Le strane abitudini delle api che non pungono l’uomo

Ogni giorno, da mattina a sera, sempre e comunque insieme. Fino al giorno dell’estinzione. Api, le adorabili amiche-nemiche dell’uomo, il cui esercizio mandibolare permette l’esistenza delle piante e dei fiori. E in ultima analisi, noi stessi. Poiché alla base del sistema trofico stesso, inteso come complessa macchina biologica che trasforma la luce del sole in cibo, si trovano alcuni degli esseri più umili dell’intera catena. Che sono anche, per tacita definizione, i più essenziali. Ma sarebbe senz’altro un ingenuo colui che pensasse che il metodo a noi più familiare, con tutte le sue implicazioni, è l’unico possibile per fare le cose. La stessa teoria quantistica degli infiniti universi parla di luoghi simili, ma diversi, in cui ogni strada presenta una svolta alternativa, molte delle quali sono state, nel corso degli eoni pregressi, scelte come sentiero principale. Alcuni di questi luoghi, secondo il volere del caso, sono a qualche ora d’aereo di distanza. Si chiamano: Sudamerica, Australia, Africa, Madagascar. Per conoscerli davvero, basta armarsi di sufficiente pazienza, prestando un orecchio capace di percepire i distanti ronzii del tempo.
Nel profondo della foresta brasiliana, il membro della tribù primitiva si avvicina alle radici di un albero. Uguale agli altri, dal nostro punto di vista, ma non così per lui, che ha seguito con la massima attenzione la sagoma iridescente, di un insetto intento a fare ritorno nel proprio nido. Semi-sepolto, tranne la piccola torre d’ingresso, rastremata all’estremità, e alcune propaggini del labirinto, costituite in cera e propoli, la speciale mistura di resina d’albero e saliva d’api. Senza paura, quindi, il giovane infila il braccio tra le propaggini legnose, facendo sparire l’intera mano all’interno dell’alveare. In un attimo, la sua forma diviene indistinta, per il sollevarsi di una terribile nube. Sono la casta guerriera della città segreta, un gruppo velenifero e in armi, pronto a sacrificare la propria stessa esistenza per annientare il gigantesco nemico. Passano i secondi, che ben presto diventano minuti. L’indio, ormai ricoperto d’api semi-appiccicate alla pelle nuda per il polline sulle zampe, non sembra avere alcuna fretta nel continuare a rimuovere pezzi d’arnia, grondanti il dolce fluido splendente per cui si era messo a scavare. A giudicare dalla sua espressione calma e determinata, non sta provando alcun tipo di dolore. Nessuno l’ha punto. Ancora? Il sistema dell’evoluzione convergente è il principio per cui animali senza alcun grado di parentela, dovendo affrontare problemi simili, finiscono per assomigliarsi in qualche maniera. Vedi l’esempio del colibrì e la falena falco, che fluttua in aria sopra i fiori con la sua proboscide, mentre succhia il suo nettare beneamato. Meno noto è il caso di mutazioni attraverso i secoli mirate a cambiare, ciò che era simile, creando degli esseri sostanzialmente diversi. La natura, tendenzialmente, agisce con il massimo grado d’economia. E farebbe di tutto per eliminare un tratto biologicamente costoso, ogni qualvolta se ne riconferma la prolungata inutilità. Il potente veleno dunque, ed il forte pungiglione dell’Apis mellifera, grande impollinatrice dei territori europei, serve a difendersi da un certo tipo di predatore. L’opossum, il lupo, il procione e la loro versione sovradimensionata, l’orso. Mammiferi troppo grandi e forti, perché persino un milione d’api possa ricoprirli per togliergli l’aria, e causarne la morte tramite surriscaldamento. Senz’altro meglio, a quel punto, pungerli al fine di metterli in fuga. Ma cosa succede, invece, nei luoghi in cui gli unici nemici di cui preoccuparsi sono altri insetti?
La tribù dei Meliponini, di cui fa parte la specie cacciata dal nostro amico sudamericano, è composta da un tipo d’api diverso: molto più piccole, con una dimensione massima di 4, 5 millimetri. E che pur possedendo un veleno, preferiscono somministrarlo mediante l’impiego dell’apparato boccale. Attraverso dei morsi che, per quanto poderosi, soltanto a volte riescono a penetrare la pelle umana. Il che le rende, quasi sempre, marcatamente innocue. Eppure, tutt’altro che inutili…

