Gli acrobati del palo salterino

X-Pogo

Questi giovani membri della cricca dei Cooligans dimostrano che si può fare con il giusto grado di pratica e preparazione. Eseguire figure come queste, l’una dopo l’altra e senza errori, non è roba per gli umani. Qui, come per i video di altri sport del ramo, c’è stata un’attenta selezione dei diversi attimi migliori, al fine di produrre un tale quibus coinvolgente. Tutto è perfetto e trascendente, in tale danza di bastoni senza spogliarello. Se poi c’è un contesto strano e nuovo, come certamente è questo, tanto meglio.
Azione: spingere. Reazione: tirare! Saltare oltre ogni limite di umana concezione, staccarsi dal solido suolo che intrappola la psiche insieme al corpo: se mai c’è stato un volo pindarico d’invenzione, è stato certamente quello di chi seppe realizzare il primo Pogo Stick. Il giocattolo talmente statunitense fin dalla sua origine, che qui nella penisola non ha neanche ricevuto un vero e proprio nome. Bastone su-e-giu? Pertica molleggiata? Sbarra rimbalzante? Così si usava definire, assieme a molte alternative, tale oggetto, molto popolare in un tempo alquanto remoto, diciamo verso l’epoca dei nostri genitori. Il progetto risalirebbe, in effetti, al nebuloso 1891, per un brevetto di George H. Herrington del Kansas, poi migliorato dai tedeschi Pohlig e Gottschall, le cui due sillabe d’inizio nome sarebbero, secondo alcuni, alla base del termine moderno, PoGo. Ed era già un trastullo, all’epoca, non privo di pericoli per l’utilizzatore. La cima del bastone, cui ci si abbarbicava neanche fosse un corrimano verticale della metropolitana, ricordava vagamente un dardo pronto a penetrare le mandibole dei bimbi, facendo un buco dritto nel cervello. Ed era proprio quello… Il bello? Diciamolo, la sicurezza non era tra le priorità di chi vendeva un simile balocco. L’aggiunta successiva del caratteristico elemento orizzontale, valido a formare una riconoscibile struttura a T, fece molto per contenere i rischi legali a carico dei produttori. Aumentando in misura direttamente proporzionale l’elemento della noia. Finché a qualcuno, da qualche parte, non venne in mente d’impugnare il tutto in modo nuovo. Pensò costui: “Se ho due manopole, come sulla bici, perché non dovrei curvare a destra e a manca, muovermi per strade inesplorate…” È così che nascono gli sport migliori. Dalla fulminante idea di una mattina, come le altre, all’apparenza, eppur di fuoco torrido e veemente.

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Snowboard che salgono sopra le case

SebToots

Guardate Sebastien Toutant, nato nel 1992, come gira per le periferie della francofona Montréal: piuttosto che percorrerle in discesa, le descrive con il taglio della tavola volante. Ringhiere ringhianti, scalinate, gli spalti di un piccolo campo sportivo, alcuni monumenti con la forma di un declivio di metallo. E sono tanto pratici a grindarli, questi semi-sommersi travi zigzaganti, che quasi sembrerebbero fatti apposta per il suo utilizzo. Parimenti ciascun componente urbano, case incluse, si trasforma per dar sfoggio di una doppia abilità: la sua, di atleta olimpico al confine d’eccellenza, e quella dell’operatore video, colui che, di pari passo, intesse un altro tipo di magia. Quella digitale del montaggio, per togliere le impalcature, i fili della sovversione gravitazionale.
Ci sono sport che danno il meglio sotto l’occhio attento delle moltitudini. Stadi entusiasti, nazioni in festa, grandi sponsorizzazioni, riflettori e troupe televisive dai furgoni con parabole incrociate. Lo snowboarding può fare pure questo, certamente. Chi non ricorda l’iconico Shaun White, “pomodoro volante” dagli Stati Uniti, mentre vinceva l’oro di Torino nel 2006… Il suo trionfo nell’half-pipe, pericolosamente prossimo al punteggio perfetto di 50 cinquantesimi, sembrò ricordare al mondo di una grande verità, all’epoca da molti tralasciata. Che i giovani presunti scriteriati, con una sola tavola attaccata ai piedi, si erano affermati tra la massa degli sport dell’ultima stagione. Come per il surf al mare, come per lo skate delle piscine abbandonate, non può esserci davvero subordinazione culturale, per tali discipline tanto praticate dalla maggioranza. Non posso confermarvi che sia stato quello il cambio generazionale. C’era stato o ci sarà, poco prima o giù di lì: basta fare il conto dei maestri disponibili, ad oggi, sulle tipiche montagne frequentate dal turismo.

