe a dire, da un lato i bovini, per la struttura complessa degli stomaci concatenati (l’ippopotamo ha quattro scompartimenti) e dall’altro i suini, per un discorso più meramente collegato alla conformazione e le caratteristiche morfologiche del gran gigante anfibio. Che come l’universale fonte dei nostri prosciutti di ogni tipo, è tra l’altro anche dotato di una memoria perfettamente funzionante. E se dovesse prendere in antipatia il guardiano, hai voglia a dargli da mangiare! Costui sarebbe in pericolo, finché non cambi direzione di carriera. Il fatto è che abituare una creatura tendenzialmente selvatica a prendere il cibo dalle mani, ha molti lati positivi, ma conduce potenzialmente anche a una vasta sequela di problemi. Nel giorno in cui Momo dovesse svegliarsi con la luna storta, infatti, e i cocomeri fossero inaspettatamente indisponibili nella dispensa dello zoo di Nagasaki, cosa mai succederà? Sarà sufficiente farlo ritornare temporaneamente ad una dieta di esclusiva erba e fieno, come un suo simile delle distese sconfinate dove battono i venti del Ghibli e dell’Harmattan…Forse. Oppure forse, no! Ed allora…

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Il selvaggio rituale di pesca del popolo Dogon

Antogo ritual

Sono spesso le barriere, geografiche, artificiali o d’altro tipo, ciò che determina in massima parte la distinzione culturale tra i popoli, dando l’origine al concetto stesso di un’etnia che possa sopravvivere, ed evolversi, sulla base delle proprie usanze e tradizioni millenarie. E nessuno potrebbe mai negare, in un’analisi della gente del Mali, l’enorme divisione che caratterizza l’uomo e il territorio. Una fortezza naturale, un valico inavvicinabile, la solida parete contro cui appoggiare gli edifici dei villaggi e perché no, la propria schiena in cerca d’ombra: la massiccia falesia di Bandiagara, un dirupo lungo 200 Km che taglia letteralmente a metà, da sud verso nord-est, questi vasti territori dell’Africa Occidentale, occupati in massima parte dal grande deserto del Sahara. Ma dove persistono degli insediamenti umani, si sa, deve esserci dell’acqua. Anche se viene da lontano. Ed è tutt’altro che…Abbondante. Come un filo che discende, in pochi solchi naturalmente scavati nell’arenaria, dal grande fiume Niger in prossimità polle strategiche da usare per l’agricoltura e in rari casi, la pesca. Una pratica già messa in atto, con alta probabilità, dall’ancestrale gruppo etnico dei Tellem, affini alle popolazioni pigmee, che qui costruirono le proprie tombe in luoghi elevati dal terreno, per proteggerle dagli occasionali scrosci alluvionali, tutt’altro che ignoti, persino in questi luoghi tra i più secchi del pianeta. Ma furono gli eredi successivi di questa regione, migranti provenienti dall’Egitto di circa un migliaio di anni fa, che scacciati via i loro predecessori, che qui costruirono vaste comunità lontano da occhi indiscreti, rifiutando in massa la cultura di matrice araba proveniente dal Vicino Oriente.
E furono proprio loro, adottando uno stile di vita semplice ma ricco di complesse tradizioni ed antichi racconti, a trovare infine il metodo migliore di sfruttare una risorsa estremamente rara in questi luoghi, nonché preziosa, e tenuta in alta considerazione dai membri di ogni famiglia del popolo dei Dogon. Stiamo parlando, per intenderci, della gustosa carne dell’Oxydoras niger, una specie di pesce gatto locale, che agendo come spazzino sui fondali sabbiosi del fiume, viene ogni anno puntualmente trasportato a valle, nel corso delle piene che si sviluppano nella stagione umida, soltanto per andare incontro ad un improvvido destino. Perché succede allora, con l’avvicinarsi della primavera, che il complesso sistema di bacini idrici alla base della falesia di Bandiagara, puntualmente, inizi a prosciugarsi. Tale delicata situazione ecologica, in particolare, viene da sempre associata alla preziosa polla di quello che viene qui definito il lago Antobo, in prossimità del villaggio che ha il nome di Bamba. I cui anziani, da tempo immemore, sono incaricati di stabilire la data del rituale dello svuotamento, un giorno fatidico e fatale, generalmente fissato attorno alla metà di maggio, in cui tutti gli appartenenti al popolo Dogon, inclusi quelli onorari, vengono chiamati qui, rigorosamente armati con particolari ceste dalla funzione di nasse da pesca. Con la finalità di procurare le vivande per un glorioso banchetto annuale, il cui pari non esiste fra tutte le feste locali ed invero, dell’intera Africa Orientale. Questo sacro giorno, spesso fatto oggetto di studi e documentari da parte di divulgatori antropologici di molte nazionaltà, prende il nome di Antoku. E restain maniera particolare famoso, su Internet, il video realizzato dalla Tv inglese di stato BBC nel 2011, due anni dopo ripubblicato in versione più estesa in concomitanza con la messa in onda della nuova serie di documentari Human Planet, nel corso del quale si possono osservare le centinaia di persone, che giungono per l’occasione da tutte le comunità limitrofe fino ai confini più remoti del Mali, con mezzi furistrada a motore, con carretti, a dorso di cammelli o muli, per partecipare dell’esperienza di prendere i pesci dal lago. Tutti i pesci, fino all’ultimo, nessuno escluso.