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Il gusto atroce dello squalo marcio islandese

Tapparsi il naso, spalancare le labbra e i denti e ingoiare, bere birra o liquori, ingoiare ancora. Oh, che sensazione! Quando sei al tavolo di Þorrablót, la festa vichinga di metà inverno, durante cui è l’usanza celebrare il dio Thor mediante poesie e canzoni, e lo chef di giornata ti porta il vassoio con la Þorramatur, una selezione di cibo tradizionale messa assieme per stupire, emozionare, lasciare di stucco i partecipanti al convivio. Con vere immancabili prelibatezze, come i súrsaðir hrútspungar (testicoli di pecora) o il blóðmör (sanguinaccio di agnello) per non parlare dello hvalspik (grasso di balena fresco) o della sviđ (testa di ovino bollita). Ma forse il momento più atteso, con un misto di orrore, entusiasmo e un sentimento che proviene dal profondo, è quando si passa al gruppo di cubetti radunati in un angolo, con stuzzicadenti d’ordinanza al fine di sollevarli, uno per uno, e portarli fino alle labbra contorte molto spesso in una smorfia di abnegazione e forza di volontà. Questo perché nessuno, in possesso delle sue piene facoltà mentali, toccherebbe con le proprie dita la divina pietanza dello hákarl, comunemente detto a vantaggio degli stranieri “squalo marcio” o “squalo putrefatto”. Binomi, questi, che normalmente sottintendono al processo antico della fermentazione, attraverso cui le modifiche indotte da nobili microrganismi di vario tipo impreziosiscono il sapore di varie pietanze, generalmente di origine animale. Soltanto che, nel presente caso, soltanto qualcosa di simile è avvenuto; poiché al pesce cartilagineo in questione, letteralmente, è stato permesso di disgregarsi, andando incontro a una modificazione per lo più chimica relativa alla perdita di un ingrediente, piuttosto che l’acquisizione di qualcosa di nuovo. E quell’ingrediente, volendo usare un’approssimazione ragionevolmente corretta, è l’urina.
Già, perché tutti i condroitti, ivi incluse mante, razze e pesce sega, oltre all’assenza di un vero e proprio scheletro osseo, presentano un’altra fondamentale mancanza: di reni, vescica ed altre amenità similari, il che in altri termini sottintende che per l’intero corso della loro vita, al fine di mantenere l’equilibrio elettrolitico con l’acqua di mare, essi risultano saturi di acido urico e ossido trimetilamminico. Una grande fortuna, a conti fatti, per una specie che in questo modo è sempre sfuggita alle tavole degli umani, in funzione del suo gusto orribile e l’effetto persino velenoso, simile a un’ubriacatura in piccole quantità, persino letale nel caso in cui si tenti di esagerare (ma PERCHÈ mai lo si dovrebbe fare?) Ma forse sarebbe più giusto, nonché realistico, dire che lo squalo resta incommestibile soltanto se non si è sufficientemente determinati. E pazienti. Come gli abitanti più a settentrione e occidente d’Europa, in quell’isola che è un agglomerato di sabbia scura e vulcani attivi, presso cui approdarono, con navi sottili veloci, alcuni tra i più grandi esploratori dell’epoca medievale. C’è una leggenda a tal proposito, cronologicamente localizzata attorno al 1600, relativa ad un gruppo magistrato che aveva l’abitudine sconveniente di recarsi presso le abitazioni dei suoi sottoposti, per pretendere vitto e alloggio senza offrire alcunché in cambio, o alcuna possibilità di rifiutarsi. Così che un giorno andando un contadino/pescatore, che era in possesso dall’estate precedente di una carcassa di squalo per ragioni non esattamente chiare, con l’intenzione di giocare un tiro mancino all’ospite indesiderato la fece a fette e la servì a tavola (un piano che, a quanto pare, non teneva conto dell’orribile odore. Forse considerato normale a quei tempi…) per osservare, con suo sommo stupore, l’uomo che ripuliva il piatto in maniera niente meno che entusiasta. E udire quindi, a qualche settimana di distanza, la notizia secondo cui il magistrato era stato miracolosamente curato dallo scorbuto e la dissenteria. Chiaramente, doveva essersi trattato di un’intercessione degli Dei…

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Il gusto e il pelo senza pari della pecora-maiale

