Ignota yooperlite: pietra in fiamme sulle rive di un lago distante

Nel fatidico momento, all’inizio dell’estate scorsa, in cui il barbuto Erik Rintamaki si recò verso le ore dell’alba presso la solita spiaggia del lago Michigan in cerca di opali, agate o altri preziosi tesori mineralogici del mondo, tutto egli poteva aspettarsi, tranne questo: un uovo di drago? Il nucleo di un motore alieno? Il guscio fossile di una magica lumaca viaggiatrice? Ovvero l’oggetto il quale, puntando la sua fida torcia a raggi UV, rispose a quel bagliore in modo stranamente vivido, mostrando sulla superficie punti e venature di uno splendido color arancione acceso. Qualcosa che nessuno da queste parti, mai e poi mai, poteva dire di aver visto prima. Il che è davvero molto significativo, quando si considera la propensione assai marcata delle genti dello stato settentrionale, omonimo col suo maggiore lago, in cui la ricerca di pietre è una sorta di hobby assai diffuso ad ogni età. Nonché un’effettiva fonte di sostentamento, oltre che di svago, per le molte dozzine di venditori online e altrove dei propri migliori ritrovamenti, attentamente catalogati per peso, rarità e bellezza estetica. Un merito, quest’ultimo, che praticamente nessuno si sarebbe mai sognato di negare a tali fluorescenti pietre, il cui scopritore si affrettò a identificare con il neologismo yooperlites, con tanto di marchio di fabbrica velocemente registrato presso gli enti responsabili del suo paese. E un’etimologia decisamente insolita, derivante a quanto pare dall’unione tra yoopers, slang usato normalmente al fine d’identificare gli abitanti della penisola maggiormente settentrionale (“upper“) tra le due che compongono il Michigan, e un’assonanza con la parola light, che significa luce. Senza neanche un misero riferimento al già noto suffisso greco di lithos (λῐ́θος) che dovrebbe significare in campo scientifico, per l’appunto, pietra. Il che non avrebbe impedito comunque al collezionista di minerali Raymond Laughlin e al geologo Shawn Carlosn di segnalare la faccenda ai ricercatori della vicina Università del Saskatchewan, che senza un’attimo di esitazione, verso la fine di quel maggio stesso, fecero in modo di acquistare una certa quantità di rocce dallo scopritore del misterioso materiale luminescente.
Il quale finì per rivelarsi, dopo un’approfondita analisi chimica e mineralogica, come un qualcosa d’effettivamente nuovo per la sua regione di provenienza, benché tutt’altro che inusitato: sostanzialmente, l’unione estremamente distintiva tra rocce sienitiche (i.e, simili al granito) e copiose quantità di sodaliti, tectosilicati usati spesso in gioielleria, proprio per la propria innata fluorescenza e qualche volta, addirittura tenebrescenza, ovvero la capacità di cambiare colore sotto determinate e specifiche fonti di luce. Come le torce che oggi vengono impugnate, per l’appunto, dagli innumerevoli e speranzosi cercatori di queste rive, frementi nell’attesa di poter portarsi a casa un così affascinante e misterioso souvenir della natura…

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Apre in Spagna il geode visitabile più grande al mondo

