Nella sequenza culmine di una buona parte della cinematografia di genere catastrofista-fantascientifico, si assiste spesso al trionfo della professionalità acquisita: come in Armageddon di Michael Bay, che finisce per diventare un elogio del mestiere dei trivellatori petroliferi, o nella vicenda del pilota di caccia statunitensi Will Smith in Indipendence Day, che si dimostra perfettamente capace d’impugnare i controlli di un velivolo spaziale nel momento della suprema verità. Se pensiamo invece al più recente Pacific Rim d’altra parte, coi suoi robot giganti che affrontano la rielaborazione hollywoodiana dei kaiju (mostri giganti) provenienti dal Giappone, possiamo chiaramente ricordare le difficoltà incontrate dal protagonista e gli altri personaggi nel far muovere tali campioni ingegneristici del pianeta Terra.
Questo perché, per loro massima quanto evidente sfortuna, il regista Del Toro non ha pensato a includere nella storia il singolo mestiere moderno che richieda l’interfaccia più simile a quella di un meccanismo antropomorfo gigante: sto parlando, tanto per essere chiari, di coloro che si allenano ogni giorno nel mettere a frutto lo strumento di una Spinnenbagger (trad. italiana: scavatrice ragno). Quel tipo di dispositivo svizzero per definizione, o veicolo che dir si voglia, che una volta giunto sul posto in cui fare l’impiego della sua benna mobile, piuttosto che aspettare di essere scaricato dal camion di trasporto estende le “zampe” anteriori fino terra, mentre le altre vengono impiegate per spingere il grosso del suo peso fuori dal cassone di metallo. E che dinnanzi a un ripido pendio, invece che sfruttare la comune rotazione dei quattro pneumatici motorizzati, ne solleva un paio agevolmente per posizionarli un po’ più in alto, mentre si mantiene in equilibrio con il lungo braccio, quindi fa lo stesso con il retrotreno, avendo cura di allargare gli arti al fine di abbassare il proprio baricentro. Chiunque dovesse trovarsi ai comandi di una tipica Menzi Muck ad esempio, mezzo appartenente alla serie più famosa nel mercato di settore internazionale, esattamente come il personaggio folkloristico tedesco da cui prende il nome (il piccolo Muck) non si lascerà scoraggiare da alcun tipo di pendenza, voragine, pendio o ostacolo di altra natura, ben sapendo che una giusta combinazione di comandi impartiti attraverso la nutrita collezione di leve, pulsanti e joystick presenti nel suo abitacolo, può arrivare a dirimere qualsiasi tipo di questione.
Per quanto concerne l’origine remota di questi letterali fulmini del cantiere, d’altra parte, non possiamo fare a meno d’individuare un altro luogo comune derivante in via diretta dal mondo del fantastico: quello secondo cui i due principali rivali, o per meglio dire dopo il loro decesso in tarda età le aziende che hanno rispettivamente fondato negli anni ’60, erano un tempo amici e collaboratori, resi concorrenti dalla rispettiva visione sulla strada da intraprendere a partire dalla loro epocale collaborazione. Sto parlando di Edwin Ernst Menzi (1897-1984) e Joseph Kaiser (1928-1993) che secondo quanto riportato nel libro commemorativo del 2015 “Cento anni d’innovazione. Cento anni di KAISER” s’incontrarono per l’esigenza del secondo di un terreno presso la città svizzera di Widnau dove mettere alla prova la sua personale visione per un nuovo tipo di scavatrice, finendo quindi per collaborare ma soltanto nel perfezionarne i più minuti e secondari dettagli. Mentre per quanto riguarda l’altro lato della barricata, benché manchi un tipo di comunicazione aziendale storica altrettanto approfondita, si riesce a desumere dal boilerplate Menzi un’attribuzione non meno esclusiva al proprio fondatore dei meriti di partenza. Espletati tramite la dimostrazione al pubblico in svariate fiere della MUK 2000 (Menzi Und Kaiser) nel 1965, il primo mezzo semovente fornito di quattro zampe, benché il suo livello di comfort e praticità d’impiego venga oggi descritto come paragonabile “a quello di una cabina telefonica”. Ovviamente, c’è sempre spazio per migliorare.