1843: difficile dimenticare quella volta in cui la macchina del tempo, scoppiettando e cigolando ancora più di quanto faccia normalmente, ha esaurito all’improvviso il carburante, andando ad impattare clamorosamente in mezzo ai colli ungheresi del Burgenland, un giorno destinati a fare parte del territorio dell’Austria ma a quel tempo facenti parte del territorio di Giuseppe Augusto d’Asburgo-Lorena. Lontano, per fortuna, da Dio e dal mondo, eppur non abbastanza perché un pastore di passaggio, sulla strada sottostante, rivolgesse per un attimo lo sguardo verso l’alto, incuriosito dal rumore totalmente inaspettato. Il che ci costrinse, come da prassi comportamentale del dipartimento, a scendere rapidamente a valle, cannone spara-memoria in spalla, nella speranza di riuscire a ritrovarlo in tempo prima che il suo racconto di seconda mano, spontaneamente trasferito agli abitanti del villaggio, andasse a sovrascrivere gli eventi generazionali. E la maniera in cui, una volta che arrivammo a un centinaio di metri di distanza, ohibò, il gregge iniziò a prendere una forma più evidente. Circa 3 dozzine di bestioni tondeggianti, il corpo tozzo e le zampe ungulate, la testa a punta e un gran paio d’orecchie a ricoprirne il profilo. Tanto che ricordo molto bene di averti detto: “Ma che strani… Ovini.” Fin quando una simile comitiva, disturbata dall’arrivo di noialtri, non emise in tono di baritono perfettamente coordinato, quello che poteva essere descritto unicamente come un tonante, interminabile grugnito. Fu allora che il pastore si volto di scatto, sollevando il suo bastone che era in realtà un archibugio per proteggersi dai lupi. E le cose iniziarono, d’un tratto, a farsi orribilmente complicate…
Fedele, scaltro, attento, intelligente addirittura più di un cane. In grado di scovare anacronistici visitatori. Il Mangalitsa, o Mangalica, o Mangalitza, è la razza di suino concepita per la prima volta in via specifica allo scopo di nutrire  la famiglia reale del Palatinato d’Ungheria, poi diffusosi a tutte le classi sociali, per le sue caratteristiche considerate di gran pregio, e infine (temporaneamente?) allontanato, dal corso dell’allevamento e degli eventi, relegato ad una semplice curiosità o talvolta, un gradevole ma impegnativo animale di compagnia. Il che, come è noto, per le razze suine equivale ad un decreto d’estinzione, poiché molto poche sono le persone disposte ad accudire, nutrendola, una bestia che a 13-14 mesi raggiunge il peso di 180 Kg. Problema di questo maiale, caratterizzato da un pelo ispido e riccio che ricorda vagamente quello della pecora, è il suo appartenere alla categoria oggi dimenticata degli animali cosiddetti “da lardo”. Quella sostanza che, prima della raffinazione degli oli vegetali, trovava una collocazione fondamentale quasi ovunque dentro le case: candele, sapone, cosmetici, o persino nei lubrificanti industriali e negli esplosivi… Per non parlare dell’uso, pressoché irrinunciabile, nell’attività essenziale della buona cucina. Prima che la cognizione moderna, assieme alla tendenza naturale degli esseri umani ad esagerare, non relegò il grasso animale ad una sorta di purgatorio gastronomico, consigliato solamente ai più spericolati e obesi degli individui, tra quelli non-vegetariani e non-vegani. Finché il moderno Rinascimento della cultura del cibo, unito a una rivalutazione scientifica dei dati acquisiti, non hanno permesso di comprendere che la parte più saporita del porco costituiva allo stesso tempo la più naturale delle sostanze contenute in esso, non necessariamente nociva per la salute delle nostre arterie, soprattutto se inserita in una dieta che avesse per lo meno un briciolo di senso. Finché adesso, fortunatamente, in tutto l’Est Europa e per importazione pregressa nei soliti Stati Uniti (patria di tutto ciò che è carne) una nuova ondata di allevamenti ha portato alla rinascita e la diffusione di questa razza, relegata fin quasi all’estinzione a seguito della seconda guerra mondiale. Ma siamo decisamente ben lontani dalla diffusione estrema della metà del XIX secolo, quando uno straniero giunto entro una certa quantità di chilometri da Vienna avrebbe anche potuto convincersi che i maiali a pelo corto fossero letteralmente sconosciuti, da quelle parti, o che le pecore avessero un aspetto (e un verso) dannatamente strani. La principale fortuna del Mangalitsa, invece, a quanto pare ha un’identità straordinariamente precisa ed un nome e cognome, Peter Toth…