Sasso tondeggiante comperato ad una fiera della geologia: “Contenuto a sorpresa. Basta un colpo per scoprire un mondo di colori precedentemente sconosciuti” E voi con il martello, attenti a prendere la mira, che colpite con la giusta forza sulla sommità di un tale oggetto. Nell’attesa e consapevolezza che subito dopo il compiersi del gesto… Meraviglia delle meraviglie! Il pegno è cavo e dentro brillano cristalli… Viola, gialli, rossi oppure trasparenti. Sembra quasi di caderci dentro, perdersi dentro i misteri della Terra stessa. E se vi dicessi, ora, che a partire giusto da oggi esiste l’opportunità di fare realmente una simile esperienza? Dietro pagamento di un biglietto ragionevole, ma soprattutto a patto di trovarsi in un particolare luogo situato nella punta meridionale dell’Andalusia: Pulpì. Comune non troppo lontano dalla costa del Mediterraneo, ma ancor più vicino alle pendici del Pilar de Jaravía, luogo noto per molti secoli a causa della redditizia miniera di argento e piombo, chiamata per l’appunto Minas Rica, che dopo essere stata sfruttata per incalcolabili generazioni, venne finalmente chiusa verso il termine degli anni ’70. Lasciando il campo libero ad avventurieri, speleologi e particolari cercatori di tesori. Come il Grupo Mineralogista de Madrid che nel 1999, durante un’esplorazione di routine a circa 50 metri di profondità, scovò per caso una galleria rimasta troppo a lungo inosservata. Capace di condurre all’interno di uno spazio stranamente cavo ma tutt’altro che VUOTO…
La definizione tecnica di geode sottintende normalmente un tipo di roccia sub-vulcanica con un cavità vescicolare, all’interno della quale figura un qualche genere d’inclusione minerale, normalmente frutto delle particolari condizioni ambientali e l’elevata pressione di così atipiche circostanze. Nel tipo di formazioni appartenenti a questa categoria dalle dimensioni abbastanza grandi da contenere una persona, generalmente lo spazio libero è il frutto di trasformazioni carsiche dovute all’erosione e i sommovimenti delle rocce calcaree, mentre lo splendente tesoro all’interno è molto spesso proveniente dai processi di cristallizzazione del gesso precedentemente disidratato al punto da diventare solfato di calcio, che successivamente al progressivo ritorno dell’acqua nella sua cavità, modifica la propria forma in lunghi e appariscenti cristalli dall’abito trasparente. E la grotta di Pulpì collocata all’interno di rocce dolomitiche di epoca Triassica, sotto questo punto di vista non fa certamente eccezione, data la sua composizione primaria in rocce di selenite, una variante del gesso anche nota come rosa del deserto o solfato di calcio biidrato, che ha la particolare propensione a depositarsi a strati. Ciò che colpisce e costituisce la principale attrattiva di un simile luogo, tuttavia, è la dimensione assolutamente straordinaria di simili formazioni: fino a due metri di lunghezza, con 0,5 di media, praticamente come spade titaniche infisse nella roccia viva di simili, oscure profondità. Un luogo rimasto, per una vasta serie di ragioni, completamente chiuso al pubblico almeno fino ad oggi, data lungamente attesa dell’inaugurazione a tutti gli effetti della location in qualità di ritrovato patrimonio nazionale della sotterranea natura andalusa. Perciò, difficile resistere alla tentazione di farci un salto, (ehm, attenti agli spigoli) nevvero?

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Il caparbio bagliore dell’incendio più antico al mondo

In un momento imprecisato degli anni 60 dello scorso secolo, un pastore si avvicinò distrattamente alle pendici di un declivio montuoso nei pressi della sua città d’origine. Mera collina erbosa nonostante l’appellativo altisonante di Yanar Dağ ovvero “la Montagna che Brucia” dalla provenienza incerta ma forse riconducibile al vago odore di zolfo che da sempre era stato percepito aleggiare nei dintorni. Mentre meditava approfonditamente sulla cosa l’uomo scelse di accendersi una sigaretta, per gettare quindi il fiammifero ancora un poco incandescente verso il tronco contorto di una piccola siepe. “Che cosa potrebbe mai succedere?” Pensò forse beffardamente, ricordando le parole degli anziani venerabili del villaggio, in merito al ritorno delle antiche usanze dinnanzi all’innegabile possenza della natura. Un lieve fruscìo dagli alberi distanti. Il grido di un gabbiano sperduto nell’entroterra. Giusto mentre una fiammata alta all’incirca un paio di metri, eruttando improvvisamente dal profondo, si protese verso l’alto come un tentacolo fermamente intenzionato a stringergli una, o se possibile, entrambe le mani scurite dal Sole: “…Mi pento, mi pento! Sia lode!”
Si estende come un arco di plasma verso il grande azzurro del Mar Caspio, la penisola di Absheran, parte fondamentale di quello che viene talvolta definito: Odlar Yurdu, il Paese [protettore] del Fuoco, anche detto Atropatene, toponimo la cui pronuncia è stata trasformata in Āturpātākān, Ādharbāyagān ed infine, Azerbaijan. Pregno compito non tanto riferito all’elemento che ogni cosa consuma e può distruggere, quando le condizioni sono avverse, bensì la natura stessa e il nesso primordiale, che alberga nel cuore stesso nelle persone, come marchio del creatore Zoroastriano, Ahura Mazda venerato sin dai tempi degli imperatori di Persia. Eppure cosa estremamente rilevante, neanche il primo di questi elementi manca visto e considerato come oltre i confini rilevanti, trovi posto uno dei più vasti, e ancora in parte integri, ricettacoli di gas naturale al mondo. Fonte d’idrocarburi provenienti da foreste preistoriche d’inusitata vastità, rimaste sepolte sotto i ponderosi strati geologici degli eoni, quando la deriva climatica di questo pianeta gli ha impedito di ricreare se stesse oltre le sabbie del Tempo. Il che ha reso, con l’arrivo molto successivo degli umani, un’occorrenza particolarmente rappresentativa la specifica contingenza geologica che trova la definizione internazionale di vulcano di fango, particolarmente nell’intera zona della riserva naturale di Gobustan, situata circa 60 Km a sud-ovest della capitale peninsulare da oltre 3 milioni di abitanti, Baku. Mentre è proprio con l’avvicinarsi verso un così importante centro nevralgico e commerciale del Vicino Oriente, che il calore verso le rivelazioni profetiche del grande Zarathustra, così come quella manifestazione magnifica della sua munificenza, che il “calore” sembra intensificarsi in modo estremamente significativo. Come esemplificato dai tre svettanti e contorti grattacieli da 190 metri noti come Flame Towers, fatti assomigliare dopo il tramonto ad altrettante emanazioni pilota di un fornello da cucina, grazie al sapiente impiego di 10.000 lampade LED dalla colorazione vermiglia. Ma di fuochi tangibili ancorché caldi, oltre che menzionati nelle antiche cronache, alla loro ombra ne campeggiano ulteriori due. Forse non altrettanto alti, ma…