Europa
L’invenzione norvegese dell’unico skilift per ciclisti al mondo
Quando s’inizia ad andare a lavoro in una grande città, avvengono alcuni cambiamenti negli schemi mentali di chi guida che lo portano, per la prima volta, ad invidiare concetti e situazioni del tutto nuove. È impossibile dimenticare ad esempio la prima volta in cui, bloccati temporaneamente a un semaforo, ci si ritrova affiancati da colui o colei che può definirsi tanto eccezionalmente fortunato/a, da poter vivere il proprio pendolarismo a bordo di un velocipede a pedali. Chiusi nella propria letterale capsula di metallo, dietro un parabrezza raffreddato con l’aria condizionata, rivolgere il proprio sguardo verso chi, di suo conto, possiede ancora il coraggio e il diritto di affrontare il clima, le intemperie, quel salutare sforzo dei muscoli finalizzato a raggiungere una meta (assai meno) distante. Un’eventualità che appare tanto più probabile, quanto maggiormente ridotta è la dimensione dell’agglomerato urbano in cui si trascorrono i lunghi anni della propria vita, nel sempiterno rispetto di una curva probabilistica che non può che diminuire col progressivo aumentare di due fondamentali “D”: la Distanza ed il Dislivello.
Così per chi vive a Trondheim nel Trondelag, regione relativamente popolosa della Norvegia, un’estensione di “appena” 341 Km e circa 187.000 abitanti assicurano a una percentuale relativamente elevata di potersi recare spostare facendo ricorso esclusivamente ai pedali e la propria energia muscolare. Tranne che per un piccolo, importante problema: le pendici dell’alto monte Storeya, che gettando le proprie radici verso la parte occidentale del centro abitato, garantiscono un sollevamento discontinuo del territorio fino al di là del tortuoso fiume Nidelva. Il che colloca, esattamente in corrispondenza del Ponte Vecchio (Gamble Bybro) una ripida salita che conduce, tra tutte le mete possibili, alle porte del quartiere Bakklandet dove si trova l’Università. Cinque metri più in alto di dove si era partiti. Ora quando si è studenti o insegnanti in un centro abitato di dimensioni medio-piccole, molto spesso la bicicletta diventa un mezzo talmente pratico e conveniente da risultare praticamente obbligato. Se non fosse per quel singolo tratto di strada il quale, ogni giorno, portava i percorritori a raggiungere l’obiettivo con un residuo senso d’affanno e latente sfinimento.
Fortuna volle tuttavia che, nei primi anni ’90, questo stesso tragitto facesse anche parte dell’esperienza personale di Jarle Wanvik, fondatore e presidente della società ingegneristica Design Management AS, il quale aveva un’idea e a conti fatti, il coraggio di arrivare a vederla realizzata. Ragione per cui, stanco per l’ennesima sudata primaverile o estiva (dopo tutto, da queste parti possono fare FINO A 18-20 gradi!) decise di andare dal sindaco o il suo assessore di turno, proponendo ciò che aveva prodotto l’ultima volta che si era seduto al tavolo da disegno: una sorta di nastro trasportatore da seppellire sotto il cemento cittadino, finalizzato a far muovere un lungo susseguirsi di piccoli vagoni. Alcuni dei quali dotati, ad intervalli regolari, di quello che poteva essere soltanto un appoggio per piedi umani. Nasceva così la prima versione di Trampe, ascensore per biciclette, dispositivo capace non tanto di abbreviare le distanze di un quotidiano tragitto, quanto di eliminare, letteralmente, l’ostacolo che riusciva in qualche modo a tagliarlo in due. A patto di aver richiesto al comune l’apposita scheda perforata, dal costo che possiamo soltanto presumere assai ragionevole visto che dal 2013, come parte di una manovra inclusiva e democratica, è stato completamente ridotto a zero.