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L’ultimo samurai del vero tonno giapponese

Alcuni dei più grandi personaggi nei rispettivi campi professionali sono caratterizzati da una lunga serie di aneddoti, ciascuno significativo nel definire le loro specifiche abilità e punti di forza. Persino in tale antologia di successi, tuttavia, ve ne sono alcuni che meritano una menzione particolare. Così è, probabilmente, per la metodologia implementata dal broker Yukitaka Yamaguchi e il suo intervento nella famosa disputa, avvenuta nel 2009, per uno dei più pregiati pesci che abbiano mai posato le loro defunte pinne sul suolo del grande mercato di Tsukiji. Un luogo che potreste conoscere, anche se non siete mai stati a Tokyo: dopo tutto, innumerevoli sono stati i segmenti televisivi, documentari e reportage internazionali dedicati a questo luogo unico al mondo, destinazione turistica irrinunciabile per chiunque ami sushi, sashimi o più in generale la rinomata cultura gastronomica giapponese. Specificando come, tuttavia, la scena in particolare non si sia svolta nel vecchio complesso di edifici in pieno centro cittadino dalla forma angolare, sito a ridosso del costoso quartiere commerciale di Ginza, bensì all’interno del bar di un hotel a Nihonbashi, alla vigilia di un’asta che ci si aspettava potesse superare abbondantemente i 10 milioni di yen (circa 80.000 euro). Immaginate, a questo punto, la scena: seduti al bancone ombroso, di fronte a tre bicchieri di birra due giganti della scena ristoratrice d’Asia: Imada Yosuke, 63 anni, proprietario del prestigioso ristorante Kyubei in pieno centro e Ricky Cheng, 41 anni, general manager della rinomata catena Itamae Sushi con sede a Hong Kong. I due perfettamente in silenzio, mentre aspettano la venuta di colui che li ha convocati lì. D’un tratto i presenti in sala tacciono, mentre dalla porta d’ingresso principale fa il suo ingresso il celebre Yukitaka. L’espressione atteggiata in un lieve sorriso, il passo sciolto di un consumato guerriero di 46 anni pronto a combattere la sua più importante battaglia, il semplice piumino nero e i calzoni da lavoro, come se fosse appena giunto sul luogo di lavoro. Senza proferire parola, egli raggiunge il posto vuoto tra i due convitati e con la massima calma, beve un sorso dal boccale centrale. La matita dietro l’orecchio sinistro, tra i più chiari simboli del suo mestiere, scintilla lievemente per l’effetto delle luci al neon. “Signori, benvenuti. Sarà una lunga serata. Che ne dite, dunque di venire al punto? Questo pesce, dovremo dividerlo a METÀ…”
Procacciatori d’ingredienti, veri chef mancati, esperti mercanti capaci di dominare le offerte con capitali e sponsor dalle risorse virtualmente illimitati. Eppure pronti, ogni qualvolta se ne presenti la necessità, a correre personalmente il rischio, acquistando a carissimo prezzo uno dei cosiddetti “20 tonni” realmente eccezionali, che giungono in queste auguste sale dopo una rapida trasferta da alcune delle più preziose riserve della nazione. I broker di Tsukiji sono questo e molto altro, eppure persino in questa categoria d’illuminati, Yukitaka è una figura tenuta in altissima stima. Poiché nessuno, come lui, avrebbe potuto tagliare lungo l’asse centrale l’equivalente alimentare di un diamante da 100 carati, avendo cura che entrambi i compratori potessero ricevere la stessa quantità di carne pregiata. Un’impresa che richiede, nei fatti, mano ferma e un occhio capace d’identificare immediatamente quali siano le parti adatte a produrre sushi e sashimi del più alto grado, con il coraggio di eliminare quelle imbevute di sangue, potenziali fonti di sapore o aroma fastidiosi. Per non parlare del giusto strumento: un “coltello”, se così vogliamo ancora chiamarlo, lungo all’incirca un metro e 30, non così dissimile dall’arma che samurai come Miyamoto Musashi erano soliti impiegare nel corso delle loro sanguinose battaglie. Il cui impiego, senza alcun dubbio, richiede una quantità assolutamente comparabile di abilità…

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