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Senza paracadute dentro alla carsica dolina blu

Underwater Base Jump

Esplorazione vuol dire movimento, di chi punta la prua verso la curvatura dell’orizzonte, come pure quello in senso verticale, oltre la tradizionale geografia. L’astronauta di un veliero futuribile, sospinto dalle irradiazioni cosmiche, viaggerebbe verso l’infinito senza utilizzare mappe planetarie bidimensionali, ma con la certezza di una chiara direzione: l’alto matematico, ovvero l’allontanamento dall’amata Terra. Quel gesto verrebbe misurato, per convenzione, in metri di distanza dalla superficie stessa dell’Oceano. Qualcuno, prima o poi, un simile vascello lo progetterà, chissà come! Però nel frattempo, muovendosi da  quello stesso punto di partenza, certi viaggiatori s’immergono all’ingiù, senza troppe considerazioni tecnologiche particolari. Sono i freedivers, coloro che praticano l’immersione intrepida in apnea. Oltre la rigida corazza di un comune palombaro, superando il pericolo d’incorrere in frequenti decompressioni, soprattutto vista l’assenza delle bombole.
Fra loro, il protagonista di questo impressionante video è Guillaume Nery, l’esperto tuffatore che in occasione di una competizione di settore si è dedicato a dimostrare una delle più famose associazioni, quella tra il nuoto, ed il volo. O per meglio dire: la libera caduta, con tanto di terribile accelerazione verso la velocità terminale. Anche questa è esplorazione, sebbene realizzata grazie a qualche trucco di regia, ed al servizio di una metafora, per giunta. Nascosta in fondo a un buco senza limiti, per lo meno all’apparenza:  il Dean’s Blue Hole, dolina carsica* sita in una baia ad Ovest della ridente Clarence Town, popolare destinazione turistico-esterma delle soleggiatissime Bahamas. Un ambiente mai toccato, da che mondo è mondo, dalla chiara luce di una stella. L’abisso della perdizione? Sarà sicuramente familiare, ai più, il concetto del fenomeno dei buchi neri, recentemente messo in dubbio dal grande fisico Stephen Hawking (avrà avuto valide ragioni) ovvero degli astri collassati su se stessi, talune anomalie iper-gravitazionali tanto forti, così inarrivabili, da poter attrarre cose di ogni tipo. Nulla sfugge a tali pozzi, neanche un solo velocissimo fotone; tanto meno, ipoteticamente, lo farebbe quel veliero, con sopra l’astronauta. Ed è questo il cruccio del mistero: se tale foro, come la dolina carsica delle Bahamas, ha un diametro preciso, che si ritente assai ridotto, come mai non è soggetto a crescita costante, mano a mano che divora la Galassia? Ciò che assorbe, compresa quella nave di ventura, da qualche parte deve andare. Se c’è una porta, deve pur esserci una stanza. Ad ogni scala corrisponde un primo piano.
Buchi neri e buchi blu. Nel secondo, in questo caso, è penetrato un altro esploratore, antesignano di un distante mondo, scomparendo dallo sguardo e dall’orizzonte degli eventi. Da qualche parte, alla fine, dovrà pur essere sbucato.

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La battaglia ninja degli alunni sui pali

Bo Taoshi

Banchi di ferro, lavagne d’acciaio, demoni dietro le cattedre in fiamme. Soltanto sul finire dell’ora di educazione fisica, lo dicono gli astri, ne uccide di più la matita – gigante – che una mera katana. Senza la grafite dentro, per scrivere, ma con una persona sopra, per vincere. Lo chiamano il ninja, ed è uno, di due, ciascuno con schiera di armigeri al seguito. In controluce già si scorge il nemico. Ci sono 75 guerrieri per parte. Soltanto lui resterà, alla fine, sopra quegli altri. Altrimenti, dove lo metti l’onore del clan? Ecco lo sparo del VIA, signori, ammucchiatevi! Ganbare!
Nell’immaginario fantastico del Giappone post-moderno, fatto di manga, cartoni e romanzi, la scuola diventa il più variegato dei campi di battaglia. Spopolano le figure di giovani eroi, prescelti dal destino, evocatori di mostri tascabili o di enormi robot; fanciulle depositarie di antiche tradizioni marziali, vendicatrici di torti subiti; samurai viaggiati nel tempo, figli segreti di antichi guerrieri, con pagelle tutt’altro che immacolate. Non importa quanto la narrazione debba discostarsi dal mondo reale, se siano bizzarri quei suoi presupposti, i viaggi nel tempo, le invasioni aliene…L’analogia di successo è sempre quella: si studia, come si va in guerra. Contro le ingiustizie, verso un bene superiore, a beneficio della propria famiglia e perché no, pure del mondo intero. È un’iconografia ricorrente, che allude a un concetto molto importante per quella cultura dell’Estremo Oriente: la meritocrazia di Confucio. Per questo, nella scena caotica di una partita di Bo-Taoshi (棒倒し) lo sport del “palo che cade”, non si dovrebbe vedere un’incitazione accademica alla violenza. Qui si tratta, piuttosto, di cementare lo spirito di corpo, creare legami tra giovani che durino a lungo. Un po’ come nelle partite di football dei college statunitensi. Con qualche concessione in meno alle implicazioni commerciali ed al merchandising, come, del resto, pure alla sicurezza.
La più famosa di queste tenzoni si svolge, ogni anno, per l’arrivo dei nuovi cadetti dell’NDA, l’Accademia Nazionale di Difesa del Giappone. Loro è l’onore di aprire le danze. Ci sono due squadre, per un totale di 150 persone. Ciascuna deve difendere un palo, facendo cadere quello dei propri rivali. Sopra ci sono i due leader, che inclinandosi prima da una parte, poi dall’altra, dovrebbero contrastare la spinta del fiume nemico. Calci, pugni, spinte sono legali. Il combattimento individuale, invece, viene scoraggiato. Tutti lavorano, combattendo, per l’onorevole collettività.

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