L’uccello che diventa un pericolo se s’innamora

Bere un bicchiere o due di troppo di pregiata vodka russa non è probabilmente un’ottima idea quando si sta uscendo di casa per andarsi a fare quattro passi nella foresta più vicina. E in effetti non c’è alcuna prova che il protagonista del video intitolato “Храбрый глухарь 3” (Urogallo coraggioso 3) abbia fatto questo specifico tipo di errore, se non gli stereotipi nazionali privi di fondamento e la sua reazione potenzialmente troppo rilassata all’episodio di quell’infuriata creatura dal becco ricurvo, il contegno impenitente e un peso approssimativo di 7 Kg, paragonabile a quello di un grosso gatto che ha ormai smesso, da qualche pericoloso minuto, di fare le fusa. Chi può dirlo: potrebbe trattarsi soltanto di una personale propensione all’imprudenza. E di certo io non avrei fermato frettolosamente il fuoristrada per l’avvistamento improvviso a margine del percorso sterrato di un Tetrao urogallus, comunemente detto gallo cedrone, soltanto per andare a sedermi vicino alla poco familiare creatura, allo scopo di stuzzicarla e farmela salire addosso nella versione aviaria di quel particolare tipo di roulette, che prevede la rapida rotazione del tamburo di una pistola dopo aver caricato un singolo proiettile nello stesso. Ma d’altra parte, in nessun caso potremmo affermare di avere a nostra disposizione un numero sufficiente d’informazioni per contestualizzare una simile contingenza.
Sappiate ad ogni modo che c’è una cosa, in particolare, che tutti dovrebbero sapere sul membro più imponente del genus dei Tetraoni, suddivisione ulteriore della stessa famiglia a cui appartengono i fagiani (il quale non potrebbe avere meno a che vedere, in effetti, con il comune pollo domestico): nella stagione degli amori, gli esemplari maschi tendono a diventare lievemente aggressivi. E con lievemente intendo che, nell’epoca in cui simili creature erano ancora comuni nel territorio italiano anche al di fuori di poche incontaminate foreste al Nord, faceva parte della comune sapienza popolare l’idea che all’inizio della primavera, il Diavolo in persona salisse in superficie, allo scopo d’influenzare personalmente il comportamento dei suoi più improbabili rappresentanti in Terra. Questo perché nel momento in cui iniziano ad essere costituiti i cosiddetti lek, o raduni per la competizione tra maschi allo scopo di accoppiarsi con il maggior numero possibile di controparti femminili, il gallo cedrone assume un comportamento aggressivo che lo porta a sfidare direttamente non soltanto altri membri della sua stessa specie, talvolta finendo per combattere fino alla morte, ma anche tronchi d’albero, automobili, potenziali predatori, macigni inamovibili e qualora se ne presentasse l’occasione, membri malcapitati del genere umano.
Capitati male, malissimo. Perché la tipica reazione di chi viene aggredito da un pollo tende a configurarsi con quel tipo di sorpresa che conduce immancabilmente all’ilarità, il che vista la somiglianza del tutto accidentale tra il verso chiocciante dell’uccello e le grasse risate prodotte dal nostro apparato fonatorio, non può che farlo arrabbiare ancor di più. E se pensate che niente di veramente problematico possa nascere da tutto questo, osservate adesso l’esperienza di un altro incauto frequentatore dei boschi dell’Est Europa…
Picchio insistente, verso stridente, collo di serpente
Sarebbe certamente irrispettoso paragonare il complesso sistema di processi chimici, biologici e termodinamici alla base della vita di un uccello allo scatto di una molla tra ingranaggi meccanici, cuore funzionale di un giocattolo alimentato coi metodi di un tempo. In un mondo in cui il divertimento, per grandi e piccini, è sempre maggiormente interconnesso a pixel digitali luminosi che s’inseguono da un lato all’altro del display del cellulare, mentre i neuroni del cervello umano tentano d’interpretarli come pesci ed astronavi, scegliere di far passare il tempo traendo svago da un curioso movimento, avanti e indietro, avanti e indietro avanti e… Questo ed altro, può succedere, a coloro che hanno la passione delle cose vere. Poiché sanno che il sincero senso della meraviglia non è sempre virtuale. Ma tangibile, come il soffio lieve delle penne trasportate via dal vento, assieme al loro aviario e avìto possessore. Picchio, sulla base della propria discendenza. Eppur non picchio, genetica a parte, perché vive in modo totalmente differente. Zampettando in terra, piuttosto che attaccato agli alberi, senza fare nessun buco ma cercando quello di altre specie. Ed infilando la sua lunga lingua appiccicosa nelle tane di formiche ed altri insetti. E quando tu dovessi scegliere di sollevarlo, prenderlo in mano e metterlo dinnanzi all’obiettivo della telecamera, trasformarsi nella bestia che più d’ogni altra è il segno del terrore degli uccelli; un sibilo strisciante, sempre semovente, subdolo serpente.