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L’arcano scheletro della foresta che univa le isole inglesi

Ombre scure tra le onde del bagnasciuga, come rocce o antichi fossili dimenticati. Dopo l’ultima tempesta, la spiaggia grigia di Ceredigon (a.k.a. Cardigan Bay) sulla costa occidentale gallese non apparve più la stessa… Qualcosa di diverso interrompeva la monotonia del familiare paesaggio. Era la fine di maggio del 2019, ma un evento simile aveva già avuto modo di verificarsi varie volte in precedenza, l’ultima delle quali nel 2013: quando il vento, la pioggia, il mare mosso avevano collaborato, nel colpire e spazzare via lo strato di sabbia mista a torba di un simile scenario, mettendo a nudo un incredibile reperto morto-vivo risalente a circa 4.500 anni fa. Schiere d’alberi infiniti, pini, querce, betulle, ontani e frassini, o per meglio dire i loro ceppi parzialmente integri, completi di radici. Niente affatto mutati in pietra, ovvero mineralizzati dai processi che trasformano creature organiche in reperti in grado di attraversare immutati gli Eoni; bensì caratterizzati dall’aspetto e quella consistenza, perfettamente riconoscibile, che tende a possedere il legno marcescente. Proprio così: pochi anni sembravano essere trascorsi, soggettivamente, dal momento della loro dipartita. E poiché si tratta di piante, espressioni vegetative del concetto di stesso di sopravvivenza sopra ogni cosa, non pare del tutto impossibile che da un giorno all’altro possano tornare a germogliare. Al canto degli pterodattili nei cieli, mentre in lontananza, sembrano risorgere le risplendenti torri del leggendario Cantre’r Gwaelod, il regno che un tempo si estendeva dal Galles all’Irlanda, prima che un’inondazione del tutto imprevista ne spazzasse via le mura e tradizioni . Un mito, il qui citato, tutt’altro che raro tra i popoli di tutto il mondo, e riconducibile al concetto assai diffuso del Diluvio Universale, benché in questo particolare frangente, l’evidente prova della vegetazione pregressa sembri richiamarsi ad un fatto realmente avvenuto: una colossale e sicura frana, avvenuta secondo i geologi attorno a 6 millenni fa, di tre altopiani sottomarini al bordo estremo della placca continentale norvegese. Nota convenzionalmente come evento di Storegga e capace, secondo una vasta serie di accreditate teorie, di portare alla scomparsa di ampi territori emersi noti come “Doggerland”, sia da un lato che dall’altro di quel luogo che un tempo era una penisola, oggi noto come arcipelago della Gran Bretagna. Niente volontà divina quindi, o alcuna punizione per le malefatte delle genti coéve; bensì pura e incomparabile disgregazione, frutto degli eventi e sconvolgimenti della Terra stessa, che con tanta assiduità, attraverso i secoli, ci nutre. Finché la misura e colma e giunge l’ora, lungamente paventata, di spazzare via i ricordi e dare inizio a un ulteriore capitolo dell’esistenza umana. Ma poiché la natura possiede questa innata tendenza, particolarmente rappresentativa, a resistere ai suoi stessi processi, può talvolta capitare che la particolare composizione del suolo anaerobico, capace di costituire una massa compatta e indivisa, agisca come un frigorifero senza elettricità, preservando ciò che tanto a lungo era stato nascosto agli occhi delle persone. Gente come gli abitanti dei villaggi di Borth e Ynyslas, ormai da molte generazioni rassegnati a convivere con l’avanzata lenta ma inesorabile del livello dell’oceano come dovettero fare, a un ritmo molto accelerato, i loro insigni predecessori. Ma anche i pescatori, bagnanti e turisti della terra emersa a fronte del braccio di mare antistante, quella spiaggia di Youghal in Irlanda, dove molto evidentemente lo stesso accadimento si verifica, a intervalli irregolari, esponendo quello che potrebbe anche essere l’altra estremità del perduto bosco. Dando luogo a un’ampia serie di speculazioni…

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