L’unica ruotina più veloce è la paura

Longboarding James Kelly

Preparatevi, futuri cultori dell’arte perigliosa del downhill, perché sto per confidarvi una questione sconvolgente. Un dato così terribile, mostruosamente spaventoso, che potrebbe sovvertire le radici stesse della vostra pace quotidiana. Skeleton thread, il filo dello scheletro: percorrevo semi-addormentato, l’altra sera, le regioni occulte della rete internettiana, tra gruppi scapestrati di scrittori dilettanti, appassionati di storielle senza senso e zombies aziendali con la missione di evangelizzare l’ultimo giochino per i cellulari. Quando in mezzo a un tale turbine di frasi illogiche, eppure ricche d’entusiasmo, scorgo il bianco volto del destino: miseri resti di un supremo negromante. Qualcuno, forse lui stesso dalla tomba sotterranea ove riposa, aveva pubblicato quella foto in cui non campeggiava neanche un solo grammo di carnosa e soffice presenza. Né labbra, naso e sopracciglia. Tutto denti ghignanti, un tale volto, e spigolosi zigomi, con sopra i buchi neri delle orbite abissali. Capelli, cosa sono? Se la morte dovesse venire, come nei racconti medievali, a prelevare di persona i suoi perseguitati, certamente lo farebbe a guisa di quell’individuo macabro e spietato. Ma mentre meditavo sulla situazione, dinnanzi allo sfavillar del monitor notturno, avvenne l’impossibile: d’un tratto, l’intera community del sito si era trasformata. Piuttosto che pubblicare, ancora e poi di nuovo, le stesse quattro immagini di cani giapponesi, tutta l’intera armata si era raccolta spontaneamente, sotto alla foto dello scheletro iniziale. E allora, fu la danza macabra, di nuovo. Alti, bassi, lunghi e corti. Milioni d’ossicini e pixel spaventosi, animati da una forza stregonesca, terribili guerrieri, con spada, scudo ed elmo da vichingo, oppure semplici passanti sulle strade cittadine, in mezzo ad uomini normali, teschi con fedora e valigette da lavoro. I più terribili, questi ultimi, proprio perché ignorati. “Allora c’è una cospirazione!” Iniziai pensare. “Gli scheletri camminano fra noi.” Ah! Che ingenuità. La situazione è anche peggiore, di così.
James Kelly, professionista celebrato del suo ramo, osserva l’alba da una cima delle Western Sierras, in California, a pochi chilometri dalla seconda casa della sua famiglia. Dove crebbe, insistendo e giocando a perdifiato, finché non gli spuntarono le ruote sotto i piedi. Di uno skateboard come gli altri, all’apparenza, eppure destinato a far la differenza. I condor gridano la loro furia dai distanti cieli, mentre le nubi si arrovellano tra le orbite dei mercuriali lidi. È giunta l’ora di partire? Guardate, per crederci! In questo video prodotto dalla Arbor, compagnia specializzata in tavole da corsa, lui sfiora la velocità del suono, tra curve serpeggianti, ripidi dirupi e soprattutto, qualche volta, auto contromano. Dev’essere estasiante. Percepire ogni leggera asperità dell’asfalto, trasmessa come corrente elettrica fino ai propri organi sballottati un po’ qui, un po’ là, mentre ci si piega a 80-90 Km/h (o anche più). Non. Provateci, naturalmente. Qui c’era l’apporto, oltre all’abilità dell’individuo, di un’intera troupe di supporto, posizionata strategicamente a fare segni agli automobilisti. Si può quasi dire che costui corresse in sicurezza. Quasi! Benché va detto, la ragione è comprensibile, condivisibile, persino. Era una fuga folle dallo scheletro nascosto, che…

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AirDog, un occhio automatico nel cielo