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La stretta di mano segreta del ragno amblipige

Whipspider

Interessante. Cos’hai lì sul tuo tavolo? Um, otto occhi. Sei zampe poggiate a terra, più due che si agitano in aria. Il corpo tondo e relativamente piccolo, racchiuso in un vortice di arti ed antenne. Pedipalpi minacciosamente acuminati. È un aracnide? È un insetto? Chi può facilmente capirlo…Anche perché, se dovessimo fermarci soltanto alle apparenze, direi che sembra semplicemente l’araldo terribile della distruzione. Per parafrasare un tipo di risposta che viene generalmente data alla vista di simili creature, restano solo due possibilità: bombardarlo dall’orbita del pianeta, oppure cercare di farselo amico. Fortunatamente, c’è una sorta di gerarchia militare immaginifica, nell’insieme complessivo delle creature più piccole, diciamo, di un topo. Mirmidoni come formiche, agili fanti d’assalto. Mosche, farfalle o zanzare: l’aviazione, ovviamente. Scolopendre che avanzano serpeggiando, sinuosi carri armati di chitina. E si vede chiaramente la cavalleria verde, in cavallette, o katididi d’altro tipo. Ma soltanto i migliori predatori, su questa come ogni altra scala di dimensioni, possono rappresentare il massimo di ogni armata, unità tattiche sperimentali, mirate a conquistare le postazioni maggiormente blindate sui campi di guerre infinite. Come un robot con l’unica programmazione di kill’em’all, praticamente fuoriuscito da una sequenza “reale” della serie dei film Matrix, l’amblipige si agita e avanza rabbioso. Le due sottili zampe anteriori, modificate dall’evoluzione in affusolate fruste (da cui il nome comune, guarda caso, di whip spider) protese non tanto a tastare il terreno, quanto la resistenza potenziale offerta da quello che c’è davanti; un avversario estremamente pericoloso, forse il peggiore. Una colossale mano umana.
È un video creato da Adrian Kozakiewicz di Insecthaus, un negozio di artropodi (e presumibilmente, altri animali) tedesco, sito nel Baden-Württemberg, ben inserito su Internet e dotato di varie pagine social, ivi incluso il presente profilo di YouTube. Su cui è recentemente comparso, tra lo stupore e l’incertezza generale, questa scena di lui che sfida ed infastidisce, si spera bonariamente, una delle creature più mostruose immaginabili la quale, almeno all’apparenza, non sembra affatto intenzionata a starsene buona ad attendere il concludersi dell’avversa contingenza. Così si sviluppa questa scena decisamente insolita, del ragno che tenta, in qualche maniera, di scacciare l’aggressore, attraverso l’unico metodo che conosce: un tentativo reiterato di infilzarlo con una stoccata e portarlo vicino alla sua bocca, dove, l’istinto gli dice, i grandi pedipalpi di cui la natura lo ha dotato, non dissimili dalle chele di uno scorpione, saranno sufficienti a separarlo in parti più piccole, da digerire amabilmente. Una missione, per così dire, improponibile, anche nel caso in cui si verifichino le condizioni ideali. Ciò perché una caratteristica di questa classe di aracnidi, che include 150 specie largamente diffuse nelle aree tropicali di America, Africa ed Asia, è la sostanziale mancanza di predatori, e quindi metodi di difesa davvero efficaci. L’unica creatura che se ne nutre con una certa frequenza, stando alle informazioni più immediatamente reperibili, sarebbe il solenodonte di Cuba, un piccolo mammifero affine al toporagno. Ma anche lui, raramente, perché gli amplipigi vivono in luoghi estremamente difficili da raggiungere e grazie alla loro forma appiattita, s’insinuano spesso nelle fessure dei muri e sotto la corteccia. Che fortuna veramente, rara! Tutto quello che gli aracnidi devono fare, comunemente, per sopravvivere e prosperare, non è altro che catturare il pasto quotidiano, scegliendolo liberamente tra un ampio ventaglio di possibilità. In particolare le specie più grandi, come questo Euphrynichus amanica proveniente dalla Tasmania, risultano in grado di ghermire persino gli insetti in volo, con un colpo ben mirato delle apposite manine prensili, ricoperte di aculei da cui non è facile liberarsi. Per chi pesa, ovviamente, poco più di un grammo, oppure due o tre.

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