Certo, il suo metodo recitativo è largamente aperto a una pluralità d’interpretazioni. Così gli antichi, fin dall’epoca in cui i greci erano soliti chiamarlo iunx, piuttosto che l’astuto mimetismo in tutto questo erano soliti vedere il metodo mistico per fare un qualche tipo di stregoneria. Al punto che il termine in lingua inglese jynx (maleficio) ha una provenienza etimologica che permette di ricondurlo fino a questi volatili, il cui areale migratorio si estende per buona parte d’Europa, l’Asia Occidentale e la parte nord dell’Africa; in epoca medievale, quindi, diventò diffusa la credenza secondo cui legare una di queste creature a un lungo spago, lasciandola volteggiare sulla testa del bersaglio del nostro amore, avrebbe in lei o lui indotto sentimenti equivalenti e irresistibili, senza neppure far ricorso a costosi filtri o altri metodi da fattucchiera. Nome scientifico: Jynx Torcicollis. Ma voi chiamatelo, se preferite, semplicemente torcicollo. Questo è un uccello piuttosto comune in Italia, eppure non così noto tra il pubblico generalista. Poiché prima di conoscere il suo curioso atteggiamento difensivo, benché simpatico e aggraziato, non pare dimostrare alcuna caratteristica particolarmente distintiva. Uccello snello della lunghezza di 16 cm circa, con una cresta poco pronunciata e colorazione criptica marrone chiaro a macchie, restituisce un’impressione che lo fa assomigliare maggiormente a un tordo piuttosto che ai suoi cugini picchi, famosi per il piumaggio dai fantastici contrasti bianchi, neri e rossi. La coda è tonda e corta, senza le rigide piume concepite per bilanciarsi verticalmente mentre si scala la superficie ruvida di un tronco. Questo perché l’attività di foraggiamento tipica del simpatico volatile, nei fatti, si configura come quella di un comune passero e piccione, mentre percorre saltellando le verdeggianti radure dei boschi o i frutteti, alla ricerca dei piccoli artropodi o vermi di cui si nutre. Il becco è lungo e a forma di cono, ma non appuntito quanto quello di chi si organizza per sopravvivere scavando all’interno del legno degli alberi stessi. Per quanto concerne il nido, d’altra parte, il torcicollo è solito adottare un atteggiamento fortemente opportunista. Trattandosi di un uccello che non ha mai imparato, attraverso la sua lunga evoluzione, a raccogliere rametti ed intrecciarli in corrispondenza dei rami, la sua propensione è quella di trovare una cavità precedentemente abbandonata da altri picchi e deporvi all’interno le proprie 7-10 (fino a 12) uova. Eppur nel caso in cui una tale opportunità dovesse mancare di presentarsi, non perdendosi affatto d’animo, maschio e femmina saranno pronti a collaborare per prendere letteralmente d’assalto la tana arboricola di qualcuno di più piccolo, scacciando i genitori e scaraventando uova e pulcini oltre il baratro della non-esistenza. Per questo stiamo parlando di un uccello che fu sempre associato, nell’immaginario comune, allo spietato cuculo con i suoi metodi da parassita genitoriale, benché a voler essere pignoli, il crimine costituisca per lui soltanto l’ultima risorsa, piuttosto che l’abitudine. Perché non si può sempre interpretare il ruolo del serpente, senza scivolare, almeno una volta, nella rettiliana insensibilità dei processi cognitivi applicati alla convenienza…