AirDog

Al momento sussiste questa strana dicotomia, nell’ambito degli sport d’azione, che vedrebbe surfisti, skateboarders, kiteboarders etc, come una sorta di piloti della domenica, costretti ad apprendere i principi operativi del quadricottero, piuttosto che fare pratica in ciò che davvero è importante per loro. Chiunque abbia percorso a velocità della luce dirupi scoscesi, o sia stato sospinto dalle onde impetuose verso il tramonto, ben conosce la problematica di cui sto parlando: senza drone, che ci vai a fare? Una considerevole parte della recente proliferazione di simili attività scavezzacollo, fondamentalmente, può essere attribuita ai recenti meriti della tecnologia; per la prima volta, tutto è documentabile, può essere registrato e caricato su Internet in pochi minuti, direttamente sul campo. Basta una sim. Però che noia la classica inquadratura da terra, magari fuori fuoco! La chiara prova che l’amico vorrebbe partecipare anche lui, piuttosto che essere altrove (a casa a dormire, a casa a mangiare…) A volte, chi fa da tre, fa per se. Primo elemento: un dispositivo da polso di tracciamento poco più piccolo di un cellulare, antiurto e a prova d’acqua, con al suo interno una serie di sensori e un clever software, come lo chiamano i produttori, che sa sempre dove si trova, grazie al GPS. Secondo elemento: tu, l’atleta. Terzo elemento…
AirDog, il cane volante, è leggero, resistente e compatto. Può essere ripiegato su se stesso. Non mangia e non sporca, nonostante abbia bisogno di un metaforico guinzaglio, fatto d’aria e di un segnale radio che gli permette, senza intoppi e senza falle, di seguire da presso il suo intrepido padrone. Per mari e per valli, dalle radici alle cime dei massicci montuosi più alti. Senza mai sbagliare un’inquadratura, perché dispone di sei specifiche modalità: completamente automatico, per seguirti liberamente con una velocità di fino a 65 Km/h; posizione relativa rispetto al nord magnetico, per avere una visuale maggiormente stabile; modalità circuito, per chi, ad esempio, sta praticando un sport motoristico di qualche tipo; posizione fissa, affinché la testina automatica della videocamera, indipendente dal movimento del drone stesso, si occupi di tutto il lavoro; e per finire, pattugliamento in cerchio; ripresa dritta verso il basso. Funzione pensata, quest’ultima, per chi avesse voglia di riprendere un singolo spettacolare salto in verticale, magari con la bici o la moto da cross. Emblematico lo scherzoso suggerimento, riportato sulla pagina del prodotto: “State attenti a non andare troppo in alto.” I cani sono buoni. I cani sono belli. Ma se li stuzzichi andandoci contro, mah?

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A 332 Km/h tra gli alberi e le case

Bruce Anstein Snaefell

6 giugno 2014: il sole sorge come tutti i giorni sopra l’isola minore del freddo Mar d’Irlanda. Ma sulle rocce di Ellan Vannin, antica dipendenza della Corona Britannica, nessuno siede ad aspettare l’alba. Le finestre sono chiuse. Le porte sbarrate. Rigidi edifici temporanei, simili ai gradoni di un anfiteatro, fiancheggiano le strette strade di campagna. Li hanno eretti in una notte, coltivando il seme della folla effervescente. Sono tutti lì, gli abitanti, pronti al via! È proprio questa, infatti, la data in cui tiene l’annuale Tourist Trophy, la gara che ricopre d’adrenalina fulgida e di fiamme l’intero percorso ripido della Mountain Road, anche detta Snaefell, comunemente nota come: pista dell’Isola di Man. Che non è una “pista”, ovviamente, bensì l’incubo degli addetti alla sicurezza provenienti da ogni angolo del mondo. Il terrore di parenti e genitori. Il sottile bracciale d’asfalto serpeggiante, lungo 60 Km e con 206 curve, ciascuna dedicata alla vicenda di un pilota, che lì avrebbe vissuto un attimo fatale. Un magico sorpasso, oppure un tragico incidente; qualche volta, purtroppo, la fine stessa della vita: le cronache parlano, tra il 1907 ed 2009, di un totale di 241 morti, fra le curve e le cunette di un simile sentiero della perdizione. E della Gloria, al tempo stesso.
Qualche giorno fa un utente di YouTube, senza autorizzazione, aveva caricato il video completo del giro record effettuato dal neozelandese Bruce “Almighty” Anstey, ripreso tramite l’impiego della telecamera di bordo (sarà stata una GoPro?) Per poi ritrovarsi (giustamente) bloccato dai legittimi detentori dei diritti, i titolari del canale ufficiale della gara – ecco, dunque, uno spezzone di presentazione lungo due minuti, propedeutico all’acquisto dell’intera sequenza, per l’irrisorio costo di due dollari e 99. Diciamo la verità: per noi neofiti, pure questo assaggio può bastare. Nei due minuti di sequenza possiamo osservare il 44enne, a bordo della sua Honda CBR1000RR, mentre demolisce il precedente primato di velocità assoluta presso il rettilineo di Sulby, con un picco di 332 Km/h, per poi procedere in quello che sarebbe stato il giro con velocità media più lungo nella storia del Gran Premio: 212.913km/h. Un successivo errore su una curva, tuttavia, gli avrebbe precluso la vittoria nella gara, che si è aggiudicato invece l’irlandese 25enne Michael Dunlop, già detentore di altre 10 precedenti, nonché nipote del più celebrato pilota del TT: Joey Dunlop (1952-2000, 26 vittorie in totale).
La sensazione di velocità che restituisce questo video è qualcosa di assolutamente…Inimmaginabile. Piccoli dettagli all’orizzonte, nel giro di due secondi, spariscono ai margini dell’inquadratura, già gettati oltre, superati come ostacoli di poco conto. Ci si immedesima, alla fine. L’eroe corre verso l’orizzonte, liberandoci, per qualche attimo, dalla percezione della nostra stessa vulnerabilità.

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Gli acrobati del palo salterino

X-Pogo

Questi giovani membri della cricca dei Cooligans dimostrano che si può fare con il giusto grado di pratica e preparazione. Eseguire figure come queste, l’una dopo l’altra e senza errori, non è roba per gli umani. Qui, come per i video di altri sport del ramo, c’è stata un’attenta selezione dei diversi attimi migliori, al fine di produrre un tale quibus coinvolgente. Tutto è perfetto e trascendente, in tale danza di bastoni senza spogliarello. Se poi c’è un contesto strano e nuovo, come certamente è questo, tanto meglio.
Azione: spingere. Reazione: tirare! Saltare oltre ogni limite di umana concezione, staccarsi dal solido suolo che intrappola la psiche insieme al corpo: se mai c’è stato un volo pindarico d’invenzione, è stato certamente quello di chi seppe realizzare il primo Pogo Stick. Il giocattolo talmente statunitense fin dalla sua origine, che qui nella penisola non ha neanche ricevuto un vero e proprio nome. Bastone su-e-giu? Pertica molleggiata? Sbarra rimbalzante? Così si usava definire, assieme a molte alternative, tale oggetto, molto popolare in un tempo alquanto remoto, diciamo verso l’epoca dei nostri genitori. Il progetto risalirebbe, in effetti, al nebuloso 1891, per un brevetto di George H. Herrington del Kansas, poi migliorato dai tedeschi Pohlig e Gottschall, le cui due sillabe d’inizio nome sarebbero, secondo alcuni, alla base del termine moderno, PoGo. Ed era già un trastullo, all’epoca, non privo di pericoli per l’utilizzatore. La cima del bastone, cui ci si abbarbicava neanche fosse un corrimano verticale della metropolitana, ricordava vagamente un dardo pronto a penetrare le mandibole dei bimbi, facendo un buco dritto nel cervello. Ed era proprio quello… Il bello? Diciamolo, la sicurezza non era tra le priorità di chi vendeva un simile balocco. L’aggiunta successiva del caratteristico elemento orizzontale, valido a formare una riconoscibile struttura a T, fece molto per contenere i rischi legali a carico dei produttori. Aumentando in misura direttamente proporzionale l’elemento della noia. Finché a qualcuno, da qualche parte, non venne in mente d’impugnare il tutto in modo nuovo. Pensò costui: “Se ho due manopole, come sulla bici, perché non dovrei curvare a destra e a manca, muovermi per strade inesplorate…” È così che nascono gli sport migliori. Dalla fulminante idea di una mattina, come le altre, all’apparenza, eppur di fuoco torrido e veemente.

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